Zelensky vuole l’ultimo passo dell’escalation, l’Ue cede?

I prossimi passi sono gli F16 e un’accelerazione dell’entrata dell’Ucraina nell’Unione europea. Gli esiti della spettacolare tournée tra Londra, Parigi e Bruxelles di Volodymyr Zelensky sembrerebbero aver avvicinato molto gli obiettivi che l’uomo di Kiev persegue con ostinazione da quando la sciagurata “operazione speciale” di Vladimir Putin ha scatenato una guerra che è diventata sempre più estesa e crudele. Se solo quarantotto ore fa Joe Biden rispondeva ai giornalisti accreditati alla Casa Bianca che niente è cambiato nella strategia americana e che gli Stati Uniti restano fermi nel no alla fornitura dei jet all’Ucraina, in Europa si sono sentiti toni assai diversi. Prima nell’incontro che Zelensky ha avuto mercoledì con il premier britannico Rishi Sunak a Londra, il quale ha dato la decisione di fornire aerei da caccia già quasi per presa, poi per quel poco che si è saputo dai colloqui confidenziali a tre con Emmanuel Macron e Olaf Scholz a Parigi (e senza Giorgia Meloni che, come vedremo, non l’ha presa per niente bene), preceduti da una vaga ma a suo modo impegnativa assicurazione del presidente francese sul fatto che della questione “si discuterà”, e infine negli incontri che ha avuto a Bruxelles con i massimi dirigenti dell’Unione.

I “jet necessari”

Sugli F16 la più esplicita è stata la presidente del Parlamento Roberta Metsola, la quale, aprendo la seduta dell’assemblea con Zelensky in aula, dove è stato accolto da un grande applauso, gli ha detto che per “onorare il sacrificio che il vostro popolo ha sopportato per l’Europa” gli Stati “dopo i fondi, gli aiuti per la ricostruzione e l’addestramento delle truppe” debbono “considerare rapidamente, come passo successivo la fornitura di sistemi a lungo raggio e dei jet necessari per proteggere la libertà che troppi hanno dato per scontata”. I “jet necessari”: gli F16 multifunzione, utilizzabili cioè per i combattimenti aerei ma anche per colpire obiettivi a terra, che gli americani (per ora) negano ma che potrebbero arrivare dalla Polonia, il cui governo considera la cosa possibile fin dall’inizio della guerra, o da qualunque altro dei 12 paesi della NATO che ne posseggono (l’Italia 34). Si tratterebbe dell’ennesima barriera sfondata dalla escalation delle armi fornite dall’occidente all’Ucraina. Quella che i russi hanno più volte e chiaramente indicato come il passaggio che considererebbero come un intervento diretto della NATO nel conflitto. Può darsi che sia un bluff, ma andare a vederlo potrebbe essere fatale.

Non hanno parlato di aerei la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio Charles Michel, ma hanno abbandonato ogni riserva, e ogni prudenza, sull’altro dossier sul quale il presidente ucraino sta forzando da quando è cominciata la guerra: i tempi e i modi dell’ingresso nell’Unione europea. Né si è trattato soltanto di esercizi retorici – come quello cui si è abbandonato prendendosi molto sul serio l’uomo di Kiev dichiarando ai leader riuniti nel Consiglio che “se mi aiuterete a difendere la sicurezza in Europa e a garantirla nel lungo periodo, vi garantisco che i vostri nomi entreranno nella storia dell’Europa assieme a quelli di Robert Schumann e Jean Monnet” – ma di riconoscimenti e di impegni precisi. Michel, parlando anche a nome di von der Leyen ha detto che “siamo impressionati dal lavoro compiuto dall’Ucraina nell’attuazione delle riforme per l’adesione all’Ue” e a fine anno “valuteremo i progressi”.

Non si sa quali siano questi “progressi”. A Kiev è appena scoppiato un clamoroso scandalo di corruzione proprio sugli aiuti e le forniture militari occidentali e l’assenza di corruzione è uno dei requisiti fondamentali che i Trattati europei richiedono ai paesi candidati all’adesione, insieme con il rispetto dello stato di diritto, la stabilità democratica, la tutela delle minoranze e la pace sul territorio: tutti capitoli sui quali il meno che si possa dire è che l’Ucraina non sia proprio al passo.

Propaganda

L’impressione è che si galoppi spensieratamente sul terreno della propaganda. Ci vorranno molti cambiamenti e molto tempo prima che l’Ucraina sia pronta ad entrare nell’Unione e che l’Unione sia pronta ad accoglierla: illudere gli ucraini, non tanto i dirigenti politici che conoscono la realtà, ma i cittadini che più che mai in questi tempi terribili sinceramente aspirano ad “entrare in Europa” può essere un grave errore delle autorità di Bruxelles. E però anche la propaganda è un fatto destinato ad avere conseguenze nel conflitto quanto i carri armati e i caccia bombardieri. Non solo Zelensky, ma anche von der Leyen, Michel, Metsola, una buona parte del parlamento europeo usano l’adesione dell’Ucraina all’Unione europea come una clava da abbattere sul cranio di Putin. Come se si trattasse dell’ingresso nella NATO, quello che i russi temono come la peste (i russi, non solo Putin) e la cui prospettiva è stato uno dei fattori alla base della criminale scelta dell’aggressione.

Si rischia che si riproponga con l’Ucraina lo stesso errore che fu compiuto al momento dell’allargamento della UE agli altri paesi ex satelliti di Mosca. In una buona misura, allora, le classi dirigenti dei paesi del cosiddetto gruppo di Visegrád videro in quell’allargamento non tanto l’adesione al disegno di una costruzione europea che superasse in una comunità di valori e di princìpi le divisioni e le rivalità tra le nazioni, ma l’assicurazione di un’appartenenza occidentale che proteggesse la loro indipendenza dal Grande Vicino che per decenni li aveva soffocati. Considerarono (e continuano a farlo) l’Unione europea il bastione della loro ritrovata sicurezza nazionale come la NATO e – sia detto per inciso – gli americani e molti esponenti politici europei incoraggiarono questa identificazione. Il presidente Clinton l’affermò apertamente, “raccomandando” che tutti i paesi che chiedevano di entrare nella UE aderissero prima all’Alleanza atlantica.

Sono sotto gli occhi di tutti le contraddizioni e le difficoltà che questa impostazione nazionalistica ha creato all’Unione. I continui tentativi di Polonia, Ungheria e altri di ridimensionare gli aspetti comunitari e sovranazionali delle politiche decise a Bruxelles fino a proclamare la preminenza del diritto nazionale su quello europeo e le tensioni che ne sono derivate. Lasciamo stare, qui, il discorso su quanto la destra-destra al governo italiano sia parte di questa corruzione nazionalistica dello spirito europeo e di come sia in atto un tentativo delle destre continentali di modificare la rotta delle politiche europee verso quei lidi. Limitiamoci a rilevare il fatto che la presidente del Consiglio Meloni ne ha fornito testimonianza anche in questa occasione, saltando come un grillo su una nuova polemica insensata contro il presidente francese che ha avuto l’ardire di non convocare anche lei all’incontro che ha avuto con Zelensky insieme con il cancelliere tedesco. Più che lamentarsi di un mancato invito, forse, sarebbe stato più sensato criticare il fatto che una questione di interesse europeo sia stata trattata in separata sede nazionale (e per di più in un clima di segretezza). Per il resto, Meloni delusa dal fatto che “a causa della mancanza di tempo” il leader ucraino aveva disdetto tutti i bilaterali con i leader, ha avuto con lui soltanto un fugace scambio di saluti. Peccato che l’ufficio stampa della presidenza del Consiglio avesse già diffuso un comunicato in cui si parlava di “una lunga conversazione” durante la quale lei aveva ribadito “il pieno sostegno” e lui espresso “la profonda gratitudine” e tv e giornali in linea ci avevano creduto. Meloni comunque ha confermato che andrà a Kiev prima del 24 febbraio e nell’attesa, sabato, il pensiero di Zelensky ci arriverà da Sanremo.

Disastrosa ambiguità

Fra le due questioni emerse dalla tournée europea del presidente ucraino e dall’atteggiamento dei suoi interlocutori c’è un legame abbastanza stretto, anche se non è immediatamente evidente. Sia il nuovo passo nell’escalation delle forniture militari – arrivino veramente o no gli F16 a Kiev – sia l’accelerazione del processo di adesione dell’Ucraina alla UE – sia davvero praticabile o mera propaganda – testimoniano insieme una disastrosa assenza di chiarezza sulle prospettive della guerra e dei rapporti che si dovrà continuare ad avere con la Russia. Che cosa vogliono fare gli occidentali? E quello che vogliono fare coincide davvero con quello che vogliono gli ucraini? Fino a che punto pensano di poter spingere l’azzardo senza che la NATO entri in guerra direttamente, cosa che (per ora) quasi tutti, ma non tutti, escludono? Come immaginano il futuro della Russia se e quando Putin scomparirà dalla scena? Mettono nel conto – come suggeriscono alcuni analisti americani – che sconfitta e umiliata in Ucraina la Federazione russa si possa sfasciare lasciando senza un’autorità statale un territorio che copre il 13 per cento delle terre emerse del mondo?

Sono domande politiche alle quali una risposta politica non c’è.