Westminster boccia Johnson e per la Brexit si va verso un rinvio

Tutto il mondo è un palcoscenico, ma lo stesso Bardo avrebbe dovuto riconoscere che Westminster non conoscere rivali se si tratta di mettere su un bel dramma. A puntate, per di più. Boris Johnson è stato sconfitto dalla maggioranza del Parlamento britannico: la House of Commons, su mozione di Sir Oliver Letwin, conservatore “ribelle” e ora indipendente, esige dettagliati accordi attuativi sull’intesa tra il primo ministro e l’Unione Europea. L’approvazione del patto è stata rinviata e con essa anche la Brexit.

Johnson cerca di resistere

Johnson ha lasciato in modo sconcertante e a cuor leggero un Parlamento sbigottito, ancora in seduta: ha annunciato che non chiederà alcuna estensione dell’articolo 50 a Bruxelles, in barba al Benn Act che impedisce di schiantarsi al buio fuori dall’Unione. Non è andata poi troppo male, ha incalzato BoJo, e vi sarà tutto il tempo di riparlarne nei prossimi giorni in un’altra seduta. Trecentosei i contrari a riflettere meglio sul patto, trecentoventidue i favorevoli a vederci chiaro, mettendo i freni al primo ministro. Poteva decisamente andare meglio per il governo la giornata annunciata dai media come il Super-Saturday della Brexit. Bruxelles aspetta posta: difficile pensare seriamente che non vi sia un rinvio, obbligatorio in forza della norma fatta approvare il 9 settembre da un sempre previdente Hilary Benn, parlamentare di lungo corso. Downing Street ha fatto sapere in serata che “si atterrà alla legge”. Se la prossima settimana vi sarà un ennesimo nulla di fatto si sarà a ridosso della scadenza del 31 ottobre e il premier dovrà chiedere un’estensione o accettare di essere sfiduciato. Poco lontano dal parlamento, si è tenuta una grande marcia organizzata da The People’s Vote e sostenuta da quotidiano The Independent per chiedere un referendum, iniziativa sostenuta in Parlamento dal laburista Peter Kyle. Anche questa richiesta non è andata ai voti in quanto superata dal sì alla mozione “temporeggiatrice” di sir Oliver Letwin. Il Parlamento britannico vuole sapere in cosa consistano e come verranno messi in pratica i trattati economici e politici negoziati con Bruxelles. Hanno votato contro l’accordo Johnson-Unione Europea anche gli unionisti irlandesi del DUP. Temono che la ricetta sfornata in gran fretta a Bruxelles possa minare la pace e gli interessi di una nazione che ricorda molto bene cosa significhi una guerra civile.

Niente assegni in bianco

La decisione di Westminster di non firmare assegni in bianco a nessuno è una polizza d’assicurazione politica che il Parlamento, sistematicamente escluso dalle trattative nelle segrete stanze, prima con Theresa May ora con Boris Johnson, ha tenuto a sottoscrivere. Ascoltando Johnson a Westminster, leggendo i testi finora resi noti a Bruxelles e la lunga dichiarazione politica approvata dall’Unione, l’aria sembra cambiata. Si profila comunque un Regno Unito strettissimo partner dell’Europa, come lo sono già altri Paesi che formalmente non ne fanno parte. Il documento politico è musica per le orecchie: assicura che trattati commerciali e amministrativi lasceranno a tutti gli effetti l’UK saldamente incastonata, dal punto di vista politico e operativo, in Europa.

Una situazione che viene rappresentata come win-win sia a Londra che a Bruxelles. La prima uscirebbe dalla palude politica in cui si era cacciata e potrebbe aderire anche a trattati commerciali extraeuropei, mentre l’Unione si dice convinta di poter trarre vantaggio da un player commerciale libero e grande amico.

Ci si chiede cosa sia cambiato in concreto, quale click abbia fatto scattare la convinzione che lo stallo fosse finito. Sono cambiati i confini o, per essere diretti, sono stati resi aleatori e impalpabili, sia dal punto di vista fisico che regolatorio. Con una buona dose di pensiero creativo, il confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord, e quindi tra Europa e Regno Unito, resterebbe solo formalmente una linea di terra. La vera demarcazione sarà da qualche parte (anche questo da stabilirsi) in fondo al Mare d’Irlanda. L’Irlanda del Nord, secondo l’intesa, rimarrà solo figurativamente un territorio doganale britannico, in realtà ad essa si applicheranno tutte e solo le procedure europee. Facile immaginare quanto poco entusiasmo la prospettiva abbia suscitato nelle fila del DUP, il partito unionista democratico, che si è sentito umiliato dai conservatori. A titolo di consolazione, sempre secondo il protocollo di Bruxelles, Belfast potrà decidere se confermare questo regime a quattro anni dalla piena intesa raggiunta, quindi nel 2025. Nella speranza che essere un retrobottega utilizzato dal Regno Unito per commerciare con l’Europa non offenda nessuno. Gli irlandesi hanno già detto al governo di considerare “sacri” di accordi del Venerdì Santo.

Per il resto dell’accordo, in realtà ancora da sviluppare con centinaia di capitoli dedicati a ogni singola attività e servizio, tutto resterebbe come prima, non si comprende al momento come: diritti dei cittadini, soldi, competenze della Corte europea di giustizia, protezione dei dati. In definitiva, il “coniglio dal cilindro” è stata l’idea di definire entrambe le parti dell’Irlanda una “all-islands regulatory zone”, incanalando controlli straordinari ed eventuali contestazioni in piccoli porti d’appoggio.

Corbyn: dal premier promesse vane

Jeremy Corbyn ha accusato Johnson di continuare a fare vane promesse, mentre le condizioni dei lavoratori e il rispetto dell’ambiente peggioreranno con liberi accordi commerciali, tanto cari, ha detto, ai club dei “Brixiteer boys”. I labour hanno dimostrato come competere nell’arena del WTO porterà a deregolamentare il mercato del lavoro e allontanerà l’economia britannica da quella europea, nonostante le solenni professioni d’amicizia fatte a e da Johnson. Non tutti i laburisti sono d’accordo, si è visto dal voto. Corbyn ha comunque chiesto in modo esplicito che siano i cittadini ad avere la parola finale e anche la leader liberal-democratica Jo Swinson ha insistito per un referendum. Theresa May, stavolta da semplice membro del Parlamento, lo ha assolutamente sconsigliato. Ha aggiunto, prima del voto che ha affondato il governo, di avere una sensazione di dejà vu e, stavolta, non ha sbagliato.

L’intesa resta sul tavolo della riflessione parlamentare in questi giorni. Se passasse Bruxelles si libererebbe di un problema, mentre il governo britannico sogna di riprendersi lo storico privilegio di solcare ogni mare favorevole al commercio, recando, accanto all’Union Jack, anche i colori dell’Europa. Westminster non pensa che sia tutto così facile, non crede ai regali e teme piuttosto il disfacimento del Regno Unito. Fuori dal Parlamento i cittadini chiedono di avere l’ultima parola.