Vince chi investe
sul razzismo doc
I fenomeni che definisco di razzismo interno e razzismo esterno possono manifestarsi per la prima volta nella storia nazionale contestualmente. Finora così non è stato. Il razzismo interno – ovvero l’atteggiamento di intolleranza e/o discriminazione nei confronti di gruppi di popolazione appartenenti ad aree geografiche dislocate all’interno della medesima unità territoriale e del medesimo ordinamento statuale – si è manifestato negli anni ’50 e ’60, in coincidenza con i processi di trasferimento di manodopera dalle regioni depresse del Sud dell’Italia verso il triangolo industriale. Il razzismo esterno – ovvero l’atteggiamento di intolleranza nei confronti di individui e gruppi appartenenti ad altre comunità nazionali – non si è ancora manifestato compiutamente. Si è assistito, certo, ad atti di razzismo ma questi non configurano ancora una situazione razzista in senso proprio. Con quest’ultima definizione intendo un atteggiamento consolidato e razionalmente tematizzato, ascrivibile a un gruppo sociale o a un segmento di popolazione o a una formazione organizzata.
L’uomo occidentale – e in particolare, per ragioni storiche, l’italiano degli anni ’90 – non è preparato all’impatto con una sofferenza sociale quale quella che l’immigrazione extracomunitaria evoca: si tratta, infatti, di una sofferenza antica e minacciosa. Antica perché l’integrazione tra le razze è (dovrebbe essere) idea-forza e risultato primario della modernità: e la mancata integrazione mette in crisi il sistema di valori basici e di certezze acquisite (date per acquisite) della collettività nazionale. Minacciosa perché la sofferenza dell’immigrato di colore richiama, appunto, il colore; e, dunque, una presenza “a macchia”, non occultabile, non attenuabile; al contrario: immediatamente identificabile. Una presenza che può apparire, in ragione del suo addensarsi e del suo evidenziarsi, un pericolo.
Le vecchie e nuove povertà non producono altrettanta angoscia: esse appaiono, infatti, come fenomeni residuali, retaggi di un passato contenibile e controllabile, detriti lasciati ai margini di un percorso che conosce e persegue la propria meta. Oppure appaiono come scarti fisiologici, prodotti da contraddizioni proprie dello sviluppo. In ogni caso, vecchi e nuovi poveri sembrano costituire una casistica, non una emergenza: richiamano patologie e “casi umani”, non un’aggregazione che elabora un’immagine (e organizza un presenza) di gruppo, come tendono a fare le comunità etniche; reclamano sentimenti e non rappresentanza; rientrano nella politica dell’assistenza e non in quella dei diritti.
Vecchi e nuovi poveri producono, di conseguenza, sentimenti di angoscia collettiva meno intensi. Gli immigrati extracomunitari mettono radicalmente in discussione l’universalismo del sistema di cittadinanza, proprio dei regimi democratici, evidenziando i limiti del principio di inclusione e delle strategie finalizzate a vederlo operante. Chi non è incluso, è escluso: formalizzazione dell’esclusione è – metaforicamente, s’intende – apartheid. Per non sentirsi titolari di un privilegio (quello della piena cittadinanza) che discrimina in ragione della razza, è preferibile – meno costoso psicologicamente – attribuire a ragioni diverse (e ulteriori: quelle che ho definito con la formula razzismo addizionale) la mancata o tardiva o parziale inclusione.
Ipotizzo come necessaria, perché si realizzi il passaggio da ostilità occasionale (episodi di razzismo) a rifiuto sistematico (situazione razzista), la coincidenza di due condizioni: a) che vi siano agenzie interessate a elaborare, sistematizzare ed emettere messaggi razzisti; b) che questi ultimi circolino presso strati di popolazione già sottoposti a stress. Dunque, perché le tensioni esistenti divengano “propriamente etniche” occorre che incontrino un “processo sociale di riconferma e ricostruzione degli stereotipi culturali e una disponibilità, da parte di imprenditori istituzionali a dare forme organizzative a questa tensione”. Questo mi consente di delineare una possibile interpretazione del fatto che in Italia – fino all’inverno ’89-90 – il razzismo esterno permanga in una condizione di latenza. Una interpretazione che evidenzia come manchi in Italia, al presente, una formazione politica nazionale, interessata a tematizzare conflittualmente la questione-immigrazione: che manchi, dunque, un imprenditore politico del razzismo.
La questione se possano presentarsi contestualmente, e sovrapporsi, fenomeni di razzismo interno e di razzismo esterno ha trovato una prima risposta positiva nell’attività svolta dalla Lega lombarda nei primi mesi del 1990 e fino al successo elettorale del 6-7 maggio dello stesso anno. La chiave del successo della Lega lombarda consiste, con ogni probabilità, nella coincidenza tra una domanda di riscrittura in termini etnici, su base regionale, di un’identità collettiva soggetta a processi dissociativi e un’offerta politica localistica attentamente mirata, che si struttura intorno a un programma di obiettivi, a un’organizzazione articolata, a una ipotesi culturale dotata di appeal.
Si può ipotizzare, dunque, che la Lega lombarda debba il suo successo alla tempestività con cui ha fornito spiegazioni e programmi politici a umori latenti.
(Luigi Manconi, “I razzismi possibili”, con Laura Balbo, 1990)
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