Dieci anni dopo, viaggio nel dolore e nella solitudine dei terremotati

Dieci anni dopo. Alle 3 e 32 del 6 aprile 2009 L’Aquila e i paesi della provincia furono teatro di un terremoto che distrusse buona parte degli edifici, lasciando sul terreno 309 morti e più di 1600 feriti. A quel sisma ne sono seguiti altri, drammatici, nel centro Italia, in un cratere che ha coinvolto i centri abitati di quattro regioni, l’Abruzzo, il Lazio, le Marche e l’Umbria. Tre le scosse più violente, in particolare, la prima, il 24 agosto del 2016, provocò molti danni e distrusse Amatrice, causando la morte di 299 persone. La seconda, il 30 ottobre dello stesso anno, fu la più potente dagli anni Ottanta a oggi e interessò, in particolare, il territorio di Norcia. L’ultima si verificò invece il 18 gennaio del 2017. Il decennale dell’Aquila è stata l’occasione per fare il punto sullo stato della ricostruzione. La Cgil, rappresentata dal segretario generale Maurizio Landini, ha organizzato un viaggio nel cratere, dal 4 al 6 aprile. Noi lo abbiamo seguito e abbiamo visitato le Marche e l’Umbria. La cronaca in questo reportage.

Dall’Umbria Giorgio Sbordoni, RadioArticolo1

“Le pietre contano più dei cristiani”. Gli esce di getto, con la lucidità disarmante delle persone concrete, capaci di orientarsi in questa nuvola di polvere che a due anni e mezzo dalla prima scossa, quella terribile del 24 agosto del 2016 che sbriciolò Amatrice, non riesce ancora a diradarsi. Parla del post terremoto con la stessa destrezza con cui gestisce i tavoli del suo ristorante, o almeno li gestiva quando si riempivano. Perché stasera qui ci sono solo io e non c’è granché da fare per il titolare, che dopo cena mi tiene un paio d’ore a chiacchierare ma preferisce restare anonimo, che quello che ha da dire a molti non piacerebbe e non vuole problemi. “Le pietre contano più dei cristiani visto che i soldi e il tempo per catalogare e mettere in sicurezza rapidamente le macerie delle chiese nursine li hanno trovati, mentre le case sono ancora inagibili”, zavorrate dalle tonnellate di carta che servono per istruire le pratiche, chiuse in un cassetto. “Intanto il centro è un deserto, il 70 per cento del fatturato è andato perduto e noi commercianti, imprenditori, ristoratori, contro ogni regola del mestiere, lavoriamo oggi senza sapere cosa succederà domani”.
A fargli eco il presidente della Federalberghi del territorio, Vincenzo. Il volume d’affari cambia di brutto, l’analisi è la stessa. Di quattro alberghi che aveva, il terremoto gliene ha lasciato agibile solo uno, il prestigioso Palazzo Seneca. “Ci siamo rimboccati le maniche e non abbiamo abbandonato neanche un lavoratore. Ma è dura, i margini sono quasi azzerati. Per capire cosa fare avremmo bisogno di certezze e invece sai come mi sento? Come uno che cammina immerso nella nebbia: la meta potrebbe essere a tre centimetri o a tre chilometri, ma non ho modo alcuno di saperlo”. La nebbia è la burocrazia che tutto ricopre, rendendo incerti tempi e modi della ricostruzione, complicando anche le cose che, a sentirle raccontare da chi sta scontando gli effetti del post sisma, sembrerebbero semplici da risolvere. “Due anni e mezzo fa decidemmo di resistere. Avessimo visto a che punto saremmo stati oggi, probabilmente avremmo preso altre strade”.


“Cittadini senza città”, la didascalia perfetta non solo per i nursini, ma per tutti i terremotati. Per Giuliana è una verità liberatoria, dopo resta in un silenzio commosso. Le lacrime le rigano le guance. È stata dura ripercorrere con me, per l’ennesima volta, la sua storia assurda. Nel 2016 decide di cambiare vita e scommette tutto sulla produzione di pasta all’uovo. Tutti i soldi che ha li investe nella creazione di un laboratorio e nell’acquisto di macchinari del valore di decine di migliaia di euro. Passa la prima scossa di agosto, il 20 ottobre apre la rivendita al pubblico e un ristorante nella piazza, proprio di fronte alla statua di San Benedetto. Non sa che è l’inizio del count down per Norcia. Nove giorni dopo, quel sabato sera del 29 ottobre 2016, chiude a chiave negozio e ristorante, ignara del fatto che non li riaprirà più. Casa e laboratorio sono ancora intatti e agibili, ma andare avanti è durissima.
“Se non facesse tanto rumore il terremoto farebbe meno paura”. Lo dice senza incertezza Alessandro, il capo della Lega Spi Cgil di Norcia, come se non sembrasse una cosa bizzarra da dire, ma la più normale del mondo. E la sua paura sincera mi colpisce perché a guardarlo sembra Sean Connery, ma quando ricorda quei momenti il suo aplomb elegante di montanaro si scioglie nel sorriso imbarazzato di un uomo che deve ammettere le proprie paure. Non è la prima la volta che la sento, questa considerazione sull’urlo del terremoto. L’urlo che sale dalle viscere della terra, quel rantolio sordo e costante che precede di qualche secondo e poi accompagna l’onda d’urto, ti paralizza, ti lascia senza fiato, umano com’è, cattivo, vendicatore e canzonatorio. L’ho sentito anch’io quel maledetto 30 ottobre del 2016, che mi trovavo nella casa dove è nato mio padre, a Guardea, in provincia di Terni, alle 7 e 41 del mattino di quella domenica. 5 ore prima avevamo spostato l’orologio un’ora indietro – e si è detto che la coincidenza salvò molte vite –. Il letto cominciò a tremare cigolando e la parete della vecchia casa in pietra sembrava volermi crollare addosso. E sotto c’era questo boato sordo che copriva tutto.


“Mi sono girato un attimo, giusto un secondo, mentre il soffitto sembrava venir giù, e la tegola mi ha colpito forte una spalla invece di cascarmi in testa e uccidermi. Il tempo di uscire dalla stalla per sentirmi ancora vivo, con lo sguardo ho cercato il paese avvolto da un’immensa nuvola di fumo. Poi la coltre si è diradata. Il paese non c’era più”. Occhi azzurri, il volto è una mappa di rughe contorte, le mani sono piccole ma possenti, l’allevatore mi guarda con un carico di rabbia e frustrazione e la certezza che non vedrà mai più San Pellegrino come la conosceva. Una frazione a sette chilometri da Norcia, innocente e inconsapevole gruppo di case costruito sopra alla lunga faglia che, da Arquata del Tronto su su fino a Muccia, si è allargata con violenza inghiottendo il paesaggio e lasciando solo polvere e macerie.
È un piccolo album fotografico di vite vissute a cavallo del sisma, una frattura che diventa esistenziale, divide i giorni tra un prima e un dopo e mette a nudo la fragilità di sopravvissuti. A Norcia ho chiesto al capo della Cgil, Maurizio Landini – per tre giorni in viaggio nel cratere, centinaia di incontri, visite e convegni – cosa avrebbe portato con sé di questa esperienza. “Il rischio della rassegnazione delle persone e la domanda di partecipazione che nasce dal loro senso di solitudine”, la sua risposta. Rassegnazione, sfiducia, rabbia, solitudine, sentimenti che qui tutti provano. La ricostruzione, finora mancata, di case, scuole, ospedali, luoghi di culto, strade, dovrà prevedere l’apertura di un cantiere ideale anche per restituire fiducia e speranza alla gente. E sarà il lavoro più lungo e complesso da affrontare.

Dalle Marche Stefano Milani, RadioArticolo1

Gru immobili, facciate divelte, divieti d’accesso, macerie sulle strade. E poi un senso di vuoto che ti blocca lo stomaco. Girare per l’entroterra marchigiano è come percorrere un viaggio agli inferi. Ogni Paese un girone dantesco, con i suoi problemi e le sue criticità irrisolte. Ad accomunare tutti i Comuni coinvolti è, a due anni e mezzo dal sisma, la mancanza di fiducia. Qui la rabbia si è trasformata in rassegnazione. La speranza in pericolosa assuefazione. “La gente è stanca, fisicamente e psicologicamente”, racconta Angelica Bravi, responsabile terremoto della Cgil di Macerata. “Hanno perso tutto: la casa, i parenti, gli amici, e soprattutto il lavoro”. Diecimila posti in meno in dieci anni. La crisi economica ha aperto la voragine, la scossa del 30 ottobre ha fatto il resto.
Capannoni deserti, fabbriche vuote, negozi con le saracinesche abbassate, campi agricoli abbandonati. Un triste skyline che da Macerata arriva fino a Matelica, e poi ancora giù nella zona del Piceno. Solo le farmacie sono in controtendenza. “A Tolentino dopo il terremoto c’è stato un incremento del 32% sul consumo di antidepressivi. Qui il mattone non ha ucciso, ma lo fa ogni giorno lo stress e l’ansia”, racconta, da dietro il bancone, Simone Salvucci. Tolentino è l’unico Comune marchigiano che ha scelto di non dotarsi delle Sae, le famigerate soluzioni abitative in emergenza. È stata una decisione ponderata, almeno a quanto dice il sindaco Giuseppe Pezzanesi, che due anni fa, quando le persone cominciarono a entrare nelle strutture temporanee, garantì che da lì si sarebbe passati direttamente alle case vere e proprie. Una promessa puntualmente non mantenuta, perché fin qui di case ne sono state consegnate appena quattro.


“Un fallimento totale”, taglia corto Flavia Giombetti presidente del Comitato 30 ottobre. “I soldi per ricostruire ci sono, ma vengono spesi male. Si pensa a progettare piscine e campi da tennis, mentre le persone vivono accatastate, come cani randagi, in un container”. Da fuori la struttura appare come un enorme e anonimo hangar di lamiere. Ma basta mettere il naso al suo interno per respirare disumanità diffusa. Una babele di età, condizioni sociali e lingue. Un alveare fatto di spazi ristretti e docce in comune. Un luogo non luogo dove l’esasperazione deflagra ogni giorno. “Mio figlio ha quattro anni, chi lo ripaga dell’infanzia vissuta qui dentro?”. La giovane mamma mi indica una foto della sua famiglia appoggiata su un tavolino di plastica. “Era il 2015, guarda che bel sorriso che avevamo…”.
Percorrendo la strada statale della Val di Chienti si arriva a Camerino. Nella città famosa per l’università fondata in età medievale, il tempo sembra essersi fermato a quella maledetta scossa del 2016. La zona rossa, la più vasta dell’intero cratere marchigiano, è immobile, incastonata come un museo degli orrori. Cumuli di macerie ancora da smaltire. Una montagna che esclude ogni orizzonte. “Come si fa a pensare ad una rinascita quando tutti i giorni vediamo solo detriti e calcinacci”. Alessandra, dopo aver perso la casa, ha vissuto da sfollata con i genitori in una chiesa di Vallicella, dormendo su una branda. Poi è arrivato il trasferimento in un bungalow sulla costa. Un gioco dell’oca che l’ha fatta ritornare oggi a Camerino in una struttura temporanea, con la speranza di vedere ricostruita quella che è la sua vera casa: “Il luogo dove ti senti davvero al sicuro, al termine di una lunga giornata”.


E lo scenario non cambia se si fa rotta verso Sud, dal Maceratese al Piceno. Città simbolo di una ricostruzione mancata è Castelsantangelo sul Nera. Comune piccolissimo, poco più di 260 anime. Avvertiti dalla scossa del 24 agosto 2016, quando il terremoto si è ripresentato a ottobre, la gente era già preparata. Ma non le case e le chiese: il 96% sono inagibili. Per fortuna qui non c’è stato nessun morto, ma come ripete spesso il sindaco, Mauro Falcucci, è il paese stesso ad essere morto quel giorno. “Non ci arrivano neanche i giornali”, dice sconsolato. “Viviamo in un posto invidiato da tutti, all’interno del parco nazionale dei monti Sibillini, ma ormai siamo diventati invisibili, fantasmi senza un futuro”.
Stessa sorte per la vicina Ussita. La signora Patrizia ha perso in un attimo casa e lavoro perché aveva un bed&breakfast, ora demolito. E dopo il danno, la beffa: “Sono una di quelle a cui la Regione ha richiesto indietro i 5mila euro dell’una tantum perché ai tempi della richiesta non avevo la posizione Inps. Ora non ho più un tetto, non posso delocalizzare il b&b altrimenti perdo la Sae e non avrei diritto nemmeno al Cas (Contributi autonoma sistemazione, nda). Dovrei stare un anno e mezzo senza nulla”. Il nulla. Due anni e mezzo dopo, resta solo quello.

Giorgio Sbordoni e Stefano Milani, RadioArticolo1

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