Verso casa, la storia di Israele
vista attraverso il sogno del kibbutz
Lonya, Lassia, Mirya, Mola, Leo, Zvi e una ragazza, Clara. Tutti giovani, tutti nati e cresciuti nei paesi assorbiti dall’Unione Sovietica. Avevano condiviso gli ideali marxisti, il senso comunitario, il rifiuto del liberalismo, valori ben presto oscurati dalla dittatura staliniana, ma un altro ideale li aveva conquistati, il sionismo. Il ritorno alla terra promessa. Il movimento, lanciato da Herzl sul finire dell’800, alla fine della Prima guerra mondiale cominciò a raccogliere sempre più adepti, anche per effetto della dichiarazione Balfour, con la quale si riconosceva il diritto alla creazione di una «dimora nazionale per il popolo ebraico in Palestina».
Confesso che, pur avendone sentito tanto parlare, per me il kibbutz era rimasto un mistero. Qualcosa di leggendario, una di quelle utopie sul genere dei falansteri di Fourier o delle Comuni del ’68. Chi tornava dai viaggi in Israele, paese nel quale colpevolmente non sono mai stata, si vantava di essere andato nei kibbutz e ne traeva resoconti tra lo stupito, il divertito, l’infatuato.
Chi raccontava del socialismo realizzato in terra, chi di una sorta di campo di concentramento volontario, chi di luoghi di condivisione gioiosa della vita. Ognuno vi proiettava la sua visione del mondo, le sue aspirazioni, le sue paure.
Ma per quei sei ragazzi e per quell’unica ragazza, dei quali parlavamo all’inizio, il viaggio Verso casa non era un sogno, era un imperativo etico. Ebrei di estrazioni diversissime, chi figlio di industriali un tempo benestanti travolti dalle collettivizzazioni, chi sbandato in cerca di futuro, chi studentessa liceale, conquistati dalla stessa visione. Furono loro i fondatori del kibbutz Beth Afikim dove l’autore di Verso casa è nato e vissuto fino all’età di vent’anni, quando nel 1968 il kibbutz aveva ormai perso l’impronta originaria, logorata anno dopo anno dalle trasformazioni del mondo circostante, in particolare dalla nascita dello Stato di Israele e dall’affievolirsi delle ideologie originarie.

Uscito nel 2009, l’esordio letterario di Assaf Inbari è stato un successo strepitoso, per dieci mesi in testa alle classifiche in Israele, pur essendo un romanzo che non concede nulla al rimpianto nostalgico, ma trasmette una passione civile, una ricerca spassionata della verità. È uno “spassionamento” carico di affetto eppur privo di nostalgia. Shimon Peres ne ha colto il segreto: «Assaf Inbari ha immerso il pennello in un colore freddo per dipingere il sogno che bruciava nelle anime dei pionieri del kibbutz. Ed è questo che rende il libro così sorprendente. Vi sono in esso sia la compassione che la critica: racchiude l’entusiasmo degli albori del movimento come anche la delusione dei tempi che seguirono. Ma non cede ad alcun compromesso allo scopo di ammorbidire la verità e trasformare la compassione in pietà».
Proposto quest’anno da Giuntina, una casa editrice che è un “marchio di fabbrica” indispensabile per entrare nel mondo e nella cultura ebraica, con la cura e la traduzione di Shulim Vogelmann e Rosanella Volponi, Verso casa è stato definito da Amos Oz «il miglior libro che abbia mai letto sulla nascita e il declino dei kibbutz e sulla conseguente, profonda trasformazione dell’anima di Israele».
«Estinzione o decadenza, queste sono le due possibilità offerte dalla Diaspora. L’estinzione, se ci assimiliamo. La decadenza, se ricopriamo il ruolo parassitario e improduttivo come ha fatto finora il popolo ebraico. C’è un solo sentiero verso la vita: la Palestina». Così Lassia, l’intellettuale, l’inflessibile teorico del gruppo, il fondatore del movimento che rifiuta il comunismo e sogna il socialismo, incalza i compagni e le compagne ad affrontare un’avventura che non è fuga o rassegnazione, ma progetto di vita. Approdati nei modi più fantasiosi e disparati in Palestina sotto mandato britannico, osservati con aggressivo sospetto dalla popolazione locale, ma talvolta accolti anche come amici, questa compagnia di giovani idealisti si organizza secondo rigidissime regole comunitarie.

Tutto è da condividere, a cominciare dal duro lavoro di dissodazione del terreno, affrontato con l’entusiasmo di chi vuole diventare contadino, per affermare il diritto alla terra negato da sempre agli ebrei. Sono condivisi non solo i “beni” (dai vestiti alle scarpe, qualunque oggetto), ma anche gli affetti. Le lettere dei famigliari vengono lette in comune persino in assenza del destinatario, le foto di famiglia si ammucchiano tutte insieme, con grande scandalo di Clara, «la sola che pensava che perfino la condivisione dovesse avere un qualche limite”. “In una famiglia non ci sono segreti” le ricordavano, e ogni lettera, anche se di contenuto intimo, era esaminata alla luce della candela. Ma la notte ognuno sognava i propri genitori.»
Si guarda con sospetto ai timidi tentativi delle ragazze di rendere «accogliente» la tenda mettendo delle sciarpe davanti alla finestra, o ritagliando centrini da pochi pezzi di carta, per concludere con l’auspicio «che il quartier generale debba seriamente prendere in considerazione il legame tra femminilità e borghesia». Ma soprattutto si affronta con entrusiasmo l’immensa fatica della costruzione, sasso su sasso, tanto che «ogni giorno si stupivano di se stessi che sedevano su un mucchio di ghiaia e continuavano a martellare invece di prendere un tram per andare al liceo».
Sono 340 pagine ma sembrano il triplo non per il ritmo che rimane sempre serrato, non certo per la noia, perché si resta catturati da un racconto che ci fa entrare nel quotidiano come una minuziosa cronaca medievale, ma proprio per la densità narrativa; così accade che appena finito venga voglia di ricominciarlo per ritrovare quello che ci era sfuggito. Le situazioni buffe, quelle eroiche, le speranze, le delusioni, la tenacia smisurata delle persone (che non sono personaggi) che hanno vissuto questa epopea, la quale, come tutti i sogni, si scontra alla fine con i mutamenti della realtà. Dopo qualche anno gli arrivi nel kibbutz si moltiplicano, con essi i lavori si fanno più complessi, nascono le prime fabbriche, si costruiscono le case, le scuole, si fa fatica a mantenere il rigido sistema comunitario degli inizi ma per un po’ di tempo si va avanti con piccoli compromessi, soprattutto dopo l’arrivo dei sopravvissuti ai campi di concentramento e la conseguente nascita dello Stato di Israele.
Ed è a questo punto che la storia del Kibbutz diventa in qualche modo la storia dello Stato d’Israele: arrivano le guerre con il mondo arabo, si annacqua il socialismo che ispirava i primi governi, mentre nel Kibbutz si insinua a poco a poco anche la proprietà privata, si costruisce una sinagoga che nega l’impostazione laica del kibbutz, fino alla scoperta di essere un ostacolo alla visione politica della destra arrivata al governo: «Si resero conto di essere odiati dalla maggior parte del popolo e che l’impresa di costruire un kibbutz era stata abbandonata in favore dell’insediamento nei territori e si posero solo una domanda: quando avrebbero chiuso loro il rubinetto?». Tutto si sfalda, muoiono i fondatori, Clara, la matriarca laica e inarrestabile, resterà sola tra nipoti e bisnipoti per diventare la memoria storica del kibbutz e dell’amato giramondo Lassia del quale riuscì anche a far pubblicare «il libro sulla battaglia con gli elefanti combattuto a Rafah nell’estate del 217 a.e.v.» che, tra un viaggio all’estero e l’altro per conquistare adepti alla causa, il capo del movimento continuava a scrivere, quasi una sorta di rifugio creativo. Lo lessero in pochissimi, ma almeno quel sogno divenne realtà.
Assaf Inbari
Verso casa
Traduzione e cura Shulim Vogelmann e Rosanella Volponi
Giuntina, Firenze 2020
300 pagine, 18 euro
e.Pub 3,99
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