Venezia 2019, ecco perché i premi
sono quasi tutti sbagliati
Diversi paradossi si nascondono nel palmarès della 76esima Mostra di Venezia. Visto nel suo complesso è un verdetto condivisibile, e soprattutto ha dato vita a una bella serata nella quale si è riusciti a parlare di molte ingiustizie che si aggirano per il mondo, dal Sudan a Hong Kong al Mediterraneo (i discorsi di ringraziamento dei due attori, Ariane Ascaride e Luca Marinelli). Quando però si entra nello specifico dei singoli premi, il vostro voyeur cinematografico di fiducia si sente di affermare che sono quasi tutti sbagliati – ma per affermare questo, il voyeur medesimo dovrebbe assumere come “oggettiva” la propria soggettività, che è sempre discutibile e, appunto, paradossale. Forse i palmarès dei festival non andrebbero commentati, punto.
Meglio invertire Joker con J’accuse
Però siamo in ballo, e balliamo. Leone d’oro e Gran Premio della Giuria, rispettivamente “Joker” e “J’accuse”. Sarebbe stato meglio il contrario. “J’accuse”, il film di Roman Polanski sull’affare Dreyfus, era secondo noi il miglior film della Mostra, ma come sapete ha dovuto correre a handicap. Il (pre)giudizio della presidente della giuria Lucrecia Martel valeva come un diktat, sulla quale la presidente stessa è stata evidentemente messa in minoranza. Nelle giurie si vota, e chi prende più voti vince: si chiama democrazia.
È evidente che Polanski è piaciuto a gran parte degli altri giurati ma non è riuscito a raggiungere il Leone. Che va quindi per la prima volta a un film uscito dall’universo dei supereroi. In realtà in “Joker” Batman è ancora un ragazzino e si parla solo del suo futuro antagonista, con toni cupi e morbosi che danno al film un’apparenza “autoriale”. Qualcuno l’ha detto con felice battuta: aggiungete l’Inconscio agli eroi dei fumetti, e avrete un Film d’Autore. Prima o poi toccherà anche a Peppa Pig. È una formula al momento vincente, ma che mostra già la corda.
Se in giuria ci fosse anche un critico?
Miglior regia a Roy Andersson, Svezia. Vogliamo scherzare? Il suo film, “Sull’infinito”, riesce a essere mortalmente noioso pur stando entro gli 80 minuti di durata. E soprattutto è un riciclaggio del film con il quale Andersson vinse il Leone d’oro nel 2014, “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”. Ma è molto probabile che i giurati non lo conoscessero. Questo fatto ci spinge a una provocazione: sarebbe utile inserire in ogni giuria di festival un critico, al limite anche senza diritto di voto, ma con dovere di promemoria. Dovrebbe dire ai giurati: “Guardate che ‘sto tizio ha fatto un film identico, e meno palloso, cinque anni fa”. Potrebbe evitare simili sfondoni.
Miglior attrice Ariane Ascaride. La francese è un’attrice bravissima e una donna simpatica, combattiva, gagliarda. Ma in “Gloria mundi” non è la protagonista. Starà sullo schermo sì e no venti minuti. Come spesso capita è stata premiata per il film sbagliato. Miglior attore Luca Marinelli. Condivisibile. È bravissimo in “Martin Eden”. C’erano suoi colleghi altrettanto bravi, a cominciare dal Joker Joaquin Phoenix. A noi sembra assurdo che siano stati ignorati Scarlett Johansson e Adam Driver, straordinari in “Marriage Story” di Noah Baumbach, o la strepitosa Meryl Streep di “The Laundromat” di Steven Soderbergh. In generale sono stati ignorati i due film, che meritavano qualcosa. Ma sono film Netflix, e quest’anno (dopo il Leone 2018 con “Roma”) le piattaforme digitali hanno dovuto saltare un giro.
Se in giuria ci fosse uno scrittore?
Miglior sceneggiatura a “No.7 Cherry Lane”, il cartone animato di Yonfan. Non l’abbiamo visto, ma il regista-sceneggiatore premiato sembrava il più sorpreso di tutti. È opinione comune che la sceneggiatura sia la cosa meno azzeccata del film. Forse ha ragione Francesco Bruni, il vecchio amico (e sceneggiatore) di Paolo Virzì: uno scrittore in giuria ci vorrebbe. E con diritto di voto, a differenza del critico. Il suddetto “Marriage Story” (copione pazzesco) meritava almeno questo premio.
Unico premio sacrosanto: a Atlantis, forte e potente
Alla fine, sapete qual è l’unico premio sacrosanto di questa Mostra? Quello che la giuria della sezione Orizzonti, guidata da Susanna Nicchiarelli, ha assegnato al film ucraino “Atlantis”. È un film forte e potente, che sarebbe dovuto andare nel concorso principale (avrebbe rischiato di vincere anche lì). Si svolge – ci informa la didascalia iniziale – nell’Ucraina del 2025, “un anno dopo la fine della guerra”. Ed è la terrificante storia di un reduce che non sa più cosa fare della propria vita.
Girato con uno stile visionario e originale (lunghe inquadrature fisse che trasudano tensione), rivela un regista – Valentin Vasyanovyc – che è già al sesto film, inclusi due documentari, ma che in Occidente non si era ancora imposto. Ci è venuta la voglia di vedere tutti i suoi lavori precedenti. Sarà possibile?
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