Vecchia Romagna
etichetta vera
Rimanete fedele alla Romagna, sempre; è la terra dove si conserva quel poco di buono che è rimasto al mondo.
Alfredo Panzini
Sono nato romagnolo all’Ospedale civile di Faenza e niente e nessuno potrà impedirmi di morire romagnolo quando il Signore lo vorrà. Prima ancora che nella chiesa di Santa Maria Assunta di Casola Valsenio, sono stato battezzato nel podere della Villetta da Saturno Ferretti, cognato di mio nonno Gianì, con un sorso di Sangiovese schietto. Tutti i maschi dei Cavina sono stati battezzati con il vino nero.
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“A-t dègh un fat”: è il nostro C’era una volta. Ma un fatto messo in mano a gente della nostra specie, fa una brutta fine. Lo prendono e incominciano a tirarlo da tutte le parti. Come quando vai in gita a Murano e vedi gli artigiani del vetro. Prendono un grumo incandescente e a furia di girarlo, rigirarlo e soffiarci dentro, puff, spunta fuori un bel fiaschetto di mille colori. A diciotto anni, con i miei amici, ci raccontavamo di quello che era successo a tredici, e non da ragazzi quali eravamo, ma come se fossimo tutti degli Omero, ciechi e vecchi come il cucco. Una vittoria fuori casa contro il Tredozio diventava l’assedio di Troia. Come puoi non scrivere se nei caffè litigano ancora su cose tipo quanto pesa un occhio umano? Che è una gran bella questione, visto che per risolvere il problema o vai di nascosto al campo santo a riesumare un cadavere fresco di giornata o trovi un volontario.
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Il passato, eh? Noi siamo gemellati con un paese tedesco, Bartholoma, che ha 2700 abitanti come noi, è vasto il quintuplo e ha il 90% in meno dei bar; noi undici, loro uno scarso. Mi ricordo che passai davanti al municipio la prima volta che vennero in gita a Casola. Una corriera spettacolare, che pareva un’astronave atterrata dagli spazi siderali: si trattava senza ombra di dubbio di una specie intelligente molto più evoluta della nostra. Dall’altra parte della strada c’era la siepe dei giardini pubblici; attraversai, e ci trovai il povero Aldmiero Rontini inguvito, quasi in posizione fetale.
“Sono arrivati i tugnì?”, chiese. Tugnì era il nome con cui venivano chiamati i tedeschi durante la guerra. Si stava nascondendo. Non gli dissi che con il suo metro e quarantasei poteva tranquillamente stare in piedi, che non l’avrebbe visto nessuno, ma lui era davvero terrorizzato.
“Ci siamo gemellati”, gli dissi, “adesso siamo amici”. Insomma, erano passati sessant’anni.
“Ma saranno i tuoi amici”, disse indignato. “Me a-n me fid: troppe me ne hanno combinate”. Aldmiero aveva ancora il tatuaggio sul braccio. Sei campi di lavoro, si era fatto durante la guerra.
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Milano Marittima è a ottanta chilometri da casa mia, e per vedere il mare dovrei andare in cima al monte Battaglia in una giornata di sole e sperare che non ci sia l’afa. In un giorno di aria schietta, potrei seguire con lo sguardo la curvatura della riviera, fin su alla foce del Po. I nostri vecchi una volta all’anno andavano sulla vetta del Monte Mauro, e se ne stavano lì seduti per terra a discutere di cosa fosse di preciso quella striscia un po’ scura che stava tra la terra e il cielo. La nonna del giornalista Beppe Sangiorgi la descriveva come “una spianata turchina che pare il cielo che si specchia sulla terra”.
Un confine sicuro ce l’abbiamo, ed è il mare. È l’unico che mi sento di segnare con certezza, tutti gli altri hanno sfumature che proprio non si possono infilare in una cartina geografica. La Romagna non è un luogo preciso, ma uno stato della mente. Il colpo spettacolare, il guizzo d’effetto è nel carattere di ogni romagnolo. È Marco Pantani che getta via la bandana e gli occhiali prima di attaccare in salita, o Valentino Rossi che fa il giro d’onore con una bambola gonfiabile sul sellino dopo aver vinto uno dei suoi primi gran premi. Il numero da sborone ci viene su da dentro, come un singhiozzo.
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Un confine sicuro ce l’abbiamo, ed è il mare. È l’unico che mi sento di segnare con certezza, tutti gli altri hanno sfumature che proprio non si possono infilare in una cartina geografica. La Romagna non è un luogo preciso, ma uno stato della mente. Il colpo spettacolare, il guizzo d’effetto è nel carattere di ogni romagnolo. È Marco Pantani che getta via la bandana e gli occhiali prima di attaccare in salita, o Valentino Rossi che fa il giro d’onore con una bambola gonfiabile sul sellino dopo aver vinto uno dei suoi primi gran premi. Il numero da sborone ci viene su da dentro, come un singhiozzo.
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Da ragazzo odiavo il liscio, non mi piaceva un granché da adolescente sentirmi praticamente un contadino, e quel ballo mi sembrava avesse qualcosa di plebeo addosso. Quando poi si univano ai balli gli s-ciucaren, gli s-cioccarini, con i loro gilè smanicati e le fruste di corda che battevano il tempo spaccando l’aria, ecco, mi sarei nascosto dall’imbarazzo. Mi sembravano terribilmente ridicoli. Ma non potevo nascondere il fatto che era impossibile tenere i piedi fermi. Nessun essere umano riesce a restare impassibile quando l’orchestra attacca Tutto pepe dell’immortale maestro Castellina.
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Busso, Striscio e Volo è uno dei sottofondi nella vita di ogni romagnolo. C’è anche un’apposita targa, a San Varano, frazione di Forlì: “Qui in San Varano vuolsi prendesse vita ai primi dell’800 il marafò o beccacino gioco principe della gente di Romagna. Antesignano del bridge, invenzione democratica nella terra degli eguali, giocato dai ‘galantoman’ con le sole tre parole rituali Boss-Stress-Vol”. Il Tribunato di Romagna, che commissionò questa targa, evitò con un certo tatto di dedicare una riga a quello che è uno dei momenti più importanti di una qualsiasi partita a beccacino: la litigata alla fine di ogni mano.
Ogni inverno i bar organizzano il loro torneo, che serve a stabilire le esatte gerarchie, perché tutte le coppie iscritte giocano a turno l’una contro l’altra, annullando grazie alla statistica gli errori madornali delle Schiappe e i colpi buoni dei Fortunelli. La partita di marafò più incredibile di cui ho avuto notizia è stata giocata nel cortile interno del ristorante Corona a metà degli anni cinquanta, e se nessuno mi smentisce non è ancora finita.
A metà di una mano, uno dei quattro giocatori disse che gli scappava una bella pisciata e chiese il permesso di andare in bagno. Si alzò e uscì dal retro del ristorante; andò a casa, prese la valigia e partì per l’Argentina. Tornò trent’anni dopo: entrò al bar a prendere il caffè, e seduto a un tavolino, dietro al giornale, c’era uno di quelli che aveva abbandonato a metà della mano. Abbassò il giornale e guardò l’uomo che trent’anni prima si era assentato per andare al gabinetto.
“Fatta tutta?”, gli chiese.
(Cristiano Cavina, “Romagna mia!”, 2012)
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