Vanja addio. Una giornalista brava autorevole e rigorosa all’Unità
Vanja Ferretti ci ha lasciato: è morta in un ospedale di Milano, la sua città, dove era nata settant’anni fa. L’ho vista sofferente, immobile nel suo letto, proprio lunedì scorso. Cercavo di comunicare con lei, ma le parole mi sembravano vuote, assurde. Alla fine le ricordai il suo gatto, bellissimo e terribile. Aggrediva chiunque si presentasse in casa. Le ricordai il nome: Ulisse. Mi parve di scorgere la sua bocca esprimersi in un lieve sorriso. Un attimo, ma sufficiente per ritrovare sul suo volto la dolcezza degli anni giovanili, quando la conobbi nella sede dell’Unità di Milano, viale Fulvio Testi, nell’edificio modernista che una sovrintendenza avrebbe dovuto proteggere e che invece una banca ha trasformato nel solito banale parallelepipedo.
Vanja era entrata poco più che ventenne all’Unità. Quando arrivai io, nel ‘72/’73, lei era già un’autorevole redattrice che si occupava di politica, agli “interni”, con la stessa passione che l’aveva animata negli anni dell’università, alla Statale (Scienze politica), e nell’attività di partito, come si usava a quei tempi, nelle sezioni del suo quartiere, tra viale Fulvio Testi (dove abitava, quasi davanti all’Unità) e Niguarda. Brava, rigorosa, preparata. Soprattutto autorevole nei confronti di quella compagnia di giovani, poco più giovani di lei, che andava via via in quei tempi popolando la redazione milanese dell’allora organo del Pci, capo redattore Augusto Fasola, suoi vice Quinto Bonazzola (che era stato giovanissimo dirigente con Curiel del Fronte della gioventù) e Sergio Banali, detto (da Vanja stessa) “Tato”, direttore un politico e un intellettuale autentico come Aldo Tortorella.
Vanja era brava e autorevole, perché era una donna colta, con la propria indipendenza di giudizio, curiosa, attenta alle dinamiche della società e ai cambiamenti del costume, accanita lettrice (dei classici, come era obbligo allora, i grandi romanzi dell’Ottocento, ma anche dei contemporanei, che si chiamavano Elsa Morante o Paolo Volponi), “consumatrice” di musica e della musica dei nostri giorni. Le piaceva moltissimo Bruce Springsteen: ammirava il suono e il rimo delle sue canzoni, ma ne aveva perfettamente inteso la vena “operaia”, quella capacità di rappresentare l’America delle periferie, dei margini, del dissenso.

Mi verrebbe voglia di riannodare i fili del dibattito politico d’allora, quello che il giornale doveva rappresentare e quello che si replicava all’interno del giornale, nelle assemblee di redazione, nelle riunioni della cellula del Pci (Vanja ne era stata segretaria), anche nei corridoi. Qualcosa di irripetibile, per il cuore e l’intelligenza dei tanti, quando la politica era viva ed era costruzione quotidiana, tra contrasti e divisioni, a volte durissimi, anche tra di noi, redattori dell’Unità. Era la stagione delle stragi (dopo piazza Fontana, l’Italicus e piazza della Loggia nel 1974, alla stazione di Bologna nel 1980, il rapido 904 all’antivigilia di Natale del 1984). Ma anche la stagione di grandi novità politiche e di grandi speranze, fino almeno alla morte di Aldo Moro.
Vanja in quel periodo lasciò la redazione di Milano, andò a Roma, nell’ufficio del caporedattore, e accettò poi la direzione della sede di Bologna, quando il giornale decise un forte investimento nella cronaca emiliano-romagnola. Chiusa quell’esperienza, alla fine degli anni ottanta, Vanja decise di lasciare l’Unità. Era una giornalista (aveva anche contribuito alla nascita del Coordinamento donne giornaliste) e voleva sperimentare la professione altrove. Non credo vi fossero motivi polemici nella sua scelta. Così cominciò la sua avventura a Italia Oggi. So che lavorava moltissimo e, quasi di conseguenza, fumava moltissimo (lo aveva sempre fatto). Per anni… finchè un accidente fisico non la costrinse a cambiare lo stile della propria esistenza.
Vanja Ferretti ci ha lasciato. Era una persona gentile, onesta, generosa. Era una giornalista di valore. Così la ricorderemo, come ricorderemo il suo sorriso al pensiero di un gatto di un tempo lontano.
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