Riflessioni dopo il contagio, se il guaritore ci ammala più della ferita
Niente riflette meglio gli ultimi mesi della parola “contagio”. Stranamente apocalittica e familiare, sta ridisegnando le nostre abitudini, i modi della nostra convivenza. Già da tempo presentivamo che una società connessa a livello globale pone problemi di portata globale, che ad essere in pericolo non è questa o quella fetta di umanità, ma il pianeta intero, con tutta la variegata compagnia che ci sta sopra. Un pianeta evidentemente corroso dall’accelerazione del profitto, della competizione economica.
Tuttavia, nel bel mezzo del surriscaldamento globale, si continuavano ad alzare muri per proteggere gli interessi dei più ricchi, di chi, insomma, ha più potenziale distruttivo. In fondo ognuno ha da tirare avanti la sua baracca: grandi e piccoli coinvolti nell’ansia da prestazione – ma siamo felici, poi?
Ci voleva il virus, trasportato da nuvolette di saliva, a ricordarci che, nostro malgrado, respiriamo la stessa aria. Capita così di rileggere la parola “contagio“ in una poesia di Magrelli, di rara forza espressiva: “Che la materia provochi il contagio/ se toccata nelle sue fibre ultime/ recisa come il vitello dalla madre/ come il maiale dal proprio cuore/ stridendo nel vedere le sue membra strappate” (Esercizi di tiptologia, 1992). Si evocava, in questi versi, una parola in grado di risvegliare la coscienza comune, di farci sentire come il “vitello” separato dalla “madre”, come la bestia indifesa che, in una torsione sintattica e di immagini, contempla il proprio cuore strappato.
Grazie al Coronavirus, abbiamo avuto il triste privilegio di scoprirci uniti, interdipendenti, anche senza la forza espressiva della poesia. Sono stati i fatti a imporre il loro alfabeto: non un virus cinese, non un virus europeo, ma una minaccia globale.
Nella strofa successiva, Magrelli sviluppa l’immagine attribuendo al contagio un significato politico: “Che tale schianto generi/ la stessa energia che divampa/ quando la società si lacera, sacro velo del tempio/ e la testa del re cade spiccata dal corpo dello stato/ affinché il taumaturgo diventi la ferita”. Perché si generi energia, è necessaria una crisi, una lacerazione: ciò che teneva unità la società cade, il posto occupato dal taumaturgo-guaritore diventa un vuoto, una ferita pullulante. Solo da questa ferita si può generare energia. In fondo, per sentirsi vivi, gli esseri umani non hanno bisogno del simulacro di un’identità, ma di un vuoto che accenda il desiderio di essere uniti.
Nei momenti di crisi, si risvegliano nell’essere umano sentimenti di solidarietà che spesso, nella frenesia della vita quotidiana, vengono messi a tacere. Pochi anni dopo i versi di Magrelli, Zanzotto, in Meteo (1996), descrive con toni inquietanti la nostra “normalità”: siamo come papaveri che ostentano la loro armonia (“La città dei papaveri/ così concorde e gloriosa/ così di pudori generosa”), ma che in realtà si attaccano violentemente al loro metro di terra, indistinti (“Fieri di una fierezza e foia barbara/ sovrabbondanti con ogni petalo/ rosso + rosso + rosso + rosso“), ossessionati solo dal desiderio di farsi vedere (“Voi cresciuti in monte su un monticello/ di terra malamente smossa/ ma ora pronta alla vostra voglia rossa/ di farvi in grande-insieme vedere/ insieme notare in pura/ partecipazione e/ naturalmente, naturalmente adorare”).
Il Coronavirus ha aperto una crisi, ci ha dato la possibilità ripensare le forme della nostra convivenza. Tuttavia la crisi non basta: è questo il momento perché, anche per noi, come nei versi di Magrelli, il guaritore diventi la “ferita”. Continueremo a credere alle promesse di chi vuole risolvere i problemi costruendo muri o chiudendo porti? O sentiremo fino in fondo la “ferita”, il posto lasciato vuoto dai fantocci del potere, e riscopriremo la gioia di tendere, nella nostra molteplice differenza, verso l’unità? Speriamo che ognuno di noi possa aver imparato, da questo periodo di decrescita forzata, a riappropriarsi del suo tempo, ad accostarsi agli altri. Chi non ha tempo non pensa. Speriamo di non dover aspettare la prossima pandemia, per capire che basta uno sputo a scavalcare i muri.
Valerio Magrelli, Esercizi di tiptologia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992.
Andrea Zanzotto, Meteo, Donzelli Editore, Roma 1996
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