Un libro per imparare a leggere
la struttura della fotografia
Jean-Marie Floch è stato uno dei primi a saper fondere e mischiare gli strumenti della semiotica con quelli della pubblicità definendone l’impronta visiva così come i comportamenti e le abitudini dei consumatori. Accademico eclettico e dotato di grandi qualità di divulgazione, Jean-Marie Floch scomparso prematuramente nel 2011 è ad oggi uno dei maestri della semiotica visiva ed è un’ottima notizia la comparsa presso le redivive edizioni Meltemi (altra buona notizia) di uno sei suoi testi fondanti, Forme dell’impronta (Meltemi). Pubblicato per la prima volta in Francia nel 1985, Forme dell’impronta è un’analisi di elementi basici del lavoro di Robert Doisneau, Henri Cartier-Bresson, Alfred Stieglitz e Bill Brandt.
Uno studio dunque che si muove attorno a cinque figure fondanti dell’immagine fotografica e non solo del Novecento e che è capace di individuare, partendo da quelle che sono le caratteristiche di evidenza dello stile fotografico di ognuno di loro, il senso di una struttura visiva. Una ricostruzione attenta e precisa degli elementi di composizione estetica che divengono il piano di lavoro per un’analisi del contenuto visivo chiara e puntuale. Forme dell’impronta, qui in un’edizione curata con passione e precisione da Dario Mangano, diviene quasi un manuale sulla lettura visiva in un equilibrio rarissimo di divulgazione e essenzialità.
Un saggio che evita le lungaggini di una lettura accademica e barocca, ma che anzi porta per mano il lettore con sagacia all’interno di quella che può essere definita una vera e propria avventura della scoperta perché il metodo utilizzato diviene utile ben oltre le analisi proposte, Floch seguendo i passi di Pierre Bourdieu prova a rispondere a cosa sia la fotografia costruendo un discorso che non sia sulla, ma della fotografia, come scrive nella postfazione Dario Mangano: “Si tratta allora non soltanto di disporsi a cogliere le forme più che le sostanze, ma anche di cercare di offrire una visione sistematica che sappia individuare quelle logiche del senso sulle quali si basa la coerenza di un sistema semiotica quale è la fotografia. In termini pratici, questo significa semiotizzare il lavoro di Bourdieu, provando a individuare vere e proprie concezioni della fotografia che siano interdefinite le une rispetto alle altre.
E in tal senso si spinge la riflessione di Jean-Marie Floch nell’ultimo capitolo quando immagina un possibile museo della fotografia. Attraversando le sale del Museo de L’Elysée di Losanna, Floch prima ridefinisce il senso del rapporto tra collezione e mostra e poi cerca una chiave di relazione capace di contenere al suo interno una sorta di libero ossimoro (come ricorda sempre Dario Mangano rispetto al titolo stesso del libro) che divenga lo spazio della contraddizione e quindi del discorso: in poche parole l’impronta come forma.
Jean-Marie Floch
Forme dell’impronta
A cura di Dario Mangano
Traduzione di Luisa Scalabroni, Dario Mangano, Silvia Onorato
Meltemi 124 pagine – 12,00 euro
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