Alziamo la testa!
Questo non è un paese per giovani
Questo non è un Paese per giovani. L’Italia continua a invecchiare e, mentre il governo fa di tutto per fermare pochi disperati che arrivano, non si cura minimamente dei tanti che sono costretti ad andarsene: qualcuno dal Sud al Nord, tanti direttamente all’estero, in cerca di un’esistenza dignitosa.
Il Sud, soprattutto le aree interne, si sta spopolando, per la desertificazione del tessuto economico/industriale; un territorio in cui se ne vanno giovani non è solo prossimo alla totale disgregazione sociale: è destinato a morire. Secondo qualcuno i giovani sarebbero mammoni, inconcludenti, choosy: è così sono stati descritti, in questi anni in cui i governi che si sono susseguiti si sono preoccupati più degli hashtag che della dignità del lavoro, più degli sbarchi che del diritto allo studio, più del rapporto deficit/PIL che della creazione di opportunità.
La generazione di cui anche chi scrive fa parte è, per citare un recente libro, una classe disagiata, iper-qualificata rispetto alle condizioni lavorative che la grettezza di una delle classi imprenditoriali più ottuse del mondo rende disponibili.
Ѐ dal 2011 che non viene posta con serietà la questione giovanile in questo Paese (tranne una trascurabile e sguaiata scalata a un partito nascosta da ricambio generazionale): era il tempo dei “giovani non più disposti a tutto”, e da allora le cose sono soltanto peggiorate. Sono peggiorate perché in Italia non c’è un piano di sviluppo industriale, non c’è prospettiva di rilancio economico, si è abbandonata anche solo l’idea di rimettere in funzione l’ascensore sociale.
Chi nasce ricco sarà sempre più ricco, chi nasce povero, Dio lo aiuti. Intanto, la precarietà costringe alla perpetua adolescenza, a una condizione di limbo, insicurezza e depressione che ricade sulla qualità della vita di tutta la società; ora i padroni del pianeta hanno anche imparato a usare gli algoritmi per rendere i lavoratori ancora più schiavi, e tenersi sempre più lontani dalle proprie responsabilità.
Per questo domenica tanti giovani si sono incontrati alla Città dell’altra economia, a Roma,ad “Alziamo la testa!”, appuntamento promosso da “Futuro Prossimo”, “I Pettirossi” e “Ragione in Rivolta” (in rigoroso ordine alfabetico), tre associazioni che si occupano di formazione politica: è un primo tentativo di ricostruire consapevolezza generazionale rispetto alle condizioni lavorative, e alla necessità di lottare per ottenerne di migliori.
“Lavorare meno”, “Lavorare meglio” e “Lavorare tutti” sono stati i tre tavoli tematici in cui, grazie alla competenza dei relatori “esperti” Marco Grimaldi, Roberto Ciccarelli e Guglielmo Forges Davanzati, sono stati approfonditi aspetti diversi della precarietà e si è iniziato a ragionare di alcune proposte per affrontarla.
Sono tanti i precari che hanno raccontato le loro storie, e vale la pena di riportarne qualcuna tra le più significative. Giorgio (i nomi sono di fantasia per tutelare le persone che ci hanno raccontato queste storie), ad esempio, è un giornalista; ci ha raccontato di aver iniziato per passione con il giornale del suo paese, che ha deciso di lasciare a causa dei costi insostenibili e delle pressioni politiche che si susseguivano di continuo, per mettersi in proprio. A questo punto è stato inevitabile, con la redazione, scegliere la strada dell’online, ma senza alcun guadagno: in dieci anni di lavoro, Giorgio non è mai stato pagato per un articolo. In pratica, lui e i suoi colleghi pagano (il contributo all’Ordine) per il privilegio di poter lavorare, per essere poi spesso additati come avvantaggiati e pennivendoli, a seconda di coloro a cui dà fastidio un loro articolo.
Vittorio è invece un praticante avvocato abilitato: una condizione di schiavismo, come dimostra anche il titolo di dominus che ha l’avvocato incaricato di seguire un praticante. Questi non è contrattualizzato, né percepisce una retribuzione: la legge fissa appena il diritto ai rimborsi spese, che però in realtà vengono raramente riconosciuti.
Il passaggio a avvocato è poi drammatico: prima per le condizioni disumane in cui si svolgono gli esami, poi per il peso della cassa previdenziale forense, che ha dei minimi contributivi che spesso schiacciano i giovani avvocati.
Daniela è una precaria del sociale, educatrice e operatrice socio sanitaria. Ѐ assunta da una cooperativa con un contratto della durata di 9 mesi, cioè il periodo scolastico: giugno, luglio e agosto è senza retribuzione. Lo stipendio è da fame, è costretta a fare continue sostituzioni per poter sperare in un cambio del contratto con un’aggiunta di ore e un aumento della retribuzione. Se il minore di cui deve occuparsi è assente la giornata di lavoro non viene retribuita e quando finiscono i permessi non retribuiti la cooperativa usa le ferie.
I partecipanti all’incontro di oggi si sono lasciati dicendo sì di volere la Luna, ma di volere anche delle cose molte semplici per cominciare. Intanto il diritto alla disconnessione: per i riders vuol dire potersi disconnettere dalla piattaforma che li traccia costantemente, mentre in altri settori (i precari del mondo intellettuale, ma non solo) vuol dire che il capo non può inviarti mail, telefonate o messaggi al di fuori dell’orario di lavoro perché altrimenti si passano ore a rispondere a mail o comunicazioni considerate “urgentissime”. In secondo luogo, un lavoro dignitoso che abbia un orario di inizio e di fine. Terzo, la possibilità di immaginare un percorso di vita.
Il prossimo passo del percorso aperto a Roma sarà la “messa in ordine” dell’elaborazione prodotta dai tavoli tematici, con la pianificazione successiva di ulteriori iniziative e forse l’incontro con la CGIL, che ha mandato una lettera per testimoniare il proprio sostegno a questa iniziativa.
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