Un giorno non basta contro i femminicidi, lunga scia di sangue

Ritorna dunque, inesorabile come ogni anno, il 25 novembre con il suo copione. Ritornano le parole di circostanza, le parate alla presenza di autorità compunte, i convegni che spesso non riescono nemmeno a inserire nei titoli l’aggettivo ‘maschile’ a proposito della violenza sulle donne (mica tutti i maschi sono assassini!).

Ogni anno ritorna la scia di sangue: donne uccise dal partner, bambini e bambine uccise dal padre.

Vittime designate nonostante le denunce

Murale contro il femminicidio, a San Lorenzo, Roma. Foto di Ella Baffoni

Come ogni anno molti recalcitrano perfino alla definizione di femminicidio (che bisogno c’è di una parola nuova?); c’è chi parla ancora di raptus, di dramma della gelosia o di lite coniugale; c’è chi dubita delle parole delle donne; c’è chi rivittimizza nei tribunali e nei giornali quelle assassinate; c’è chi minimizza perfino le statistiche.

Juana aveva denunciato due volte Mirko che la minacciava, la perseguitava. Che cos’altro poteva fare per difendersi, per chiedere difesa? Due volte lui era stato arrestato, condannato … e poi presto rimesso in libertà dopo il patteggiamento. Gliel’ha fatta pagare. Morte annunciata nonostante: nonostante il Codice rosso del 2019 (che pure è una conquista, con le misure cautelari), nonostante gli sforzi eroici dei Centri antiviolenza, che nonostante tutte le difficoltà hanno salvato tante donne.

È evidente che affidarsi alla repressione non basta, non siamo di fronte a un reato qualunque. È indispensabile intervenire caso per caso appena si può, ma anche questo non è sufficiente.

Mattanza figlia della voglia di possesso

Abbiamo capito ormai, e ripetiamo ovunque, che la prevenzione vera, di lunga durata, è un’altra cosa. Che le cause della mattanza sono profonde e vanno rintracciate nella cultura patriarcale con la sua antica attitudine al possesso e al controllo; non è più invisibile – se non a chi non la vuol vedere – l’incapacità maschile di sopportare rifiuti e frustrazioni, che può arrivare fino al suicidio ed è costruita da un’educazione malata.

I ciechi volontari sono gli stessi che riconducono lo stupro al desiderio sessuale e rifiutano di parlare di un gioco perverso in cui in palio c’è il potere.

Ridiscutere tutto questo non è una passeggiata: mette in crisi un intero universo di assunti, di convinzioni, di costumi, di abitudini, di relazioni. Comporta un doloroso lavoro di scavo innanzitutto in se stessi e in se stesse. Costringe a rivedere con fatica un intero assetto sociale, il suo frusto sistema di ruoli e di aspettative che danneggia tutti e tutte ma è rassicurante perché è noto.

Femministe ancora demonizzate

Di conseguenza le resistenze sono forti e hanno successo: i reazionari di ogni colore con tutta la loro potenza di fuoco agitano lo spauracchio del cosiddetto gender facendo leva sulle paure inconsce dei genitori, demonizzano le femministe come pericolose sovversive che corrompono i costumi; la maggioranza semplicemente ignora o rimuove la complessità del tema, relegando i delitti nella più innocua cornice della devianza comune (che c’entro io, a me non può succedere).

Quando diciamo che la colpa è dei singoli ma la responsabilità è di tutti stentiamo a farci capire. E la spirale si avvita su se stessa, tragica e quotidiana.