Un “coming of age” (Rampelli permettendo) tra gli ebrei ucraini del Queens

“Armageddon time-Il tempo dell’Apocalisse” non è un disaster movie, nessun alieno a sfruculiare, nessuna catastrofe ecologica o meteorite che bussa alla porta. il titolo del riuscito film di James Gray, una quintessenza di America classista e razzista anni Ottanta, rimanda a un celebre discorso di Ronald Reagan che evocava una possibile guerra nucleare se non fosse stato eletto. Che carino. E aderisce perfettamente all’etimologia di Apocalisse, come da titolo in italiano: svelamento. Cadono i veli davanti agli occhi di Paul Graff (Banks Repeta, brillante e tosto, a dispetto dell’età), preadolescente figlio di Esther (una nevrile Anne Hathaway) e Irving (Jeremy Strong), piccola borghesia di origini ebree ucraine, casa nel Queens, a New York. Paul vedrà, capirà che crescere è un’arte difficile  dove servono i compromessi e ci si può trovare a scegliere tra un sentimento profondo d’amicizia e la granitica realtà.

Ma “Armageddon time” non è un lavoro (soltanto) cinico, perché i valori che ci portiamo dentro non vanno spenti e venire a patti, diventare grandi, è l’unica via – quando non si hanno angeli in paradiso – per arrivare a realizzare intime ispirazioni, mettere a frutto i propri talenti. Insomma, la classica storia di formazione, un coming of age, secondo una delle classificazioni che sembrano ormai indispensabili per catalogare qualsiasi film (la clownesca legge presentata da Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia contro l’uso di parole straniere metterebbe le cose a posto ma provocherebbe scompiglio tra i cinefili).

Il legame col nonno Aaron

Paul frequenta la scuola pubblica e agli inizi delle medie, la junior high school negli Usa, incrocia Johnny (Jaylin Webb, un plus indimenticabile), ragazzino nero e povero dagli occhi disperatamente dolci, vive con la nonna e va in attrito coi professori. Ha a malapena una casa, genitori zero e si aggrappa all’idea di raggiungere in Florida il fratello maggiore, militare alla Nasa. Paul e Johnny trovano campo comune in una scarsa voglia di seguire le regole, in un sentimento d’insofferenza per l’autorità e Paul ne dà discreti esempi a casa, poco ascoltando madre e padre, mentre è legatissimo al nonno Aaron (Anthony Hopkins, non serve aggiungere altro), che gli racconta la fuga dalle persecuzioni, il dramma dell’emigrazione.

E qui Gray gioca in casa. Ebreo newyorchese di origini ucraine, ha – fin dal brillante esordio col noir “Little Odessa” nel ’94, Leone d’Argento a Venezia a soli venticinque anni – spesso scritto e girato storie al limite tuffate nel melting pot americano, la mafia russa con “I padroni della notte”, l’emigrazione di due sorelle polacche negli anni Venti e successivi drammi in “C’era una volta a New York”, un flop con meno di 6 milioni di dollari incassati contro più di 16 spesi, nonostante il solito cast stellare (qui Joaquin Phoenix e Marion Cotillard, tra gli altri). Stavolta, dopo “Ad Astra” con Brad Pitt, un thriller astronautico di grande tenuta piaciuto alla critica e meno al pubblico, è riemerso in zona comfort al quadrato con una storia autobiografica palpitante, dal graffio pulito.

Quanto autoriferita non si sa, ma se è reale solo la metà di quello che combinano Paul e Johnny, Gray deve averne fatte passare di belle ai genitori. Scazzati e ribelli, vanno al primo scontro pesante quando il professor Turkeltaub (Andrew Polk), da loro detestato – insegna con metodi arcaici, empatia sempre in riserva – li scopre nei bagni a fumare uno spinello, gentilmente offerto da Johnny. A casa Paul becca cinghiate e papà Irving spedisce il ragazzino renitente nella disciplinante Forest Manor School, la stessa costosa scuola privata dove si sta ben portando il fratellastro maggiore Ted (Ryan Sell), una specie di ameba molesta, ben felice di mettersi giacca e cravatta come i rampolli dell’upper class. Irving fa l’idraulico, non nuota nell’oro, provvedono il nonno Aaron e la nonna Mickey (Tovah Feldshud): “Abbiamo risparmiato tutta la vita e vogliamo dare una mano”. Il ricordo di un passato aspro morde, scorre quasi nelle vene della famiglia Graff, si sente ancora in bilico tra miseria e “nobiltà”.

La scuola dei principini

Per la cronaca (vera), la scuola degli azzimati principini è foraggiata da Fred Trump (John Diehl), il padre di Donald, giusto lui. In un discorso motivazionale alle truppe scolari, tocca alla sorella Maryanne (Jessica Chastain), che con lo frate suo ha veramente studiato alla Forest Manor School, spronare la futura élite americana – lo zio Sam vi vuole al top, sarete direttori finanziari, avvocati, senatori – con una inattesa spruzzata femminista: “Per voi ragazze sarà più dura farcela, sappiatelo”. Ma forse, vista la cotonatura di Maryanne, si tratta di una presa d’atto del sistema wasp (bianchi, anglosassoni, protestanti). Nota a margine: il nonno di Donald di cognome faceva Trumpf, veniva dalla Germania.

Fred Trump con il figlio Donald

Johnny si vede astronauta (colleziona adesivi delle missioni spaziali), Paul disegna benino e sogna una scuola d’arte. Hanno continuato a frequentarsi, Johnny è andato a trovare l’amico alla superscuola e vedendo parlare Paul con quel nero al di là della grata che recinge il cortile, qualcuno tra i giovani ricchi si è scandalizzato. Come finanziarsi il viaggio in Florida? Paul suggerisce di entrare nottetempo nella Forest Manor School e rubare un computer, emulo di Antoine Doinel-Jean-Pierre Léaud che portava via la macchina da scrivere dall’ufficio del padre nello sfolgorante esordio di Truffaut. “I 400 colpi”  viene da “faire les quatre cents coups”, il nostro “fare il diavolo a quattro”, “combinarne di tutti i colori”, il parallelo Antoine Doinel-Paul Graff è quasi obbligato.

Del futuro di Antoine, rimasto per sempre nel fermo immagine che chiude la sua storia ribelle, nulla è dato sapere, Paul finisce in guai pesanti e solo grazie a un poliziotto conoscente del padre (che gli ha aggiustato un lavandino o qualcosa del genere) si salva dal riformatorio. Unico responsabile del furto rimane Johnny. E te pareva, direbbero  sotto il Cupolone. Le vite dei due ragazzi si separano, papà Irving, costernato, chiede al figlio di capire: “Non voglio che tu diventi come me. Voglio che tu diventi più di me”, caricandolo di responsabilità, lo aveva già fatto la madre.

“Devi difendere il tuo amico nero”

Paul china la testa, obbedisce dilaniato, forse inizia a rendersi conto che una qualche forma di studio e di disciplina è viatico indispensabile per farsi largo nel mondo. L’American Dream è lastricato di feroci esclusioni. Non dimenticherà mai, però, quel dialogo avuto col nonno prima che morisse. Paul: “Qualche volta a scuola i ragazzi dicono cose brutte sui neri”, Aaron: “Cosa fai quando succede?”, Paul: “ Nulla ovviamente”, Aaron: “Pensi che sia una cosa intelligente? Devi difendere il tuo amico nero, devi essere uomo”.

“Armageddon time” arriva in coda a una nutrita serie di recenti film autobiografici, dal fantapsicologico “Bardo” di Iñárritu ai “Fabelmans” di Spielberg, da “È stata la mano di Dio” di Sorrentino al delizioso, colorato “Licorice Pizza” di Paul Thomas Anderson, personali memorie di una bizzarra e vitale San Fernando Valley (Los Angeles) negli anni Settanta, film con una colonna sonora da leccarsi i baffi: “July Tree” di Nina Simone, Sonny and Cher, “Peace Frog” dei Doors, “Life on Mars?” di David Bowie, Donovan, Bing Crosby, più  il brano originale firmato per il film da Jonny Greenwood, il chitarrista dei Radiohead.  Passato in sala un po’ di corsa l’anno scorso, “Licorice Pizza” merita assolutamente una deviazione verso lo streaming di Prime Video. I 195 minuti di “Armageddon time” sono fotografati dal fido Darius Khondji, antico collaboratore di Gray, funzionali le musiche dei Clash. Distribuisce Universal Pictures.