Ancora 8 marzo di guerra, ma confidiamo nelle donne
Oggi è il secondo 8 marzo di guerra. È un giorno che molti e molte si ostinano a chiamare “Festa della donna” quando non di festa si tratta, ma di una giornata in cui si citano i tanti Paesi in cui i diritti delle donne sono utopia e in cui si cerca di capire a che punto siamo noi, nate per un caso fortunato in questo privilegiato angolo di mondo.
Cose importanti e inedite sono successe una dopo l’altra ai vertici del potere italiano: una donna alla presidenza del Consiglio dei ministri, una a quella della Cassazione, una a capo del Partito Democratico. Pur non sottovalutando il peso simbolico della rottura del soffitto di cristallo non cadiamo nella trappola di paragoni impropri o di esaltazioni acritiche. Non è di donne che incarnano valori patriarcali che abbiamo bisogno. È bello avere donne “che ce l’hanno fatta” ma più bello sarà il giorno in cui questo non susciterà stupore.
Sarebbe bello se…
Ancor più bello sarebbe che a tutte toccasse l’opportunità di potercela fare: che non ci fosse più una maggioranza femminile così alta di inoccupate, disoccupate, precarie. Bello che il lavoro di cura fosse equamente distribuito tra i sessi. Che la libera scelta di non diventare madri non fosse bersaglio di critiche, e al contempo che le madri fossero sostenute da una rete di servizi che evitasse loro la scelta dolorosa tra il lavoro e la famiglia. Bello che il femminicidio e la violenza domestica scomparissero dalle cronache. Che non si insegnasse più alle donne a non “farsi violentare” (sic) ma agli uomini a non violentare.
Il mio è un punto di vista particolare: mi occupo da anni di formazione e nello specifico della libertà e dei diritti delle donne, della violenza maschile, del linguaggio sessista, degli stereotipi ancora attivi nell’educazione dei generi. Ho potuto registrare nel tempo attraverso le iniziative in tutta Italia che coinvolgono me e tante mie colleghe l’interesse collettivo per questi temi, ossia l’attenzione sociale al terreno in cui le discriminazioni nascono e si perpetuano, in cui si scambia per naturale ciò che è culturale, in cui si accettano distinzioni forzate di scelte e di destini ritenendole ovvie.
Che cosa è successo negli ultimi anni? Prima ci fermò il Covid per forza maggiore: non era la stessa cosa vederci su uno schermo o di persona, non lo facemmo volentieri ma ci trascinammo da un webinar all’altro. Ora ci potremmo incontrare di nuovo ma le occasioni a me paiono drasticamente ridotte, se si eccettuano le giornate canoniche dell’8 marzo appunto, e del 25 novembre. Non è più colpa di un virus ma di un clima di restaurazione che si è insediato prima lentamente poi con velocità crescente, sotto le bandiere crociate di una lotta al fantomatico gender che nessuno sa precisamente che cosa sia ma che spaventa genitori e docenti, amministratori e cittadini.
Non esistono temi divisivi
Possiamo partecipare a un convegno, rilasciare un’intervista, commemorare un anniversario, inaugurare una strada o una mostra: tutte cose utili purtroppo episodiche. Se ci arrischiamo a proporre iniziative durevoli e strutturate che incidano più profondamente nelle coscienze giovanili, che inneschino domande, dubbi su “si è sempre fatto così”, “si è sempre detto così”; se ci rivolgiamo ai formatori, nelle scuole o nelle associazioni, nei Comuni o nelle categorie e negli ordini professionali per ottenere un risultato a cascata … le risposte sono evasive. Non ci sono soldi (a noi che lavoriamo quasi sempre gratis), sono temi divisivi (aggettivo di gran moda), la società non è ancora pronta (lo era cinque anni fa?), abbiamo troppe scadenze.
Posso sbagliare, vorrei sbagliare. Mi condiziona l’abitudine all’andamento sussultorio delle vittorie politiche e culturali, a tante vicende di passi in avanti alternati a passi indietro, all’implacabilità inerte della tradizione.
Confido nella forza delle donne, nella loro capacità di fare rete: nella felice ostinazione delle femministe.
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