Ugo, cacciato perché ebreo
torna a scuola a raccontare
l’infamia delle leggi razziali

Nel 1938, anno in cui furono emanate le leggi razziali fasciste, Ugo Foà aveva dieci anni, viveva a Napoli e stava per andare in prima ginnasiale. Ma un giorno che doveva essere come tutti gli altri si rivelò l’inizio di una vita inaspettata e difficile: prima vennero aggiunte al suo nome sul registro le parole “di razza ebrea”, poi il suo banco venne isolato, infine, gli fu impedito di frequentare la scuola e fu tenuto lontano dalla sua classe, dai suoi compagni, costretto a casa, dove per fortuna il padre consentiva che a lui e ai fratelli venissero impartite lezioni private. Durante gli anni a venire, Ugo vide scomparire parenti e amici, finiti ad Auschwitz ad allungare i numeri tatuati e l’elenco dei morti, una lunga, lugubre teoria dei senza nome, quella che era partita senza fare più ritorno. Ma tutto ha fine, e finì pure quell’incubo. Ugo fu ammesso a sostenere gli esami da privatista ed ebbe modo di sperimentare la resistenza della bontà umana: una mano posata sulla sua spalla, quella di una professoressa, a lungo cercata dopo, e una voce che lo incitava, nonostante tutto, al coraggio. Tornato a scuola, in classe si sentiva fuori luogo, spaesato, si aspettava il solito banco nell’angolo, si trovò invece a doversi sedere tra gli altri, come prima, a sentire anche il suo nome durante l’appello: Ugo Foà. “Presente!”, gli era costato dirlo, ma in quella pronuncia incerta c’era un urlo di Liberazione. Quel “presente” voleva dire aver riconquistato la libertà e la dignità.

Più volte bisnonno

Oggi Foà è un simpatico signore di novantuno anni. Vive a Roma, a lui sono seguite tre generazioni, è più volte bisnonno, il più piccolo della famiglia ha solo qualche mese. Dalla fine della guerra, ha condotto una vita che può dirsi normale, una normalità, tuttavia, costruita su strappi e ferite, con cui dover fare per forza i conti. Ci sono voluti anni e anni, infatti, prima che riuscisse a guardare il suo passato dritto in faccia, recuperasse quell’orgoglio a lungo calpestato e provasse a ricostruire la sua storia intera e condivisa.

Ha alternato, così, la frequentazione del Centro di cultura ebraica di Roma all’impegno politico diretto. Grazie al primo, fa parte del Progetto Memoria, incontra gli studenti di molte scuole e università italiane, partecipa a convegni, visita associazioni e fondazioni. E uno dei testimoni delle leggi razziali più attivi, viaggia in treno, da solo, riesce sempre a coinvolgere e commuovere i ragazzi, con alcuni dei quali rimane anche in contatto. Ama dire loro che ogni giorno trascorso in una scuola oggi gli permette di recuperare quegli oltre mille giorni persi allora.

L’impegno politico, invece, l’ha praticato col PCI, finchè è esistito il partito di Berlinguer; era un attivista iscritto alla sezione Centro, ha pure collaborato con Botteghe oscure in qualità di membro del gruppo che si occupava di questioni assicurative. Ugo Foà è un uomo colto, aperto, mite, sinceramente democratico; non ha problemi ad affermare che la storia di Israele non sia completamente limpida, o che non ha appoggiato e non appoggia le sue politiche più conservatrici e chiuse. Non smette di ammonire soprattutto i giovani a stare in guardia, a non dare per scontate le libertà civili, perché i tempi bui del nazifascismo possono essere in agguato ma sotto altre sembianze. Sono tante le avvisaglie, non bisogna affatto sottovalutarle, ma portarle allo scoperto e denunciarle, siano essere dirette contro gli ebrei, gli immigrati, o gli anelli più emarginati della catena umana. Non è un caso se, ieri come oggi, siano le stesse categorie a essere prese di mira e, come ieri anche oggi, possano fare danni enormi l’indifferenza o lo sminuire certe parole e gesti.

Un vento nuovo

Un vento nuovo in Italia Ugo Foà lo sta avvertendo, una inversione nei contenuti, a chi parla di odio si prova a replicare col suo contrario. Lo si fa, ad esempio, nelle manifestazioni affollate delle sardine: era una di loro a Piazza San Giovanni, si era accompagnato a giovani studenti universitari. Questo straordinario ragazzo del 1928, infatti, ti rimane nel cuore una volta che lo hai conosciuto. La sua gentilezza, la sua innata eleganza, la serenità che traspare da ogni suo atteggiamento, gli fanno guadagnare una fiducia immediata ed enorme.

Quello scolaro “di razza ebrea” ce ne ha messo prima di decidere di andare, almeno una volta nella vita, nel campo in cui aveva visto sparire parenti e amici. C’è riuscito aggregandosi a una scolaresca, qualche anno fa. Ce l’ha fatta a varcare i cancelli di Auschwitz e poi a camminare sui ciottoli. Avrà sentito proprio quel gelo, la stessa angoscia, avrà fatto il giro con i fantasmi che aleggiano in quel luogo – non luogo, ma alla fine è uscito e, lasciandosi alle spalle Arbeit macht frei, ha liberato con sé tutti gli altri, come fa chiunque visiti la Memoria e ne diventi testimone.