Ucraina: se cade il piano cinese resta solo l’escalation
L’altolà dell’amministrazione americana ha ucciso nella culla la mediazione cinese sulla guerra in Ucraina? Così sembrerebbe alla luce dei commenti prevalenti a Washington e alla ritrosia delle fonti di Kiev sull’eventualità di una telefonata diretta di Xi Jinping a Volodymyr Zelensky, nei giorni scorsi accolta quasi con entusiasmo come segnale d’apertura quanto meno di un dialogo e ieri ridimensionata nei ranghi di una iniziativa diplomatica per la quale c’è ancora da lavorare. È possibile che anche Putin la pensi in questo modo e si sia rifiutato di fare in qualche modo, da padrone di casa, il testimone muto dell’inedito abboccamento. Il contatto, se ci sarà, non avverrà prima del ritorno del presidente cinese a Pechino.
Non è dato sapere quanto il coinvolgimento del leader ucraino nell’iniziativa cinese sia stato direttamente o indirettamente stoppato dalla Casa Bianca. I segnali sono contraddittori: poche ore prima del brutale avvertimento del Segretario di Stato Antony Blinken – il mondo non si lasci ingannare dalla commedia inscenata a Mosca, un cessate-il-fuoco in Ucraina favorirebbe solo i russi – il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale John Kirby aveva considerato la prospettiva della telefonata in tutt’altro modo rimproverando, anzi, il cinese di esitare a farla. Magari con il retropensiero di un rifiuto secco del leader ucraino che avrebbe chiuso immediatamente la partita.
Una cosa comunque è chiara: il no degli americani ha avuto, fin dal momento in cui si è cominciato a parlare del “piano cinese”, un carattere pregiudiziale. I motivi di questo rifiuto totale e preventivo sono diversi e sarebbe probabilmente sbagliato limitarsi a considerare quelli più ovvi. Questi derivano sostanzialmente dal comprensibile timore che si consolidi ulteriormente il blocco di interessi comuni Cina-Russia che, anche ma non solo per la condivisa ostilità agli Stati Uniti, si è andato rafforzando negli ultimi tempi. Espressione di questo timore sono le accuse ripetute un po’ ossessivamente da esponenti dell’amministrazione Biden – e anche della NATO- su mai provate forniture di armi cinesi alla Russia. La sontuosa accoglienza riservata a Xi da Putin e dalla sua corte ha ovviamente incrementato quel timore. In questo contesto, a Washington domina il parere che un successo dell’iniziativa diplomatica cinese finirebbe per favorire il disegno dichiarato dei due paesi di rappresentare agli occhi del mondo non schierato l’asse di un equilibrio multipolare e di un nuovo “partenariato mondiale” fondato sulla sconfitta delle pretese egemoniche degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Partire dallo status quo
Ma accanto alla necessità di contrastare questa retorica, sfoggiata largamente da Xi e Putin nei loro colloqui moscoviti, ci sono altri motivi, meno chiari e meno banali, per cui gli americani rifiutano la logica stessa del piano cinese. Al primo punto, come è noto, c’è l’affermazione di principio dell’inviolabilità delle frontiere e del rispetto della sovranità degli stati. È l’affermazione che ha suscitato l’interesse degli ucraini spingendo Zelensky ad accettare l’ipotesi di un confronto diretto con Pechino e che non è stata ritenuta dai russi una premessa che in passato sarebbe stata considerata inaccettabile sulla base delle ripetute affermazioni della volontà di portare fino al raggiungimento degli obiettivi l’”operazione speciale” e liberare i “russi” dal “regime nazista” al potere a Kiev. Ma la disposizione delle due parti a discutere su quelle basi presuppone che in qualche modo si parta dallo status quo sul terreno, ovvero da un cessate-il-fuoco nella cui cornice cominci un negoziato sul ritiro degli occupanti.
È proprio quello che gli americani, o almeno l’amministrazione attuale, non vogliono. Blinken è stato in materia chiarissimo: il cessate-il-fuoco favorirebbe soltanto i russi, che consoliderebbero la loro presenza nelle zone occupate e riprenderebbero il fiato in vista di offensive per occuparne di nuove. Va detto che Putin ad alimentare questo scenario ci ha messo pesantemente del suo con la passerella organizzata a Mariupol tra i russofoni “liberati” alla vigilia dell’arrivo di Xi a Mosca. Cosa che fa dubitare fortemente della sincerità dell’atteggiamento di apparente favore con cui ha accolto un piano in base al quale a Mariupol proprio non ci potrebbe mettere mai più piede.
Escalation
Il rifiuto preventivo di ogni possibile tregua delle armi sembra essere la prova del fatto che gli americani hanno scelto definitivamente lo scenario della guerra fino alla vittoria “conclusiva”. Solo che nessuno sa, tra gli alleati in Europa, in che cosa debba consistere questa vittoria finale, per cui l’unica certezza che resta al momento è l’appoggio militare a Kiev in una escalation di forniture belliche che è per sua natura indefinito perché non si sa quale sia il suo fine ultimo. Con il rischio, sempre più incombente come dimostrano gli ultimi inquietanti segnali, di uno scontro accidentale o di un incidente che faccia precipitare la situazione.
Il piano cinese, al di là dei motivi politici non certo tutti disinteressati che hanno spinto Pechino a portarlo a Mosca, potrebbe essere l’occasione per una discussione chiara sugli obiettivi che la NATO e l’Unione europea, la Grande Assente, vogliono dare alla loro azione a favore dell’Ucraina invasa.
O dobbiamo dire avrebbe potuto essere?
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