Orlandi: “Ucraina, nessuna illusione sulla mediazione cinese”
Il paese più popoloso del mondo e la crisi internazionale più devastante dalla fine della seconda guerra mondiale. Indagare sul punto di vista della Cina sulla guerra dell’Ucraina può aiutare a farsi un’idea di come l’avventura voluta da Putin sia destinata a cambiare il mondo. Proviamo a ragionarne con il professor Romeo Orlandi, economista e sinologo, vice presidente dell’Associazione Italia-Asean e Presidente del think-tank Osservatorio Asia. Orlandi ha insegnato Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi master postuniversitari.
Professore, all’inizio della crisi qualcuno sosteneva che la Cina ne potesse in qualche modo approfittare sia perché distoglieva l’attenzione degli americani dall’area del Pacifico sia perché rappresentava una specie di cartina di tornasole dell’atteggiamento degli occidentali su Taiwan: se non reagivano all’invasione dell’Ucraina non sarebbero intervenuti neppure per Taiwan. Poi però le cose sono cambiate. Sembrerebbe che la preoccupazione anche a Pechino stia crescendo.
La guerra è un problema anche per la Cina, ma, per dirla un po’ cinicamente, Pechino ne trae anche qualche vantaggio. La crisi in Ucraina indebolisce il fronte nemico che negli ultimi anni ha fatto del “bastonare la Cina” il suo asse portante. Trump è stato l’espressione più dura di questa linea ostile, ma il trend era cominciato già prima, con Obama. La guerra indebolisce gli Stati Uniti e soprattutto li costringe ad occuparsi di altre aree del mondo.
Però di preoccupazioni ce ne debbono essere al vertice se Xi Jinping ha intrapreso un tentativo di mediazione: c’è stato il vertice telematico con Macron e Scholz.
Sono molto scettico sulla possibilità di una mediazione cinese. E anche sul fatto che i dirigenti di Pechino la vogliano davvero. Il mio scetticismo si basa sulla considerazione che la Cina non è proprio attrezzata politicamente per mediare. Il suo criterio di fondo, da sempre, si basa, sia nella politica internazionale che in quella interna, sui rapporti di forza. I cinesi non hanno duttilità, capacità negoziale, attitudine al compromesso: il senso della complessità non è di casa a Pechino. Per fare una mediazione ci vuole, che so, un norvegese, un premio Nobel, un’autorità religiosa…
Beh, allora nemmeno la Turchia di Erdoğan è il soggetto adatto per mediare.
E infatti…Comunque, devo dire che secondo me questo non è proprio il momento delle trattative. Per le quali spero che il momento arriverà, s’intende. Ora come ora Putin ha il bastone in mano, vuole misurare fino in fondo la sua forza in campo e solo dopo averlo fatto negozierà da una posizione di forza. Questa è l’ora dei generali, non dei diplomatici. E quando arriverà il momento i mediatori saranno altri, come ho detto. Sono molto scettico che possa essere una personalità cinese. Per i motivi detti prima e anche perché gli Stati Uniti non glielo consentirebbero mai. Washington farebbe di tutto per impedire che Pechino potesse ammantarsi dell’onore di una mediazione andata in porto.
Ma allora perché la spettacolarizzazione del vertice con i leader tedesco e francese?
Perché era spettacolo, appunto, e a Xi non costava nulla. D’altronde se ci fosse stata una seria intenzione di mediare, i dirigenti di Pechino avrebbero evitato di appoggiare piuttosto platealmente le ragioni dei russi. Il portavoce del ministro degli esteri ha dato un’interpretazione molto “schierata” sulle posizioni di Mosca dei motivi della crisi e poi della guerra. Sono state le azioni della NATO guidata da Washington a provocare il conflitto.
Ecco, veniamo ai rapporti russo-cinesi. C’è un’alleanza di fatto, che ha avuto il suo momento simbolico nell’incontro di Xi con Putin alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi invernali. C’è chi dice addirittura che il leader cinese fosse stato informato dal russo dell’imminenza dell’attacco all’Ucraina.
Non parlerei affatto di alleanza. C’è semmai una convergenza di interessi. Dico convergenza d’interessi perché so che la Cina non ama nessuno, non si allea con nessuno, non costituisce assi con nessuno. Non lo ha mai fatto, neppure a suo tempo con il Vietnam o con la Corea del Nord. È un paese intriso di nazionalismo, che fondamentalmente guarda solo ai propri interessi. Può anche darsi che per controbattere la prepotenza degli Stati Uniti sia necessario far convergere gli interessi con quelli di Mosca, ma si tratta di una convergenza legata alla contingenza.
Non c’è insomma un ritorno di fiamma tra russi e cinesi dopo gli scontri del passato…
I rapporti tra i due paesi sono sostanzialmente buoni, ma non c’è proprio alcun innamoramento. Direi che quel che domina è il pragmatismo. Le strutture economiche di Russia e Cina sono fortemente complementari. La Russia fornisce alla Cina materie prime e soprattutto gas e petrolio e la Cina fornisce alla Russia manufatti industriali e tecnologia. A parte quelli che contengono tecnologia militare, la grande maggioranza dei prodotti finiti in Russia sono made in China. Esiste anche una complementarietà geografica e demografica perché ci sono molti trasferimenti di lavoratori dalle regioni popolose dell’Amur alla spopolata Siberia russa. C’è una certa integrazione economica, insomma, ma non si può certo parlare di un asse tra due paesi che hanno fatto della dottrina della non ingerenza un caposaldo nella gestione dei rapporti internazionali. Sono gli interessi economici che dominano. E dominavano pure quando, alla fine degli anni ’60, i due paesi si confrontarono militarmente. Il conflitto non era di natura ideologica, come ci piaceva pensare allora. Il “blocco socialista” si frantumò perché allora gli interessi materiali erano entrati in contrasto. Insomma, Cina e Russia sono ambedue paesi complicati, grossi, profondamente diversi per ideologie e basi culturali, che hanno deciso di andare d’accordo perché hanno un nemico comune, gli Stati Uniti, una frontiera comune lunga migliaia di chilometri e due economie complementari. Non conviene a nessuno dei due essere nemico dell’altro, ma non è proprio il caso di definirli amici o alleati.
Lei ha scritto, professore, che il consolidamento dei rapporti economici della Cina con il resto del mondo ha raggiunto un punto di non ritorno per cui i dirigenti di Pechino possono permettersi di affrontare i problemi di sviluppo interni. Ma non c’è il rischio che la destabilizzazione indotta dalla crisi ucraina, o magari altre successive, danneggi questo percorso?
Le rispondo su due piani. Da un lato stiamo assistendo al fatto che il decoupling, cioè il tentativo di disallineare le economie riducendo il peso della Cina ha mostrato il suo fallimento per la semplice ragione che ormai non è praticabile. Non è possibile costruire in tempi brevi un’altra “fabbrica del mondo” e dire che le cose che ora faccio in Cina le faccio in casa, o magari in Vietnam o in Bangladesh. Non funziona così. Ci sono voluti anni e sforzi titanici per costruire “the factory of the World” che produce tutto per tutti a prezzi bassi e, ormai, con ottimi standard di qualità. Gli americani più avveduti, per esempio il Segretario di Stato Antony Blinken, stanno abbandonando questa retorica del decoupling. Il secondo piano riguarda proprio soggettivamente la Cina. Se si verificano delle crisi mondiali – e nell’ultimo decennio ne abbiamo avute tre: quella finanziaria, quella pandemica e ora la guerra – il pericolo è che con la recessione mondiale l’economia della Cina non trovi più i clienti all’estero, che non si vendano più i prodotti della “fabbrica del mondo”. Il nonno americano non comprerà più la Barbie alla nipotina e a chi produce le Barbie in Cina che cosa accadrà? Verrà licenziato? Ci saranno effetti devastanti sull’occupazione? E questo provocherà disordini sociali? È ancora tollerabile – questo è l’assillo del potere a Pechino oggi – che l’economia cinese dipenda così fortemente dall’economia dei paesi industrializzati dell’occidente? La risposta è no. È stato accettabile nei tempi passati in cui la Cina doveva industrializzarsi e doveva farlo in fretta, ma nei tempi che viviamo ora non è possibile che la sua economia dipenda da un virus, dai combattimenti in Ucraina o dal fallimento della Lehman Brothers. Questo dal punto di vista strettamente economico. Poi c’è anche un aspetto che riguarda gli aspetti immateriali, il senso di sé, l’orgoglio nazionale: le sorti del nostro paese non possono dipendere da quello che succede negli altri paesi. Allora che facciamo? Chi comprerà la Barbie che non si vende più a New York? L’economia cinese per troppo tempo è vissuta praticamente solo di esportazioni, d’ora in poi la crescita deve essere trainata anche dalla domanda interna, dai consumi. È la strategia della dual circulation impostata da Xi Jinping: le merci debbono continuare ad andare all’estero, ma debbono anche restare in Cina e si debbono aumentare i salari perché i cinesi possano comprarle. È proprio riducendo l’importanza relativa dell’interdipendenza con l’estero che diventano meno pericolosi gli effetti delle crisi che arriveranno dall’esterno.
Gli anni della crescita tumultuosa trainata dalle esportazioni ha arricchito tutto il paese oppure ci sono ancora sacche di sottosviluppo?
Nessun altro paese al mondo ha conosciuto una crescita economica come la Cina negli ultimi 40 anni. La ricchezza è aumentata per tutti ma in modo molto ineguale. Nelle città più che nelle campagne, per i più ricchi più che per i più poveri, per i finanzieri più che per gli operai. È un dramma per chi è di sinistra dover constatare che il traino economico in Cina è stato determinato dalle diseguaglianze. Ecco un motivo di riflessione.
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