Ucraina, un referendum per fermare la corsa alla guerra totale

Negli 11 mesi della guerra in Ucraina, ha scritto il New York Times, i russi avrebbero perso, tra morti e feriti, oltre 200 mila soldati. È una cifra quattro volte più alta di tutte le perdite americane in vent’anni di guerra del Vietnam, settanta volte il numero dei soldati della NATO caduti in Afghanistan dal 2001 al 2021.

Come in tutti i conflitti armati, le dichiarazioni sulle cifre relative alle perdite sono un elemento della propaganda ed è possibile che quelle di fonte ucraina riportate dal giornale americano siano esagerate, così come è probabile che lo siano anche quelle fornite da Mosca sulle vittime dell’esercito nemico. Quel che è certo, però, è che la guerra causata dalla proditoria aggressione di Vladimir Putin sta esigendo un tributo di sangue enorme nelle file dell’esercito invasore. Si tratta di una circostanza che deriva da una tradizione consolidata nell’attitudine verso la guerra non solo delle classi dirigenti ma anche del popolo, dei popoli, della Russia: le guerre si combattono senza risparmiare sulle vite dei soldati; oltre che le armi contano le masse degli uomini che combattono, la morte dei quali viene messa nel conto come una variabile che negli altri paesi non viene valutata con la stessa disinvoltura, almeno dalla fine della seconda guerra mondiale in poi.

Vladimir Putin, ph Gavriil Grigorov/TASS

Una lunga catena di azioni obbligate

I continui richiami della retorica di Putin alla “grande guerra patriottica” del ’41-’45, culminati nella celebrazione della battaglia delle battaglie, quella di Stalingrado, hanno questo segno, cui corrisponde, per quanto se ne può sapere e capire, un sentimento diffuso in una larga parte, probabilmente maggioritaria, dell’opinione pubblica del suo paese: a differenza di quanto avviene in occidente, in Russia il patriottismo sussume l’accettazione della morte. Se queste sono le premesse, la grande offensiva che – è opinione comune – i russi scateneranno in primavera, quando le steppe torneranno asciutte, o forse anche prima, deve davvero far paura.

Ma che cosa succede nell’altro fronte? Qualche giorno fa, la decisione della NATO di fornire a Kiev i carri armati di ultima generazione, per ora i Leopard 2 di produzione tedesca fra qualche mese gli Abrams americani, ha segnato – si è detto – una svolta. In realtà non di una svolta si è trattato ma di un passo avanti in un processo che è andato prendendo nel tempo le caratteristiche di una catena di decisioni obbligate, tali cioè da dipendere ognuna da quelle assunte prima. I paletti che gli americani e gli alleati della NATO avevano fissato alla fornitura di armi a Kiev e giudicati non superabili pena una non voluta compromissione attiva nel conflitto, sono caduti uno dopo l’altro.

All’inizio si parlava di “armi difensive” (ammettendo che esistano armi difensive che non siano tali da poter anche offendere), poi di sistemi di artiglieria e missilistici con gittate da campo di battaglia, poi dai blindati e dai carri leggeri si è passati ai carri armati di ultima generazione e nell’ultimo pacchetto da due miliardi di dollari annunciato dalla Casa Bianca figurerebbero anche missili a lungo raggio, come chiedeva da tempo Volodymyr Zelensky e come a Washington ha fatto sapere che avverrà il portavoce del Pentagono Pat Ryder. Nelle scorse settimane il presidente Biden aveva detto e ripetuto che gli americani non avrebbero fornito armi in grado di raggiungere in profondità il territorio russo e che i missili sarebbero stati forniti a Kiev dietro l’impegno esplicito di non colpire obiettivi in Russia, ma data la configurazione geografica dell’Ucraina, i missili a lungo raggio potrebbero essere utilizzati solo per colpire obiettivi fuori dal paese. E poiché c’è da pensare che non verrebbero certo lanciati contro i paesi della NATO, se il portavoce del Pentagono non ha evocato una minaccia infondata (è anche possibile) l’unica conseguenza che si può trarre è che le autolimitazioni che il presidente americano ha continuato ad imporsi fino a qualche giorno fa sono state superate dai fatti. Il prossimo paletto destinato se non a cadere a vacillare pericolosamente è quello imposto sulle forniture di caccia F16: i “duri” della NATO, polacchi e baltici, sarebbero già pronti al sì e pare che gli americani stiano cercando escamotage per farli arrivare a Kiev evitando il passaggio di una fornitura diretta.

Il conflitto è ormai finito in un cul-de-sac

Niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe commentare: l’escalation non è stata certo inventata dalla guerra in Ucraina. Il problema è che questa escalation, a differenza di quelle delle guerre del passato non presenta alcuna possibile soluzione di continuità. Né per gli occidentali né per i russi. Il processo di radicalizzazione è cominciato come risposta all’aggressione di Putin, che è il primo responsabile del conflitto, ma il progressivo rafforzamento militare del paese aggredito non ha portato a un alleggerimento della situazione, bensì a un progressivo inasprimento del confronto militare insieme – va da sé-  con l’aumento delle sofferenze e dei lutti della popolazione ucraina. Resi ancor più insopportabili dalla barbara strategia di Mosca di fare proprio dei civili l’obiettivo più esposto bombardando sistematicamente le infrastrutture essenziali alla vita delle comunità nella cinica, ma vana, speranza che il freddo e la fame spezzino la solidarietà del popolo con i suoi governanti. Un errore classico commesso in passato da tutte le potenze che, da quando esiste la possibilità di colpire dal cielo, hanno puntato sui bombardamenti per vincere le guerre.

Non solo il conflitto è aumentato di intensità, offrendo un argomento forte a quanti si oppongono all’escalation delle forniture di armi a Kiev, ma si è determinato un formidabile stallo delle prospettive. Quando e come finirà la guerra? Nel cul-de-sac in cui tutti i protagonisti si sono cacciati, nessuno ha una risposta minimamente plausibile. Gli ucraini affermano di non voler trattare finché non avranno liberato tutti i territori occupati dai russi dal 24 febbraio in poi, più la Crimea occupata nel 2014. I russi considerano quei territori parte, ormai, della Federazione russa e minacciano una risposta nucleare se verranno attaccati, a cominciare dalla Crimea.

Apparentemente, l’unica possibilità che si sblocchi l’impasse è che Putin venga rimosso dal potere e a sua volta questa possibilità può dipendere quasi esclusivamente da una pesante sconfitta militare. La prospettiva del regime changing come fine ultimo della guerra, per quanto venga negata da Washington e, con minore chiarezza, dai vertici della NATO nonché con paradossale ambiguità dai vertici delle istituzioni europee, è l’unica plausibile al punto in cui sono arrivate le cose a meno che non ci sia un radicale cambiamento della strategia occidentale.

È straordinaria, però, la reticenza con cui nel dibattito pubblico intorno alla guerra non viene affrontato il problema del “dopo”. Nessuno sembra avere una risposta alla domanda più immediata e, in fondo, più banale: se l’autocrate del Cremlino scomparisse, chi verrebbe dopo di lui? Che garanzia c’è che un successore, magari -nell’ipotesi migliore ma non necessariamente più probabile – più democratico e più orientato verso il dialogo con l’occidente, potesse sottrarsi alle ragioni che hanno spinto il suo predecessore all’avventura militare? A quel micidiale mix, che ha generato la guerra, tra comprensibili interessi di sicurezza per cui l’Ucraina non dovrebbe essere lo strumento per portare i missili della NATO a trecento chilometri da Mosca e neoimperialismo post-sovietico ispirato dall’insostenibile principio che ovunque ci siano persone che parlano il russo dev’essere Russia?  Ci sono purtroppo molte ragioni per pensare che il nazionalismo, anche nelle sue espressioni più aggressive e “imperiali”, sia un sentimento piuttosto diffuso nella società russa ed è difficile che chi si trova a governare il paese possa ignorarlo. E il nazionalismo russo alimenta il nazionalismo dei nemici della Russia, tutti i popoli che hanno subìto la prepotenza imperiale del grande vicino, culminata nella repressione delle libertà nazionali imposta dall’Unione Sovietica.

zelenskyI due piani su cui bisognerebbe intervenire

La sottovalutazione di queste spinte nazionalistiche e anzi l’attitudine a solleticarle non solo in Ucraina ma, per esempio, in Polonia e nei paesi baltici, a considerarlo un fattore da sfruttare utilmente in funzione dello scontro dell’occidente con Mosca, una volta risolto (se mai sarà risolto) il conflitto attuale, sarebbe destinata a produrre nuove tensioni e nuovi scontri in un’area instabile, dai confini storicamente incerti e mutevoli e soprattutto quasi mai coincidenti con gli insediamenti delle diverse etnìe.  Per averne un’idea, si pensi solo al fatto che con la pace di Versailles l’Ungheria ha perso due terzi del proprio territorio e che dopo la seconda guerra mondiale la Polonia si è “spostata” di qualche centinaia di chilometri verso ovest…Il violento tentativo dell’autocrazia russa di rimettere in discussione i confini e l’assetto di questa area di grandi incertezze ha scoperchiato un vaso di pandora dal quale potrebbero uscire molti altri conflitti. Riempire di armi sofisticate un’area con queste caratteristiche non pare proprio un’assicurazione sul futuro.

Se le ragioni che hanno spinto la Russia, la Russia non solo Putin, a scatenare l’aggressione contro l’Ucraina sono davvero la miscela di interessi di sicurezza che Mosca reputava non soddisfatti e la rivendicazione imperialistica di restaurare una Grande Russia che riconduca in patria tutti i russofoni a cominciare dai tanti che vivono nel paese vicino, allora una strategia efficace per costringere Mosca a desistere dal suo disegno dovrebbe prevedere iniziative su tutti e due i piani.

Sul primo, quello delle garanzie di sicurezza, i buoni propositi dei tempi precedenti lo scoppio della guerra e delle primissime fasi del conflitto sulla “finlandizzazione” dell’Ucraina sono caduti nel nulla non solo a causa della brutalità dell’aggressione russa, ma anche per le scelte di progressiva radicalizzazione delle risposte occidentali determinata dalla percezione del pericolo e il conseguente innesco della escalation di cui sopra. È un chiarissimo segnale del carattere decisivo di questa percezione il fatto che perfino la Finlandia abbia rinnegato la propria stessa “finlandizzazione” per scegliere di aderire, insieme con la neutrale Svezia, alla NATO.

Esistono le condizioni per riprendere il discorso, che in un certo momento è sembrato prendere corpo su possibili negoziazioni con la Russia per la creazione di un sistema di sicurezza europeo sul modello del processo di Helsinki che cinquant’anni fa portò a una sensibile diminuzione dei pericoli di guerra (anche per errore) e a una relativa distensione che a sua volta favorì i processi di democratizzazione che faticosamente si affermavano nei paesi dell’Est? Certo, nel clima che l’asprezza della guerra e il coinvolgimento della popolazione civile sempre più pesante voluto scientemente dai russi hanno creato non è per niente facile. Ma se l’iniziativa venisse presa da un’entità terza rispetto ai contendenti, per esempio l’assemblea delle Nazioni Unite? In altri tempi avremmo detto l’Unione europea, ma l’appiattimento dei suoi attuali massimi rappresentanti sulla NATO e su Washington pare aver tolto a Bruxelles ogni capacità di mediazione.

Ancora più difficile da affrontare è l’impasse determinata dalla pretesa di Mosca di considerare territorio russo non solo la Crimea ma anche i territori occupati dopo il 24 febbraio. Una strategia con qualche possibilità di produrre risultati potrebbe essere quella di prendere, per così dire, i russi in parola. Sostengono di essere stati “costretti” a invadere il Donbass e le regioni costiere che storicamente appartennero alla cosiddetta Nuova Russia per tutelare i “russi” che abitano quelle regioni, prevalentemente russofone? E allora si chieda ai russi di accettare che gli abitanti decidano loro con chi vogliono stare. Mosca consenta che si tengano uno o più referendum e si impegni ad accettarne l’esito. Naturalmente dovrebbe trattarsi di votazioni garantite e supervisionate da un’entità neutrale, come, anche in questo caso, l’ONU.

Quale sarebbe l’esito di simili eventuali referendum? Per averne un’idea basterebbe pensare a quello che accadde nei primi giorni di guerra, quando Putin pensava che i suoi soldati sarebbero arrivati rapidamente a Kiev accolti come liberatori dalle popolazioni della parte orientale e meridionale dell’Ucraina che nelle contese politiche dei primi anni Duemila erano state sempre piuttosto filorusse, e invece si vide che la grande maggioranza di quelle regioni non aveva alcuna voglia di considerare “liberatori” gli invasori che arrivavano con i carri armati e sparavano loro addosso. Tutto lascia pensare che a parte, forse, i due oblast del Donbass, e ovviamente la Crimea, la maggioranza degli abitanti, anche dove i russofoni predominano, sceglierebbero di restare in Ucraina. Dimostrerebbero con il voto la validità di un principio che dovrebbe governare i rapporti tra i popoli e tra i popoli e il potere in tutto il mondo e ancor di più in quella parte tormentata d’Europa: la libertà delle persone non si giudica da quello che è scritto sul loro passaporto, ma dal fatto che siano rispettati i loro diritti fondamentali, le loro idee e la facoltà di esprimerle, la loro cultura, la loro religione, la loro lingua. Se gli ucraini negli ultimi anni avessero anch’essi rispettato questo principio avrebbero oggi molte più ragioni da far valere.

Siamo sinceri. Al momento, le possibilità che Mosca accetti la via dei referendum sono molto vicine allo zero. Ma l’introduzione di questa variabile nel dibattito intorno alla guerra avrebbe comunque effetti positivi. Intanto costringerebbe i russi – tutti i russi, non solo quello al Cremlino – a confrontarsi con una proposta concreta, a uscire dal dualismo vittoria totale-sconfitta totale che è micidiale in ogni guerra. E poi offrirebbe al confronto politico in occidente una sponda per sottrarsi alla logica della escalation senza fine. Sarebbe un modo per tornare a parlare di politica. Perché, per dirlo con le parole del grande storico del militarismo Wolfram Wette, la reazione più sbagliata alla guerra è la guerra.