Tutta la bellezza e tutto il dolore d’una vita contro i mercanti di morte

Sackler lie, people die”. I Sackler mentono, la gente muore. Gli attivisti di PAIN, acronimo di Prescription Addiction Intervention Now, fanno irruzione al Met di New York, cospargono il pavimento di flaconi per pillole, reggono cartelli, si sdraiano a terra. Sono lì – guidati dalla fotografa e militante Nan Goldin, tra i fondatori di PAIN – per chiedere campagne vere di prevenzione delle mortali overdose da oppioidi e gridare alto e chiaro che la famiglia Sackler, proprietaria della Purdue Pharma, grazie all’antidolorifico OxyContin miete milioni di dollari e centinaia di migliaia di vittime. È dal 2017 che Nan, oggi settantenne, icona assoluta della controcultura americana e da decenni celebrata in mostre e rassegne in tutto il mondo, ha iniziato una lotta senza quartiere contro le abnormi falle della sanità americana, non al passo sui farmaci salvavita anti-overdose come il Narcan, e contro l’avidità della Purdue e dei Sackler, che con un marketing tempestato di bugie hanno da un canto negato la possibilità che l’OxyContin causasse dipendenza, dall’altro si sono impegnati a lavarsi nome e coscienza con ingenti donazioni a istituzioni culturali e musei.

Mecenati dalla coscienza nera

Ecco il perché di quegli attivisti al Met, vogliono che il nome dei Sackler, mecenati dalla coscienza nera, diventi sinonimo di morte per abuso di oppioidi e sia tolto da ogni sala, da ogni cartello. Di marketing hanno vissuto, di marketing devono patire. Una guerra giusta, l’ennesima per Nan Goldin lungo una vita seminata di lutti, cocci di bottiglia, cadute e resurrezioni, amicizie e amori, tossici e no. Una vita grande con dentro proprio “Tutta la bellezza e il dolore” (“All the beauty and the bloodsheed”, lo spargimento di sangue), raccontata in un documentario di rara forza dalla regista bostoniana Laura Poitras, senza risparmio d’empatia e intelligenza cinematografica, ben accompagnata da Participant e Praxis Films – i produttori indipendenti ideali – e sostenuta dalle musiche del New York Soundwalk Collective.

Nan Goldin con Laura Poitras

Tutto si tiene nel viaggio di Nancy “Nan” Goldin, a partire da un’infanzia complicata alla periferia di Washington (“una morsa soffocante”), con due genitori  inadatti a crescere figli (“li avevano fatti perché era previsto”, racconta) e dal suicidio della sorella maggiore Barbara che travolge Nan a undici anni. Barbara era una ragazza anticonformista, poco incasellabile anche nella sessualità, intimamente libera, un soggetto ideale da “curare” con più di un ricovero in un ospedale psichiatrico, era l’America degli anni Cinquanta e dei primissimi Sessanta, quando l’elettroshock terapeutico andava di moda. Di buone attenzioni psicologiche avrebbe invece avuto bisogno la madre, donna mai cresciuta e vittima di abusi sessuali da piccola. Nan va via di casa a tredici anni (“sono stata cacciata dalla mia famiglia, da quella adottiva e da quella affidataria”) e si è salvata. Barbara “mi ha indicato la strada”. Alla sorella appartengono le parole nel titolo di questo eccezionale documentario carico di emozioni, parole inaudite, diapositive, filmati rari, fotografie che hanno fatto la  rivoluzione (politica, culturale). Tanti anni dopo la morte di Barbara, Nan scoverà le sue cartelle cliniche e leggerà il risultato di un test psicologico con le macchie di Rorschach. La ragazza, scrivono i medici, vede in quelle chiazze simmetriche “all the beauty and the bloodsheed”. Bellezza e effusione di sangue, perché, sottolinea Nan, “la realtà non ha finali semplici”.  Se lei ha siglato un armistizio con le memorie più lancinanti lo deve pure ai tre anni di riprese e ricerche per il doc di Laura Poitras, un cinema del reale non su Nan, ma con Nan. Sorellanza vera che fa sorridere il cuore.

Foto per vincere la paura

“Le cose sbagliate vengono tenute nascoste nella società, e questo distrugge le persone”, dice in voce off (non ci sono nel doc interviste a domanda e risposta). È il manifesto di un’arte che getta sotto gli occhi degli indifferenti le drag queen, i gay, i colpiti dall’aids, i sex workers, i malati di mente, i dipendenti da sostanze: tutti stigmatizzati, bollati, scarti di lavorazione del nostro sistema di vita. Nan è stata tossica rischiando di morire per il Fentanyl, un altro micidiale analgesico oppioide, ha lavorato in un bordello, ha fatto la go-go dancer per pagarsi i rullini fotografici: scattare foto gli ha fatto vincere la paura. Ha amato donne e uomini, ha amato Brian che non era riuscito a chiudere la loro storia e l’aveva picchiata sugli occhi. Ha vissuto in comuni, alla Bowery di New York, ha abitato con squatter e anarchici, ha stretto amicizie solide come catene, la prima, appena andata via di casa, con David Armstrong, un giovane omosessuale che stava capendo il suo eros (“Ci siamo liberati a vicenda”), con Cookie, Suzanne, Vivienne, donne poco o nulla conciliate coi ruoli predefiniti,  con l’attivista di PAIN Meghan, il giornalista d’inchiesta Patrick Keefe, il primo a smuovere le acque sui danni da ossicodone e il mecenatismo peloso dei Sackler. 

Prepotenza maschile

“The ballad of sexual dependency” nell’85, con settecento foto per uno slide show duro e commovente sulla prepotenza maschile, “Witnesses against our vanishing” nell’89, le vittime dell’Aids testimoni contro l’oblio, il recente “Memory Lost” sono le tappe salienti di un poderoso intervento artistico-culturale sulle stigmate sociali. Dice Nan: “I miei primi lavori riguardavano le drag queen di Boston all’inizio degli anni Settanta, ma non ho mai realizzato che il mio lavoro fosse politico fino al 1980 circa. È stata Maggie Smith, che gestiva il bar dove ho fatto la barista per cinque anni, a farmi capire che il lavoro era politico”.  Il bar era il “Tin Pan Alley”, crogiolo di musica, poesia, performance, un luogo e una suggestione tra le mille del doc, che punta il coltello sulle sclerosi di quell’America satura di beata ignoranza e poi affonda. Nan Goldin e Laura Poitras dovevano incrociarsi, era destino. La regista cinquantanovenne, degna di stare al fianco del grande Michael Moore e del suo cinema documentario di denuncia civile, ha – tra molto altro – vinto l’Oscar e il Pulitzer per “Citizenfour” (2014) su Edward Snowden, l’ex tecnico della Cia e collaboratore della National Security Agency che ha rivelato i programmi statunitense e britannico di sorveglianza di massa. E il suo “My Country, My Country” (2006), sull’occupazione statunitense dell’Iraq, all’Oscar è stato candidato.

Minoranze attive, giornalisti liberi

Ovviamente Laura è stata inserita in una lista segreta di sorveglianza antiterroristica e pure Nan Goldin e altri attivisti di PAIN hanno subito attenzioni poco gradite, appostamenti, pedinamenti e altre piacevolezze. Ma ben più di qualcosa hanno ottenuto, la National Portrait Gallery  di New York è stata la prima a rifiutare una donazione della famiglia Sackler e altri musei si sono accodati, mentre a cancellare dalle sale il nome dei padroni della Purdue ha iniziato il Louvre, esempio seguito in tutto il mondo. Portati in giudizio e costretti ad ascoltare le testimonianze dei parenti di alcune vittime dell’OxyContin (un momento di tensione emotiva assoluta del doc), hanno pagato sei miliardi di dollari per ottenere l’immunità. “L’idea di essere riusciti a condizionare un’azienda multimiliardaria in America è il mio orgoglio e la mia gioia”, dice Nan, regalando una nota positiva sulla vitalità, nonostante tutto, della democrazia americana, fertilizzata da mille minoranze attive, giudici capaci di intendere, giornalisti liberi. La battaglia per sensibilizzare sui mortali pericoli degli analgesici oppioidi – hanno già mietuto 500.000 vite – continua. L’indomita Nan consegna a Laura un biglietto trovato nel portafoglio di Barbara, c’è trascritto un brano da “Cuore di tenebra” di Conrad: “Che cosa strana la vita, quel misterioso organizzarsi di una logica spietata per un futile obiettivo. Il massimo che potete sperare è una certa conoscenza di voi stessi cui arrivate troppo tardi – una massa di rimpianti inestinguibili”. Le buone battaglie, l’arte, le amicizie sono un eccellente antidoto per cercare di spegnerli, almeno un po’.

I 122 minuti di “Tutta la bellezza e il dolore”, Leone d’Oro a Venezia, sono passati in sala da noi per pochi giorni, un peccato, ma rispuntano qua e là nei circuiti che propongono cinema d’autore. Nel caso, merita e molto recuperare in streaming su HBO e “IWonderfull”, la piattaforma streaming di “I Wonder Pictures”, il distributore italiano.