Tra tic, osanna e sentimenti facili: il Festival è il nostro Metaverso

Durante e dopo la battaglia stravinta dell’audience stramilionaria, alti si sono levati gli epinici, i canti della gloria, il fumo degli incensi. Amadeus incede tra ali di folla plaudente, un funzionario Rai gli tiene sopra il capo il lauro del trionfo sibilandogli all’orecchio: “Ricordati che sei mortale ma l’anno prossimo ti rivogliamo sul palco dell’Ariston, non fare scherzi”.
Sanremo edizione 72 ha fatto piazza pulitissima di qualsiasi residuo dubbio critico su una kermesse antica e ogni anno attualizzata e “socializzata” con minimi, innocui drenaggi nella cosiddetta vita vera; ha spazzato via con un glamour ineluttabile – efficacemente imposto da una sontuosa scenografia multicolore cangiante – le residue volontà, in praticamente tutta la stampa mainstream, di giudizi difformi o almeno velati, di domande plausibili una volta delibate le canzoni in gara: davvero televoto, giornalisti e giuria demoscopica hanno sempre ragione? Si potrà andare oltre il bene-bravo-bis senza farsi fulminare dal caporedattore o magari dal direttore che sa benissimo quanto la sua poltrona dipenda dagli introiti pubblicitari, da quella rumba sponsoristica e reclamistica che dà vertebre e struttura alla mediasfera? È lecito ritenere vagamente leggerino il testo di “Inverno dei fiori” di Michele Bravi che recita “Tu insegnami come si fa/ Ad imparare la felicità”? e un attimino risaputa la canzone “Duecentomila ore” di Ana Mena con l’incipit “Sola io ti aspetterò/ A cena da sola/ In mezzo al fumo di mille parole/ Di canzoni che non hanno età/ Sulla pelle il tuo sapore” e mesta l’immagine di Loredana Bertè settantunenne a cosce di fuori? ?

Il nazionalpopolare dell’era Covid

Sanremo si è fatta applaudire senza condizioni, reinsediando la tivù, per cinque sere, nell’idem sentire di un bel po’ di persone, compresi stavolta, ed è clamoroso, pure tanti giovanissimi. Quasi fosse tornato quel calore di comunità spettatrice, quell’aura d’antan che ti faceva provare una morbida, carezzevole compresenza, un filo di miracolo tra Ariston e divano. Cose di decenni e decenni fa. Di nuovo nazionalpopolare, secondo il maestro Pippo Baudo, gattopardo di tempra democristiana che mixava protesta operaia del loggione e damazze impellicciate delle prime file di platea. Avrà contato un pochino il biennio di covid, quella voglia ritrovata di abbraccio, di buoni sentimenti facili, di identità italiana condivisa? Forse sì. Poi, è chiaro, ci sono i tantissimi che il Festival proprio non lo digeriscono, però molti di loro un’occhiata con lo smartphone la danno egualmente.

Il transatlantico ha viaggiato senza manco sfiorare un iceberg e Amadeus è volpe timoniera che mai si sognerebbe “inchini” alla Schettino. E allora sotto col nec plus ultra, col Sanremo che tutto concentra e contiene, come un’entropia vivace, un buco nero con un campo gravitazionale così forte da attirare pagine e pagine di commenti, titoloni, immagini su carta dell’appena visto in televisione. Sotto con le toilettes lussureggianti e le canottiere, i tacchi sloganti e camiciole trasparenti di tulle con inserti barocchi di pizzo (pour homme, e sì), sotto con le vallette senzienti e propense allo scarto (ipercontrollato) dall’ovvio. C’è Sabrina Ferilli che somministra tranquillamente, impunemente una lezione di leggerezza citando Calvino mentre è in pieno svolgimento una sarabanda di cachet babilonesi e durante un’orgia da piccolo schermo mai durata, nelle cinque serate, meno di tre ore. C’è Maria Chiara Giannetta che avendo interpretato, nella recente serie “Blanca” su Raiuno (e dove, se no?) una arguta investigatrice cieca, ha portato sul palco gli ipovedenti che l’hanno aiutata a entrare nella parte: meritorio, intelligente, nel segno della scontata onnicomprensività e della neo-inclusività sanremese, una legge che impone non sfioramenti ma cannibalizzazioni. Forse solo Drusilla Foer è uscita intatta da quel fuoco, una splendida Fenice.

E poi c’è la musica

Poi ci sarebbe la musica, ci sarebbero le canzoni e i cantanti, pescati nei quartieri alti del ranking, artisti centrali, non marginali come accadeva ai tempi dei Jalisse (Fabio Ricci e Alessandra Drusian), un duo di meteore che, dopo essere usciti vincitori dal Sanremo del ’97, ancora non accettano di venir rimbalzati regolarmente, ogni anno, dai direttori artistici del Festival. La sacra messa mediatica vuole solo ostie preziose, naturalmente per fagocitarle, uniformarle al trend musicale morbido-melanconico-intimista, in una parola: ritorno alla tradizione.

Mahmood e Blanco, i vincitori, si depurano da rap, hip hop, periferie, “Brividi” ha melodia, ha testo, ha bella sinergia: “Nudo con i brividi/ A volte non so esprimermi/ E ti vorrei amare, ma sbaglio sempre/ E ti vorrei rubare un cielo di perle/ E pagherei per andar via/ Accetterei anche una bugia/ E ti vorrei amare, ma sbaglio sempre/ E mi vengono i brividi, brividi, brividi”. Nulla di maudit, macché maledettini, due agnelli.

“Ma questa canzone sembra uguale all’altra”: chi non l’ha mai pensato durante Sanremo 72? Un’autoreferenzialità ribadita dalla convocazione in gara di Gianni Morandi e Iva Zanicchi , col primo impegnato, nella serata delle cover, ad autocitarsi in un medley di suoi successi, da “Occhi di ragazza” a “Un mondo d’amore”, coadiuvato da Jovanotti a sua volta autocitante con “Ragazzo fortunato” e “Penso positivo”. La freccia è ferma, la musica si fa catalogo: un postmoderno all’ennesima potenza che non cambia neanche le parole. E Noemi se la sfanga sgolandosi in “You make me feel like a natural woman”: abbordare Aretha Franklin segnala un coraggio leonino, mentre Giovanni Truppi osa con De André e mal gliene incoglie, nonostante l’appoggio di Vinicio Capossela.

Un concentrato di tic, personaggi, “figure”, colori, note, abusate atmosfere, l’ospite sempre “emozionato/a di essere qui”. Tutto su un palco, per quasi una settimana, per tante ore al giorno, quasi una unione di fatto con Amadeus. Il nostro Metaverso, il clou della realtà virtuale, si chiama Sanremo.