Tra tic, osanna e sentimenti facili: il Festival è il nostro Metaverso

Il nazionalpopolare dell’era Covid
Il transatlantico ha viaggiato senza manco sfiorare un iceberg e Amadeus è volpe timoniera che mai si sognerebbe “inchini” alla Schettino. E allora sotto col nec plus ultra, col Sanremo che tutto concentra e contiene, come un’entropia vivace, un buco nero con un campo gravitazionale così forte da attirare pagine e pagine di commenti, titoloni, immagini su carta dell’appena visto in televisione. Sotto con le toilettes lussureggianti e le canottiere, i tacchi sloganti e camiciole trasparenti di tulle con inserti barocchi di pizzo (pour homme, e sì), sotto con le vallette senzienti e propense allo scarto (ipercontrollato) dall’ovvio. C’è Sabrina Ferilli che somministra tranquillamente, impunemente una lezione di leggerezza citando Calvino mentre è in pieno svolgimento una sarabanda di cachet babilonesi e durante un’orgia da piccolo schermo mai durata, nelle cinque serate, meno di tre ore. C’è Maria Chiara Giannetta che avendo interpretato, nella recente serie “Blanca” su Raiuno (e dove, se no?) una arguta investigatrice cieca, ha portato sul palco gli ipovedenti che l’hanno aiutata a entrare nella parte: meritorio, intelligente, nel segno della scontata onnicomprensività e della neo-inclusività sanremese, una legge che impone non sfioramenti ma cannibalizzazioni. Forse solo Drusilla Foer è uscita intatta da quel fuoco, una splendida Fenice.
E poi c’è la musica
Poi ci sarebbe la musica, ci sarebbero le canzoni e i cantanti, pescati nei quartieri alti del ranking, artisti centrali, non marginali come accadeva ai tempi dei Jalisse (Fabio Ricci e Alessandra Drusian), un duo di meteore che, dopo essere usciti vincitori dal Sanremo del ’97, ancora non accettano di venir rimbalzati regolarmente, ogni anno, dai direttori artistici del Festival. La sacra messa mediatica vuole solo ostie preziose, naturalmente per fagocitarle, uniformarle al trend musicale morbido-melanconico-intimista, in una parola: ritorno alla tradizione.
Mahmood e Blanco, i vincitori, si depurano da rap, hip hop, periferie, “Brividi” ha melodia, ha testo, ha bella sinergia: “Nudo con i brividi/ A volte non so esprimermi/ E ti vorrei amare, ma sbaglio sempre/ E ti vorrei rubare un cielo di perle/ E pagherei per andar via/ Accetterei anche una bugia/ E ti vorrei amare, ma sbaglio sempre/ E mi vengono i brividi, brividi, brividi”. Nulla di maudit, macché maledettini, due agnelli.
“Ma questa canzone sembra uguale all’altra”: chi non l’ha mai pensato durante Sanremo 72? Un’autoreferenzialità ribadita dalla convocazione in gara di Gianni Morandi e Iva Zanicchi , col primo impegnato, nella serata delle cover, ad autocitarsi in un medley di suoi successi, da “Occhi di ragazza” a “Un mondo d’amore”, coadiuvato da Jovanotti a sua volta autocitante con “Ragazzo fortunato” e “Penso positivo”. La freccia è ferma, la musica si fa catalogo: un postmoderno all’ennesima potenza che non cambia neanche le parole. E Noemi se la sfanga sgolandosi in “You make me feel like a natural woman”: abbordare Aretha Franklin segnala un coraggio leonino, mentre Giovanni Truppi osa con De André e mal gliene incoglie, nonostante l’appoggio di Vinicio Capossela.
Un concentrato di tic, personaggi, “figure”, colori, note, abusate atmosfere, l’ospite sempre “emozionato/a di essere qui”. Tutto su un palco, per quasi una settimana, per tante ore al giorno, quasi una unione di fatto con Amadeus. Il nostro Metaverso, il clou della realtà virtuale, si chiama Sanremo.
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