Tra revisionismo e nostalgia: la “cultura nazionale” della destra al potere

Con un titolo ambizioso e a prima vista enigmatico, Pensare l’immaginario italiano, nei giorni scorsi si sono riuniti all’Hotel Quirinale di Roma alcuni tra i maggiori intellettuali di destra, con la partecipazione del ministro Gennaro Sangiuliano e la regia di fondazioni e associazioni (tra le quali spicca “Nazione futura”) che da tempo perseguono attivamente l’obiettivo di un rinnovamento della cultura conservatrice.

Come hanno spiegato gli organizzatori, la stessa formula di “cultura di destra” appare ormai riduttiva e forse superata, perché i rappresentanti di questa corrente ideale preferiscono riferirsi alla “cultura nazionale”, all’“identità italiana”, in una prospettiva che Sangiuliano ha definito “plurale” e “dialogante”. Inoltre (ed è un aspetto significativo), non si propongono di costruire una “controegemonia”, cioè di opporsi in forma diretta alla pretesa egemonia culturale di sinistra, ma di lanciare una “sfida” alle basi ideali di una cultura progressista.

Aspirazioni al nuovo e vecchie nostalgie

sangiulianoSarebbe sbagliato sottovalutare la novità e l’interesse di queste posizioni, spesso sostenute da opere storiche e teoriche di un certo spessore e rilievo, come quelle dedicate (da diversi autori) ai temi della nazione o del liberalismo. Lo stesso Sangiuliano, d’altronde, giornalista di robusta formazione, ha offerto contributi significativi in tale senso, a cominciare dalla pregevole biografia di Giuseppe Prezzolini del 2008. In particolare, non abbiamo più di fronte la posizione tradizionale di destra, il neoliberismo degli ultimi decenni del Novecento o quel liberalismo superficiale e un po’ paesano che accompagnò il periodo di Berlusconi. C’è una ripresa di antichi motivi del Movimento sociale e di Alleanza nazionale, ma in una forma largamente revisionata. La cultura di sinistra farebbe bene a prendere sul serio questa “sfida”, a rispondere, per così dire, sul medesimo terreno, senza illudersi che basti qualche lezione di “globalismo” o il solito, generico richiamo alla cultura dei diritti importata dal modello democratico americano.

Naturalmente questa cultura neo-conservatrice trova il suo primo avversario, e un motivo di palese contraddizione, all’interno della propria area, nel quadro politico di governo a cui, in maniera esplicita, intende riferirsi. Una cultura conservatrice e liberale dovrebbe distinguersi, in primo luogo, da qualsiasi nostalgia di tipo fascista, come quella che è emersa, in maniera volgare, dalle recenti parole del presidente del Senato sull’attentato di via Rasella e dalla scialba presa di distanza del capo del governo, riconoscendo fino in fondo e senza ambiguità le basi democratiche e antifasciste della nostra Repubblica (fu Benedetto Croce, occorre ricordarlo?, spesso citato a proposito e a sproposito, la guida morale dell’opposizione al fascismo).

Le contraddizioni della cultura di destra

Inoltre, una moderna cultura conservatrice dovrebbe abbandonare ogni posizione autoctona e latamente razzista, assumendo il problema dell’immigrazione come una priorità del nostro tempo. Ma soprattuttopensare l'immaginario italiano dovrebbe spiegare come possa conciliarsi il suo programma culturale “innovatore” con i cardini dell’attuale azione di governo, dalla flat tax al pericoloso mix tra presidenzialismo e autonomia regionale differenziata, che rischierebbero di frantumare, piuttosto che affermare, l’identità tradizionale della nostra nazione, fondata sul principio della progressività delle imposte e (almeno da Cavour) sulla forma della democrazia parlamentare.

Contraddizioni sulle quali, a quanto ci risulta, non sono state spese parole di pur minima chiarezza. Rimane il fatto, tuttavia, che i protagonisti di questa nuova “cultura nazionale” cercano di riconfigurare la storia italiana secondo una linea caratteristica. Se si guarda al pántheon degli autori maggiormente citati, si trovano (oltre, ovviamente, i vari Longanesi e Prezzolini) i nomi di Cuoco, Gioberti, Croce, persino Gramsci. Mancano o vengono evocati con parsimonia, invece, i pensatori a cui la cultura di destra ha sempre guardato con maggiore insistenza, da Mazzini a Gentile.

In generale, è una strana genealogia della nazione, piuttosto selettiva, che forse meriterebbe qualche riflessione, dove non si trovano mai citati momenti costitutivi dell’identità italiana, dall’illuminis mo a Cattaneo a Spaventa a Labriola, che di Croce fu, per altro, mai dimenticato maestro.

Cultura nazionale e storia mondiale

pensare l'immaginario italianoMa il limite maggiore di questa nuova cultura riguarda proprio il concetto-chiave che si vuole affermare, cioè l’idea di “cultura nazionale”. Gli intellettuali di destra continuano a pensare che l’identità nazionale sia un processo autoctono, che si costituisce per linee interne, al riparo da ingombranti influenze esterne. In realtà, la “cultura nazionale” è sempre e soltanto una traduzione, sia pure creativa, delle grandi tendenze della storia mondiale. Così come, d’altronde, essa è un contributo alla formazione di idee universali. Se recidete questo nesso tra la nazione e il mondo, anche l’identità nazionale diventa incomprensibile e si scioglie come neve al sole.

Basti pensare all’illuminismo italiano, grande versione “nazionale” delle idee francesi e inglesi, o al nostro idealismo dell’Ottocento e Novecento, che riprese e “riformò” la filosofia di Hegel, o infine al marxismo di Labriola e di Gramsci, alla filosofia della pràxis, che ispirò un comunismo democratico e plasmò in forme originali il pensiero di Marx, di Lenin e dell’esperienza sovietica. Senza questa continua e progressiva traduzione di idee, che “circolano” (come intuì il nostro Spaventa) da un lato all’altro del mondo, da una lingua all’altra del pianeta, non esiste alcuna “nazione”, se non, appunto, nell’“immaginario”, cioè nell’immaginazione di qualche intellettuale.

Il discorso riguarda, naturalmente, anche la cultura di sinistra. A uno sguardo d’insieme, sembra che la cultura politica sia oggi condannata a questa oscillazione impropria tra nazionalismo e globalismo. Da un lato si cerca di pensare la nazione come una creazione autonoma e indipendente, senza connessioni e senza storia, d’altro lato si annulla la realtà delle nazioni, e tutto si discioglie in una sfera globale liscia e indifferenziata, dove rimangono in campo solo bisogni che di volta in volta diventano diritti, magari “umani”, garantiti da organismi giuridici internazionali.

Abbiamo perso, a destra come a sinistra, la capacità di pensare la realtà dell’interdipendenza, in cui nascono, in un solo atto, la forma delle nazioni e quella del mondo. Eppure, solo in questa continua “traducibilità” delle idee e delle lingue (come insegnava Gramsci nei suoi quaderni carcerari), che si chiama interdipendenza e unità del genere umano, può esistere e avere un senso la “cultura nazionale”.