Tra paura e vita:
i due scenari
dopo l’epidemia

È rapidissimo e uccide le sue vittime soffocandole. Questi segni distintitivi del morbo che ci sta flagellando appaiono allusivi in modo beffardo e sinistro al vorticoso e inquinato stile di vita che conducevamo fino a poco tempo fa, quasi lo rappresentano in una forma potenziata e mostruosamente efficace. Potenziata perché l’asfissia di chi è colpito dal virus ha purtroppo limitati margini di soluzione, efficace per la velocità, senza avvitamenti su se stessa, con cui il contagio persegue il suo scopo distruttivo.

Un’aria mefitica

In tal senso ci sono continuità e differenze evidenti con le settimane, ritenute normali, appena trascorse, che ci vedevano tutti respirare, non soltanto nelle città, l’aria mefitica e impastata di giornate assolate in maniera patologica, lontane dall’inverno che le avrebbe dovute avvolgere e in parte purificare. Per non parlare della convulsa velocità, senza alcuna meta, che da troppo tempo scandisce le esistenze dei più, completamente assorbite dal soddisfacimento individuale momentaneo, quindi dal consumismo distratto di merci e di affetti, dimentiche della differenza fra bisogno e desiderio, in sostanza prive di qualsiasi scopo più ampio del proprio personale orizzonte e insensibili alla vita degli altri esseri viventi. Sono comportamenti che fanno il paio con lo scoraggiato immobilismo dei meno, ma comunque troppi, privi di speranza rispetto a possibilità elementari di vita indipendente e dignitosa, sfiduciati nei confronti di qualsiasi progetto di cambiamento, gravati dalla povertà materiale, oltreché da quella spirituale comune alla gran parte.

È la chiusura in se stessi, per narcisismo o per disperazione, a caratterizzare entrambi questi modi di vivere, appiattiti sull’immediato, cioè non soltanto estranei al futuro e al passato, ma anche al presente, oltreché espressivi di un’impotenza divenuta ormai costume. L’impotenza di sottrarsi al turbinio che fagocita tanto la quotidianità, rendendo spesso difficile il governo di se stessi, quanto ogni minima consapevolezza che la radice naturale dell’esistenza, la stessa che accomuna il tutto vivente, non può essere ignorata da nessuna seconda natura, cioè da nessuna costruzione umana, men che meno da quella che si reputa tanto avanzata da ritenere irreversibile il suo dominio sull’ambiente. Non a caso, in queste ore drammatiche, persino la scienza mostra la corda rispetto a un fenomeno antico e potente come la pandemia, per non parlare di come risultino inconsistenti le teorie filosofiche più concentrate proprio sulle dinamiche della seconda natura, anche quando siano volte a mostrarne la fragilità o la violenza, o di come sia stata definitivamente smascherata, addirittura a livello mondiale, la mancanza di lungimiranza politica.

Vincere la paura

Rispetto all’Italia l’azzeramento sostanziale di qualsiasi teoria, cioè di qualsiasi astrazione più o meno controllata, capace di dar conto di quanto sta accadendo, assieme al discredito irrecuperabile di gran parte della classe dirigente, preoccupata in primo luogo dall’affermazione di se stessa, aprono, come in tutte le grandi crisi, scenari ambivalenti. Finita la pandemia ‒ anche se a nessuno è dato sapere quando finirà e se saranno esclusi suoi eventuali ritorni periodici e pericolosi ‒ ci sono le medesime possibilità tanto per una rinascita civica e politica, quanto per un peggioramento del nostro stile di vita, se il controllo sociale non verrà del tutto allentato e se i ambiente, climatimori economici annulleranno tutte le altre esigenze. A favorire l’una o l’altra prospettiva sarà in primo luogo la volontà e il coraggio dei molti di tornare ad essere, tutti insieme, padroni delle proprie esistenze, sapendo quanto sia difficile riuscirci, visto che l’autonomia richiede, in primo luogo, la forza di trasformare la paura in attenzione. Se la paura costringe lo sguardo, l’attenzione si sviluppa invece nella visuale ampia e concentrata, quella che si estende da se stessi alle esigenze degli altri e dell’ambiente, nella consapevolezza che non c’è vita se non nella relazione, che il bene, sempre collettivo, è più importante del tornaconto individuale, così sollecitato dalle promesse populiste e dai ricatti economici, che l’intransigenza non è superbia e la disponibilità non è debolezza.

È una sfida senza pari, che riguarda ciascuno di noi, perché ognuno è il punto di riferimento, insieme agli altri, da cui ripartire, visto che le voci intellettuali e politiche sono ormai del tutto prive di credibilità, sopratutto per piccineria e per sudditanza agli interessi più biechi, e che la posta in gioco è la possibilità stessa di una vita cosciente e libera.