Fra le trame di Erdoğan
e Trump contro l’Europa
ha ancora senso la NATO?

Nella gran quantità di commenti, analisi, interpretazioni e sofismi che dilagano sui media a proposito del ruolo che nella crisi libica stanno giocando la Russia di Putin e la Turchia di Erdoğan c’è in Italia (ma non solo) una clamorosa omissione. Nessuno, o quasi, menziona il fatto che la Turchia è uno dei 26 paesi nella NATO, né, di conseguenza, che uno dei protagonisti di un’azione che giudichiamo illegittima e destabilizzante in un’area così drammaticamente sensibile per l’Italia e per tutta l’Europa è, sulla carta, un nostro alleato, legato a un Trattato che, fra i tanti obblighi, prevede all’articolo 5 l’entrata in guerra di tutti i membri dell’Alleanza a fianco di uno dei partner nel caso che esso venga coinvolto in un conflitto armato.

Insomma, quando ha deciso la sua avventurosa invasione della Siria settentrionale sostenendo che si stava difendendo dalla “guerra” dei curdi, Erdoğan avrebbe potuto invocare l’articolo 5. Non lo ha fatto, come non lo ha fatto in passato nessun altro paese, neppure gli Stati Uniti dopo l’11 settembre, che hanno scelto di chiamare alla solidarietà gli alleati nella forma della willing coalition.

Erdoğan con Stoltenberg

Ma il problema, ovviamente, resta. La struttura della NATO, compreso l’articolo 5, è quella stabilita dal Trattato istitutivo, che è rimasto lo stesso nonostante i successivi allargamenti dell’alleanza, e il Trattato fu firmato nel 1949, quando il mondo era molto più semplice: da una parte c’era l’Occidente libero e democratico, dall’altro il blocco sovietico che lo minacciava. L’aggressione a un paese di uno dei due blocchi costituiva in effetti un attacco a tutti. Quel mondo – c’è bisogno di ricordarlo? – non esiste più da almeno tre decenni: l’impero sovietico si è disciolto, lasciando nostalgie e tentazioni revansciste all’autocrazia dell’attuale inquilino del Cremlino, e il blocco occidentale si è andato articolando intorno a due poli, ai due lati dell’Atlantico, che sono andati sempre più divaricandosi, mentre anche per il pilone europeo si rivelava sempre più faticosa e incerta la strada dell’integrazione.

L’esaurimento del compito storico

Facciamo per un attimo la storia con i “se”. All’indomani della caduta di Berlino, dell’unificazione tedesca e della disgregazione della parte europea dell’impero sovietico ci sarebbero state tutte le condizioni per dichiarare finito il compito storico della NATO. Le ragioni per cui lo scioglimento allora non avvenne furono diverse, ma fondamentalmente ruotavano intorno a due mancanze: l’assenza di un’efficace e credibile struttura di gestione delle crisi internazionali, e cioè la debolezza dell’organizzazione delle Nazioni Unite; l’assenza di una sufficiente coscienza di sé della componente europea, il timore che, caduta la struttura politica unificante dell’alleanza atlantica, anche sul nostro continente prevalessero particolarismi e spinte nazionalistiche giacché il processo dell’integrazione comunitaria appariva ancora incerto e troppo debole, soprattutto nel momento in cui doveva allargarsi ai paesi dell’ex impero sovietico. Più o meno consapevolmente, un po’ anche per l’inerzia di funzionamento che hanno tutte le grandi organizzazioni, un po’ per la pressione di grandi interessi dell’industria bellica, la NATO fu portata a tenere alto il suo livello militare e ad assumersi compiti di gestione delle crisi che sarebbero stati dell’ONU. Nel farlo, però, esprimeva interessi non universali ma di parte e come tali avversabili e avversati. Doveva fare la guerra, e la fece. Inoltre, per confermare la propria legittimazione doveva far perennemente riferimento a una comunità di valori condivisi ai due lati dell’Atlantico, la democrazia di stampo occidentale, che non necessariamente poggiavano anche, come nel passato, su una reale e solida comunità di interessi, né militari né,  e sempre meno con il passare del tempo, economici e commerciali.

Per anni si è sostenuto che il pericolo più insidioso che l’alleanza doveva evitare era il cosiddetto “decoupling”, cioè uno scollamento, degli interessi strategici degli americani e degli europei. E proprio a favorire il decoupling mirò tutta la strategia dei sovietici, dal tempo in cui Stalin promise ad Adenauer la riunificazione della Germania se avesse proclamato la neutralità del paese al riarmo missilistico a cavallo degli anni 70-80. Gli SS20 puntati sull’Europa a questo servivano: convincere gli europei a riconoscere che i loro interessi di difesa non coincidevano con quelli degli Stati Uniti e del Canada. La NATO rispose restaurando l’unità degli interessi interatlantici con l’installazione degli euromissili americani in Europa e la pressione dell’opinione pubblica pacifista alla fine costrinse tutte e due le parti a fermarsi sulla strada che portava al pericolosissimo riarmo atomico nel continente.

Un Trattato decisivo e dimenticato

Il Trattato INF  che portò al blocco delle installazioni e poi allo smantellamento degli euromissili da una parte e dall’altra aprì una stagione di grandi speranze: da un lato pose le premesse per l’affermarsi del tentativo di democratizzazione di Gorbaciov nel blocco orientale, dall’altro, alleggerendo il peso della dipendenza militare dell’Europa dagli USA, favorì una certa ripresa della spinta all’integrazione che portò, al Vertice europeo di Maastricht nel ’92, alla nascita dell’Unione Europea.

È stato perciò un brutto segnale di mancanza di consapevolezza storica il disinteresse totale con cui è stato accolto prima l’annuncio di Donald Trump di voler ritirare gli Stati Uniti dal Trattato INF e poi, pochi mesi fa, l’uscita ufficiale. Gli americani, già con Obama, avevano denunciato violazioni da parte dei russi, ma esistevano sicuramente ampi margini per trattare. In qualche modo, il disinteresse dei media e dell’opinione pubblica per la morte di una volontà di disarmo che – i meno giovani ricorderanno quanto – animò sogni e speranze di milioni di pacifisti è ancora più grave dell’atto politico in sé compiuto dal presidente americano e assecondato, in buona sostanza, dal suo nemico-amico Vladimir Putin. Il decoupling è tornato alla grande, nei fatti e soprattutto nelle prospettive politiche del potere americano.

Reagan e Gorbaciov firmano il trattato INF

D’altra parte, perché stupirsi? Nei primi tre anni della sua presidenza Donald Trump ha fatto di tutto per dimostrare che verso l’Europa, le sue istituzioni comuni ma anche (eccetto la Gran Bretagna di Boris Johnson) i diversi paesi, nutre una inimicizia profonda. Non c’è solo la guerra dei dazi a testimoniarlo: su tutti i dossier internazionali il capo della Casa Bianca ha agito ignorando o contrastando apertamente le posizioni e gli interessi dei paesi europei. Per citare solo l’esempio più recente, prima ha denunciato l’accordo sul nucleare con l’Iran, faticosissimamente negoziato soprattutto dagli stati dell’Unione, imponendo sanzioni a chi non lo rispetta, e poi ha fatto precipitare il conflitto con l’Iran ordinando l’uccisione del generale Suleimani. L’alleanza con gli europei, per lui, esiste soltanto ormai per esigere in ogni vertice collettivo e in ogni incontro bilaterale l’aumento delle quote per le spese militari.

Mancanza di coerenza

Non è un segnale di grande coerenza da parte di un commander-in-chief che ogni dieci o venti twitter se ne lascia sfuggire uno sulla inutilità della NATO e sull’infedeltà dei suoi componenti europei al principio dell’America First. Ne sa qualcosa il Segretario Generale dell’Alleanza, il norvegese Jens Stoltenberg che ha l’ingratissimo compito di tenerne in piedi una parvenza di senso politico. Lo abbiamo visto borbottare poco dignitose parole di “comprensione” ad Erdoğan quando le sue truppe sono entrate in Siria e affidarsi a risibili giochi di parole per dissociarsi dall’assassinio di Baghdad.

I governanti europei, anche (e soprattutto) quelli italiani, continuano a far finta di niente, come se sulle relazioni con l’America di Trump e sulla NATO splendesse il sole della “tradizionale amicizia” e del “comune impegno”. Fino a quando dovrà reggere questa ipocrisia?