Tra crisi e ripartenza,
serve una strategia alternativa

“Ripartenza”, è la parola chiave del discorso di fine anno del presidente della Repubblica. Mattarella, però, ha accuratamente evitato di apparire come una sorta di oracolo della crisi-araba fenice (che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa) che, in piena pandemia, sta agitando il quadro politico . È come se avesse voluto ricondurre il gran vociare su elezioni-sì/ elezioni-no nell’alveo istituzionale delle prerogative che la Costituzione assegna esclusivamente al presidente della Repubblica. E qualcosa deve dire anche che Mattarella si sia rivolto agli italiani come uno dei “costruttori” di cui il paese ha bisogno per “non sprecare energie e opportunità”, non “perdere tempo” e non “inseguire illusori vantaggi di parte”.

Un tale rischio deve essere stato avvertito, proprio nelle ore della elaborazione del messaggio di Mattarella, quando il Senato ha approvato la legge finanziaria ricevuta in extremis dalla Camera dei deputati zeppa di prebende, bonus, mance e sussidi. Un analogo ritardo si era verificato nel 2018, da parte del governo presieduto sempre da Conte ma con una maggioranza gialloverde (M5S e Lega). E allora fu il capogruppo del Pd, Marcucci, a segnalare lo sbrego alla Corte costituzionale. Questa volta è stato il senatore Zanda, sempre del Pd, a riconoscere il “vulnus obbiettivo”. E in tanti, dagli scranni dell’uno e dell’altro schieramento, hanno fatto proprio il richiamo, considerandolo istituzionalmente dovuto.

Politicamente, oltre ai precedenti – che dovrebbero comunque rendere avvertiti sulla loro pericolosità – ha pesato anche l’interesse dell’opposizione a lasciar correre per accaparrarsi una porzione (10 miliardi, a dar retta al leader della Lega) del “fritto misto”, come è stato definito dal costituzionalista Sabino Cassese, cotto con le frattaglie corporative sparse dalle tensioni sociali scatenate dal coronavirus.

Può anche risultare si sia fatto di necessità virtù. Nel senso che, avendo trattato di fatto il merito della manovra finanziaria nella sola Camera dei deputati, è emersa tutta la strumentalità della dichiarata, prima e dopo il referendum sul taglio dei parlamentari, impraticabilità del superamento del bicameralismo perfetto. Ancora più grave si sta rivelando il sostanziale boicottaggio di una piattaforma riformatrice comprensiva della revisione del meccanismo elettorale che nel 2018 aveva provocato la sostanziale interruzione degli esperimenti di democrazia maggioritaria a favore del surrogato coalizionale che ha consentito allo stesso premier di guidare due coalizioni di diverso colore.

Può anche darsi che non tutto il male venga per nuocere, almeno per i cultori del semi-maggioritario, qualora l’instabilità dovesse avere il sopravvento e obbligare i soggetti attualmente coalizzati a misurarsi così come sono – o, meglio, come dovessero ritrovarsi nella eventualità di uno scioglimento anticipato della legislatura – con urne allestite in funzione dei collegi del Rosatellum intanto allargati.

Ma perché imboccare scorciatoie tanto sdrucciolevoli e accontentarsi dei surrogati anziché misurarsi apertamente su soluzioni che ridiano senso, credibilità e – perché no – legittimazione alla politica?

Tra tirare a campare e tirare le cuoia

Se uno spazio di agibilità c’è, tra il “tirare a campare” che allarma Zingaretti e il “tirare le cuoia” temuto da Conte, lo si può ricercare solo al di fuori del cinismo e del fatalismo che, come a suo tempo non salvarono l’autore originario della battuta, non sono in grado in questa tormentata stagione politica di contrastare l’indifferenza al divenire strategico delle coalizioni che, prima o poi, dovranno pur competere per la guida del paese.

Perché allora non cominciare a restituire valore alla democrazia dell’alternanza? Tanto più che l’uso delle ingenti risorse del Nex Generation EU (209 miliardi, a cui potrebbero aggiungersi i 37 del Mes sanitario) valgono oggi per quando si riuscirà a consumarle, entro il 2026, quindi investendo comunque la prossima legislatura. Non basterà spendere, bisognerà essere capaci di farlo, come ha sottolineato il commissario europeo Gentiloni, che conoscendo bene da ex presidente del Consiglio la realtà del nostro paese, ha tenuto a chiarire la differenza tra le procedure della governance (attengono al monitoraggio, quindi non sono da considerarsi sostitutive di funzioni democratiche) e strategia con cui gestire risorse che altrimenti scaricherebbero “debito cattivo”, per dirla con Draghi, su generazioni che invece aspirano a caricarsi la crescita futura.

Non sarà l’evanescente “Ciao” di Renzi a salutare il più che mai necessario cambio di passo nell’offerta politica. Che è, e avrebbe dovuto essere già nel passaggio dal governo gialloverde a quello giallorosso, altra cosa rispetto ai movimenti tattici di qualche ministro in uscita, da rimpastare o addirittura sostituire in una nuova compagine governativa. E non sarà nemmeno l’emergenza del coronavirus a giustificare l’ennesima mutazione governativa in questa convulsa legislatura. Eppure un qualche fondamento la controversia deve pur averla, se lo stesso Conte ha delegato – in questo caso fidandosi, a differenza che per i servizi segreti – ai ministri piddini Gualtieri e Amendola il compito di risolvere un conflitto la cui gestione investe troppi soggetti che la politica ha fin qui stentato a ricondurre a responsabilità condivise.

Tirerà anche aria di crisi, ma non mancano, volendole cogliere nelle aule parlamentari, le occasioni – il Mes sanitario, il nuovo scostamento di bilancio e il piano nazionale di rilancio e resilienza – per “costruire” intanto una strategia alternativa allo status quo. Che certo ha poco a che fare con la “ripartenza” a cui, nel caso, non potrà che provvedere il presidente della Repubblica