Toh, si rivede la Milano dei film polizieschi con un grande Favino

Nessuna obiezione per le saghe napoletane di camorra (“Gomorra”, Sky), per la vivacità extralegale romana al cinema (“Suburra” di Stefano Sollima) o in pay (“Romanzo criminale”, ancora Sky). Sono luoghi d’elezione per l’occhio della cinepresa a caccia di colore e azione criminale e lo stesso discorso può valere per la Sicilia del commissario Montalbano, nonostante Vigata sia un mondicino a sè, una specie di magica Macondo umana e investigativa per la quale non si renderanno mai abbastanza grazie ad Andrea Camilleri. Però poi fioccano televisivamente inauditi omicidi a Genova (“Petra”, Sky) e soprattutto a Matera (Matera!), sagacemente accuditi dalla sostituto procuratore Imma Tataranni (Rai1), mentre Bologna si fa tentacolare crogiolo di malaffare e l’implausibile, cialtrone ispettore Coliandro (Rai2), quasi senza volerlo, ci mette le mani con successo.

Non manca Aosta, nuova destinazione del commissario romano Schiavone (Rai2), un brulichio di assassini, quasi che in alpeggio, tra sorsi di genepì e fondute, l’umanità desse il peggio di sé. E dire che non siamo a Chicago negli anni Venti, bensì in località men che normalmente inclini alla cronaca nera (per Bologna vale un discorso diverso se parliamo di cronaca nera politica).

Da parecchio il genere era scomparso dal capoluogo lombardo

Curiosamente, in tutto questo giro d’Italia tra gialli e thriller latita o quasi Milano, grande città europea fiera di una produttività criminale di un certo rilievo, coi colletti bianchi o senza, ricca di materia prima, ghetti urbani compresi, e però mai “luogo comune” di avventure criminal-delittuose da più di quarant’anni (ci torneremo su). Il “quasi” è merito di una miniserie dell’anno passato, “Monterossi” (Prime Video), protagonista Fabrizio Bentivoglio nei panni di Carlo Monterossi, autore tv con vocazione a ricomporre puzzle dove c‘è scappato il morto, l’antieroe dei romanzi di Alessandro Robecchi per Sellerio (“Di rabbia e di vento”, “Torto marcio”), una coscienza infelice dagli occhi ben aperti sulle periferie e i margini urbani come sulle pieghe meno commendevoli della capitale di moda e design.

Va salutata quindi con piacere e curiosità la robusta toppa messa dal cinquantenne Andrea Di Stefano, ex attore di un certo rango, col suo terzo action movie, “L’ultima notte di Amore”, firmato come regista, soggettista e sceneggiatore, thriller crepacuore immerso in una Milano da bere e da morire, nera ma così nera che non si riesce a distinguere, secondo tradizione del genere, i buoni dai cattivi. Il furbesco Amore del titolo è il cognome di Franco, integerrimo assistente capo alla Mobile a fine corsa dopo tre decadi e mezzo di servizio sulle volanti e tutti i contorni prevedibili di stress, notti insonni, scazzi coi superiori.

Favino convincente come sempre

Pierfrancesco Favino con Andrea Di Stefano alla presentazione di “L’ultima notte di Amore”

Pierfrancesco Favino si giostra il protagonista assoluto del film dispiegando i soliti convincenti calibri, mai mezza forzatura, tanta sostanza per l’ennesimo sigillo di qualità a una carriera tonante (si fa prima a citare i film dell’ultimo decennio in cui non ha lavorato), gli sta a fianco la brava Linda Caridi, che è Viviana, seconda moglie giovane e innamorata con voce in capitolo nel bene e nel male: la vita talvolta slitta, fa derapate, diventa tentatrice. Il di lei cugino, il laido Cosimo Forcella (Antonio Gerardi) ci giocherà una discreta parte, galleggia tra vestiti eleganti, morale di plastilina e ‘ndrangheta, l’opposto del collega e amico-fratello di Amore, Dino (Francesco Di Leva, non sfruttato al meglio), un buon Cristo poco macho e per nulla amante delle armi, al pari di Franco, che si fa vanto di non aver mai sparato in carriera.

I due, entrati in un gioco sbagliato, molto più grande di loro, sembrano fin da subito e saranno destinati a scivolare in una spirale di micidiale violenza, mossa dalla eterna, esecranda fame di soldi e intossicata da tradimenti insospettabili.

Flashforward (per gli affezionati all’italiano: prolessi). Casa Amore è affollata di amici, colleghi della ps e parentado, latita solo il festeggiato, Antonio, ancora un giorno e sarà in pensione. Arriva in ritardo, ha appena il tempo di salutare via web la figlia di primo letto e il telefono squilla, il suo superiore annuncia una strage.

Il poliziotto sempre fedele colto in tentazione l’ultimo giorno di lavoro

Dalle parti di Rho, in un sottopasso, Dino è steso sull’asfalto, morto, nei pressi altri cadaveri, per un totale di cinque, uno carbonizzato, più lontano un’auto dei carabinieri coi lampeggianti accesi. Antonio accorre e vede. Una didascalia ci conduce a dieci giorni prima, in un attico del centro direzionale, zona vippata, è la distinta magione del ricco affarista cinese Bao Zhang, pater familias attorniato da non raccomandabili ceffi, con e senza gli occhi a mandorla. Bao è in debito con Antonio, che gli ha salvato la vita in circostanze non specificate, si fida del poliziotto e lo ha invitato – dietro suggerimento di Cosimo, ben introdotto nel milieu, lo vediamo mentre porta a un giocatore del Milan un orologio de luxe di provenienza incerta assai – per proporgli un lavoretto facile facile, dovrà andare all’aeroporto e scortare in città Feifei (Wang Fei).

Giusto 24 ore prima del pensionamento. Antonio nicchia, ha sempre rigato dritto, e se lo beccassero mentre lavora come security in conto terzi? Poche migliaia di euro, un’ora di lavoro, perché no? In polizia non si diventa ricchi se si rimane onesti, la fame di uno status migliore, rimasta per una vita sottotraccia, è tanta. Dino lo accompagnerà, possibile che li fermi qualche collega? Non è mai successo.

Tutto il resto precipita, un domino terrificante di azioni e reazioni fino, letteralmente, all’ultimo respiro e qui stop, pena reprimenda della commissione anti-spoiler. Al film non manca il ritmo, la regia, con abbondanza di droni a marcare la distesa della grande città, “pedina” efficacemente, con qualche piccola sbavatura e illogicità (come può uno sbirro sperimentato fidarsi, con leggerezza, di persone alla Bao o alla Cosimo?) l’ultima, inimmaginabile notte di un poliziotto piccolo piccolo – per parafrasare il film di Monicelli del ’77 – che per una vita ha tenuto a bada giacimenti di rabbia e recriminazioni.

Il regista Di Stefano ha studiato a fondo la città

Le musiche martellanti di Santi Pulvirenti danno una bella mano, deludente la fotografia di Guido Michelotti: era davvero obbligatorio giocarsi due ore di film a luce bassa, a rendere l’idea di una Milano bieca e polverosa? Andrea Di Stefano, come si dice, la porta a casa, ha studiato a dovere la piazza milanese, i momenti clou hanno il passo giusto. Come attore ha frequentato set importanti (da ricordare “Prima che sia notte” di Julian Schnabel, sulla drammatica parabola del poeta cubano Reinaldo Arenas, interpretato da Javier Bardem) e ha esordito dietro la macchina da presa convincendo, “Escobar-Paradise Lost” (2014) andava oltre le convenzioni del genere, la storia – vera – del surfista canadese innamorato della nipote del mega-narcos (Benicio Del Toro) vicino al crepuscolo, correva affiancando l’ingenuità e il male senza sbalzi di tensione.

Un’opera prima già matura e di respiro internazionale, firmata da un Italiano col passo del veterano made in Usa. Meno riuscito “The Informer-Tre secondi per sopravvivere” (2019). “L’ultima notte di Amore” – Indiana Production, in 340 sale con Vision Distribution – si colloca dignitosamente a metà.

Piccola deviazione a beneficio dei più giovani e dei boomers in vena nostalgica. Messo fuori catalogo – e non solo perché si tratta di classica commedia – “Audace colpo dei soliti ignoti” (1959) di Nanni Loy, dove la metropoli lombarda e il tunnel di via Sammartini attiguo alla Stazione Centrale fanno solo brevemente da quinta alla sgangherata banda romana di Peppe er Pantera-Gassman, Milano, tra la metà dei Sessanta e tutti i Settanta è stata una mecca del cinema giallo-nero, genere dissodato in più varianti e differenti esiti qualitativi, da non confondere con le puntate milanesi del cinema di denuncia civile, da “Sbatti il mostro in prima pagina” di Bellocchio del ’72 a “San Babila ore 20 un delitto inutile” (1976) di Lizzani, che in qualche modo riecheggiava, con le imprese criminali di un gruppo di fascisti, il massacro del Circeo, avvenuto l’anno precedente.

Il precedente del bellissimo “Banditi a Milano”

Più affine alle tematiche proprie del giallo-nero ma con uno spessore tutto suo, il bellissimo “Banditi a Milano” sempre di Carlo Lizzani (1968) con Gian Maria Volonté nei panni di Piero Canestraro, alias di Pietro Cavallero, capo dell’omonima banda di rapinatori torinesi, disadattati in odore d’anarchia. Un anno dopo, nel ’69, esce “I ragazzi del massacro” di Fernando di Leo (un gruppo di alunni di una scuola serale viene accusato di aver drogato, seviziato e ucciso una delle insegnanti) primo film tratto dai romanzi di un padre nobile del noir in nebbia milanese, Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko, nato a Kiev e universalmente noto come Giorgio Scerbanenco, l’ inventore di Duca Lamberti, medico radiato dall’Ordine per eutanasia (quando si dice avere l’occhio lungo) e riciclatosi investigatore privato.

Lo scrittore e giornalista è un pregiato fornitore di spunti e trame al cinema, nel ‘70 va in sala il mediocre “Il caso Venere privata” (racket della prostituzione senza pietà) del francese Yves Bossuet, tratto dal romanzo di Scerbanenco “Venere privata”, con un cast in grado di titillare i cinefili più attempati: Bruno Cremer, Marina Berti e il consorte Claudio Gora, Mario Adorf, Agostina Belli, Raffaella Carrà, Vanna Brosio, Rufus, nome d’arte per Jacques Narcy, il padre di Amélie-Audrey Tautou nel blockbuster di Jean-Pierre Jeunet del 2001.

Nel medesimo anno, Duccio Tessari dirige “La morte risale a ieri sera”, con Raf Vallone giustiziere privato, dal long-seller “I milanesi ammazzano al sabato”. E nel ’72 arriva “Milano calibro 9”, forse il più bel noir ispirato a storie di Scerbanenco (“Stazione centrale ammazzare subito” e riferimenti ai racconti “Vietato essere felici” e “La vendetta è il miglior perdono” dal libro che dà il titolo al film), regia ancora di Fernando Di Leo, cast ricco, in primis un Gastone Moschin nel ruolo per lui atipico, alla Melville, di un malavitoso segnato dal destino, a seguire Mario Adorf, Gigi Pistilli, Philippe Leroy, Barbara Bouchet. Mala milanese e Internazionale in un noir duro e puro, accompagnato dalle note di Luis Bacalov.

La capitale morale, tra le ultime case di ringhiera e i nuovi ricchi, vive ancora un boom economico, i soldi, magari facili, non sempre viaggiano sulle autostrade della legge, la criminalità è pimpante e per le strade, in un clima di contrapposizione ideologica mal vissuto da alcune frange dell’estrema sinistra extraparlamentare e dai neofascisti, muoiono ragazzi, muoiono poliziotti. Si respira violenza.

E il cinema interpreta gli umori qualunquisti della maggioranza silenziosa, che reclama legge e ordine, impazzano i poliziotteschi, le Giulia Alfa Romeo della ps rombano, omicidi e rapimenti dilagano, servirebbero maniere forti ma la politica indugia. Filmazzi manichei, eppure le sale si riempiono per vedere “Milano trema: la polizia vuole giustizia” (1973) di Sergio Martino, il meno peggio del mazzo è “Milano odia: la polizia non può sparare” (1974) di Umberto Lenzi con Tomas Milian sadico delinquente, addirittura “Milano violenta” (1976) di Mario Caiano presenta poche scene girate sotto la Madonnina, ma tant’è,

Milano è un marchio di garanzia per sparatorie, inseguimenti, sadismi e scene di nudo femminile. Film cult, volendo, di una stagione lontana. Però qui, nessuna nostalgia.