Ti vesti online?
Fai male al clima

Shopping online: poter acquistare ovunque qualunque cosa sette giorni su sette fa diventare il click su computer e cellulari un vero e proprio grilletto azionato contro l’ambiente. Si concentra sul reso nel campo dell’abbigliamento un nuovo studio svedese condotto da Michael Browne, professore di economia e logistica all’università di Gothenburg, una ricerca ampiamente ripresa da SVT, la tv di Stato.

Troppi resi

Quasi il 22 per cento degli abiti, scarpe e accessori comprati online viene restituito. Il/la cliente non ha seccature: consegna celere a casa, quasi sempre un mese di tempo per restituire, prelievo a domicilio se l’articolo viene rifiutato. Lo studio afferma che, per ora, il pubblico ha poca consapevolezza dell’intero processo di una restituzione e delle sue ripercussioni sul clima. Le confezioni rifiutate tornano quasi sempre al centro di provenienza, che ben di rado è vicino: molto spesso, al contrario, in Asia. Qui la merce viene controllata, riconfezionata e rispedita al centro “locale”, che serve grandi aree geografiche. Solo dopo questo procedimento può si rimettere in vendita l’articolo.

Quanto inquina quella maglietta?

L’abbigliamento è uno dei settori che inducono maggiormente a ordinare più merce del necessario: le incertezze su taglia, colore, vestibilità, ma anche la sicurezza di poter fare una scelta a casa senza conseguenze economiche sono fattori che lasciano una poderosa impronta in termini di inquinamento.

È evidente che le conseguenze in termini di emissioni e di energia per questo trasporto sono sempre più pesanti, commenta Michael Browne.
È pur vero che la congestione e l’inquinamento urbano causato dai grandi poli commerciali sono un danno, eppure il costo del commercio online male usato dai clienti e mal gestito dagli stessi distributori può essere ben più serio.

La fretta cattiva consigliera

Da tempo le associazioni ambientaliste propongono ai colossi dell’e-commerce di imporre prezzi significativamente più alti per le consegne immediate, ad esempio, che oggi al contrario implicano un aggravio minimo per chi esige di avere l’indomani o entro due giorni la merce ordinata. La fretta non motivata è, secondo lo studio, il fattore che sta più velocemente aumentando i gas serra, e anche comprare da casa può essere una componente di questa non razionale gestione delle vere priorità.

Il concetto di consegna gratuita, altro specchietto per le allodole fatto balenare alla clientela, non esiste. Per due ovvi motivi: le media dei costi di consegna è un fattore di composizione del prezzo e il costo non monetario, ma ambientale, lo paghiamo certamente. Visualizzare l’intero processo aiuta: le confezioni devono essere per forza di cose più voluminose per mantenere integro nel lungo viaggio il loro contenuto, l’ultimo miglio è sempre percorso da un corriere che entra nel flusso del traffico urbano e ogni reso raddoppia questo carico ambientale.

Vestirsi a chilometro zero

Moltiplicando queste azioni e spostamenti per un miliardo e novecento milioni di clienti, quanti sono coloro che compreranno l’anno prossimo on-line, che si tratti di un golfino o di una casa prefabbricata, si ha un’idea del traffico generato. Cui vanno aggiunte le restituzioni, un pendolarismo planetario costoso, che per l’abbigliamento riguarda un terzo degli ordini.

Fashion Revolution, un movimento avviato da giovani designer britannici e dei Paesi Bassi, con l’adesione di alcuni produttori, lavoratori del settore e clienti consapevoli, sta avendo un notevole successo nel lanciare una campagna per consumi di qualità da tutti i punti di vista, alla portata di chi può spendere meno o di chi decide di scegliere meglio mettendo da parte l’accumulo inutile.

L’idea di fondo è che il settore abbigliamento e chi lancia le tendenze moda non debbano sfruttare le persone né il pianeta. Questo significa paghe adeguate e rispetto della natura.

Un’economia circolare, dice il manifesto di Fashion Revolution, che ripari, riusi, ricicli e trasformi i materiali. Accanto a questi capi reinventati dagli stilisti a costi contenuti vi sono anche altre azioni per diventare degli acquirenti smart. Una delle buone iniziative è che, inserendo sulla piattaforma Fashion Revolution l’etichetta del proprio vestiario, si possono avere tutte le informazioni sulla sua provenienza e utili schede sul trattamento dei lavoratori, i trasporti, le condizioni aziendali. Allo stesso modo si possono avere informazioni sui fornitori di materie prime.

Senza assurde nostalgie passatiste va riscoperto quanto più possibile, come abbiamo fatto per il cibo, tutto il gusto e la bellezza del chilometro zero anche per ciò che indossiamo.

Per saperne di più:

la ricerca del professor Michael Browne

le statistiche della commissione europea sull’e-commerce 2018

l’associazione di giovani designer britannici e dei Paesi Bassi per una moda a chilometro zero