Theresa May umiliata al Parlamento
la Brexit è un incubo
per Londra e l’Europa
La misura della sconfitta. Era questa l’unica incertezza che pesava sul voto di ieri a Westminster, ennesima – ma a questo punto tutt’altro che definitiva – giornata cruciale per la Brexit e per Theresa May. La misura della sconfitta, l’incognita che determina i possibili scenari, si è spinta a 230 voti di svantaggio (432 no, 202 si al piano per una separazione concordata con la Ue). La peggiore performance per un governo britannico dal 1924, la peggiore di sempre. In tempi normali sarebbe stato più che sufficiente perché un primo ministro si facesse da parte. Ma non è quello che farà Theresa May che si è battuta fino all’ultimo contro il suo stesso partito: in 118 le hanno votato contro.
Il Labour annuncia una mozione di sfiducia che verrà messa ai voti oggi stesso. Sulla carta non ha molte probabilità di successo, i Tory promettono lealtà, lo stesso i dieci deputati del Dup, gli unionisti nordirlandesi che pure hanno bocciato l’accordo sottoscritto da May, opponendosi strenuamente alla clausola del backstop – il confine morbido tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del nord sul quale la premier non ha potuto dare garanzie maggiori se non la promessa che sarà temporaneo, come assicurato anche da Bruxelles. Ma non sono giorni da poter prendere per oro colato le dichiarazioni ufficiali, possibili defezioni sono sempre in agguato dopo una disfatta tanto fragorosa.
Se May dovesse cadere, ci sarebbero 14 giorni di tempo per trovare una nuova maggioranza. In assenza, si aprirebbe la via di elezioni anticipate. Se invece il governo restasse a galla, avrebbe in teoria solo spazio di un fine settimana per rimettere insieme i pezzi intorno ad un accordo alternativo, dopo aver fallito l’impresa in due anni e mezzo. May sarebbe tenuta a presentare il famoso piano b entro tre giorni, secondo la tabella di marcia stabilita dal parlamento – ma c’è una pattuglia di conservatori guidati da Nick Boles pronti a promuovere un emendamento per concederle tre settimane, prima di rimettere il fascicolo Brexit al comitato di collegamento dei presidenti delle commissioni della Camera. Una via parlamentare, allargata, diametralmente opposta alla segretezza perseguita da May, ma non meno impervia.
In ogni caso nessuno, secondo quanto riferisce la Bbc, ha la più pallida idea di come potrebbe essere questo famoso piano b, nemmeno gli stretti collaboratori della premier che, appena incassata la sconfitta, ha promesso di voler ascoltare tutti i partiti. Decisione che a questo punto appare tardiva. “Il primo ministro ha trattato la Brexit come una questione che riguardava i conservatori e non il Paese”, ha detto Jeremy Corbyn durante il dibattito a Westminster. Le aperture fatte del leader Labour nelle scorse settimane (collaborazione in cambio della creazione di un unione doganale con la Ue) non sembrano più moneta da spendere con una Theresa May umiliata dalla sconfitta di ieri.
Difficile comunque che con una bocciatura così fragorosa May possa tentare di strappare qualche correzione al piano faticosamente concordato con l’Unione Europea, anche se i brexiter come l’ex ministro degli esteri Boris Johnson, che ne ha affossato piano, sembrano pensare esattamente il contrario.
Il paradosso è che nel no al piano firmato May sono finiti sia i voti dei sostenitori di una hard Brexit, una separazione netta, che di quanti credono sia possibile migliorare i termini dell’accordo raggiunto e dei sostenitori della Ue. Da Westminster non arriva nessuna indicazione precisa sulla strada da prendere. Se non che il temporeggiare di May non è servito e che il governo, quale esso sia, non potrà ignorare il parlamento come ha fatto la premier britannica prima di finire all’angolo.
Dunque da questo momento si naviga a vista, mentre si annuncia tempesta. Anche per il Labour. Jeremy Corbyn punta ad elezioni anticipate ma se non riuscirà a mandare a casa il governo tory sarà più difficile tenere a freno le spinte di una base che in larga maggioranza (il 72%) è favorevola alla convocazione di un nuovo referendum, che consenta un dietro front. A favore di una nuova consultazione popolare anche i libdem e gli scozzesi dell’Snp, che spingono per restare nell’Unione. Corbyn finora è rimasto freddo su questa prospettiva, senza tuttavia escluderla. Ma potrà continuare a barcamenarsi? E la sfilza di punti interrogativi continua. Intorno all’ipotesi di un secondo referendum, alla quale potrebbe in definitiva approdare anche il governo May, non ci sono certezze di sorta: su cosa si voterebbe? Il vecchio quesito o il piano May? Un nuovo piano o l’uscita senza nessun accordo?
Resta infatti sul banco l’ipotesi di una Brexit senza nessun accordo, ipotesi paventata da May come un male ben peggiore del piano presentato ai Comuni ma temuta anche dai mercati e dalla Ue. Per i brexiter più convinti è una tentazione, saltare il fosso a occhi chiusi, o la va o la spacca. Ma servono i numeri e una copertura finanziaria che il voto della scorsa settimana ha escluso, grazie all’emendamento che limita i poteri del Tesoro nel caso di mancato accordo sui termini dell’uscita dall’Unione. I mercati, la sterlina che si è impennata dopo il voto, sembrano non credere più al rischio del no deal. Eppure dopo aver detto tanti no, Londra dovrà decidere da che parte vuole andare.
“Il rischio di un ritiro disordinato del Regno Unito è aumentato con il voto di stasera”, è stato il commento del presidente della Commissione europea Juncker. “Al Regno Unito chiediamo di chiarire le sue intenzioni il più presto possibile. Il tempo è quasi finito”. Al di là della reazione a caldo, non è però da escludere una dilatazione dei termini oltre il 29 marzo, data in cui in base all’articolo 50, si dovrebbe compiere il divorzio dall’Unione. A Bruxelles tutto sommato sono possibilisti a patto che si ragioni in termini di mesi. E in mezzo c’è lo scoglio delle europee.
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