RU468 donne

Ru 486, banderillas
e dolore sul corpo
delle donne

Banderillas sul corpo delle donne. Come definire altrimenti la decisione della giunta regionale umbra guidata dalla leghista Donatella Tesei che ha abrogato la possibilità del day hospital per la pillola abortiva? È come dire che, poiché non si può abrogare la legge 194, allora si burocratizza la degenza.

In tutto il mondo il day hospital è la prassi

pillola abortiva RU468 donneLa legge che sancisce il diritto delle donne all’autodeterminazione viene applicata a macchia di leopardo secondo un federalismo ideologico ed esagerato. RU 486 è ormai un farmaco antico, i protocolli per il suo utilizzo sono sperimentati e diffusi in Europa e nel resto del mondo. Il day hospital è la procedura standard, la misura di cautela adottata è che alla donna deve essere garantito il contatto immediato con la struttura sanitaria per fare fronte rapidamente a eventuali complicanze.
Invece no, nell’Umbria conquistata dalla destra si impone l’obbligo di tre giorni di ospedale, sacrificando all’ideologia misogina più retriva non solo il diritto di scelta delle donne ma anche la spesa sanitaria che potrebbe essere meglio impiegata. Siamo appena usciti dall’emergenza ospedaliera legata alla pandemia, sono di ieri e dell’altro ieri i casi di donne che non hanno avuto accesso ai servizi ospedalieri, ai reparti per l’interruzione di gravidanza.

L'attacco alla legge 194

RU468 donne
Camelia.boban / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)

È di questi mesi l’aumento dei parti in casa per timore del contagio ed è di questi mesi anche l’impegno dei reparti di maternità per tranquillizzare, attivare controlli a distanza. Impegno volto a migliorare il SSN, a ripensarlo rispetto a rischi nuovi, che a sua volta rischia di essere vanificato, viene intralciato dalla madre di tutte le battaglie ideologiche, quella contro la legge 194 che, come tutte le statistiche dicono, ha ridotto nel tempo il ricorso all’interruzione di gravidanza favorendo la prevenzione.
La signora Donatella Tesei ha aggiunto la sua voce ai colleghi maschi del suo partito per rappresentare le donne come colpevoli e irresponsabili. Siccome la RU 486 consente una situazione meno traumatica rispetto all’intervento abortivo chirurgico, allora bisogna infliggere il di più di sofferenza dell’ospedalizzazione, invocando ipocritamente la maggiore tutela.

Maura Cossutta, presidente della Casa internazionale delle donne invita a non sottovalutare il segnale: “Il centro sinistra deve essere più coraggioso nel difendere la laicità dello Stato, perché le destre all’attacco sono un’armata potente e una potenza economica, quella che fa capo a Bannon, quella che ha eletto Trump. Destre nazionaliste, retrive e machiste che finanziano i sovranismi e gli estremismi di destra”.


Fondi UE: come i ritardi
nella spesa provocano
disoccupazione

Ecco come e perché i ritardi si trasformano in mancanza di occupazione e in crisi dell’economia. Le Regioni e tre ministeri hanno infatti un tesoretto di oltre 38 miliardi di fondi Ue che non hanno ancora investito, e la scadenza per utilizzarli era la fine di quest’anno. Vero è che l’Ue chiude un occhio e concede un termine ulteriore: entro il 2023 quei soldi vanno impiegati per realizzare progetti e iniziative per cui sono stati impegnati, ma non realizzati. L’analisi dei ritardi è stata compiuta dal Sole24Ore sulla base dei dati forniti dall’Agenzia per la coesione territoriale.

In realtà i finanziamenti dovevano essere tutti impiegati tra il 2014 e il 2020, ma grazie ad una regola che consente di utilizzare i fondi entro tre anni dall’impegno a bilancio, le spese potranno essere certificate alla Commissione europea entro altri tre anni. Si tratta di più di una diecina di miliardi all’anno, una cifra imponente se confrontata con i 15,2 miliardi spesi dal 2014 a fine 2019, pari al 28,53%, un dato tra i più bassi dell’intera Ue. Come dire che, se da qui al 2023, una parte almeno di questi oltre 38 miliardi non sarà stato investito nei programmi operativi regionali e nazionali coperti dal Fondo europeo di sviluppo regionale e dal Fondo sociale europeo, automaticamente essi saranno perduti per l’Italia e rientreranno nelle casse dell’Ue. E attenzione: l’Italia è, tra tutti i paese comunitari, il secondo beneficiario dei fondi strutturali europei ma, come si è visto, tra gli ultimi ad approfittarne.

L’obiettivo di fine 2019 è stato per la verità raggiunto, in fretta e furia, negli ultimi mesi (la Sicilia addirittura sotto il Natale appena passato...). Ma “non c’è da esultare”, ha avvertito Giuseppe Provenzano al Sole: “Il raggiungimento del target di spesa dovrebbe essere la normalità. Non possiamo continuare a rincorrere l’emergenza”. Da qui la decisione di Provenzano di presentare nelle prossime settimane quel “Piano Sud” che dovrebbe tentare di migliorare la capacità di investimento delle risorse pubbliche, europee e nazionali.

Ora, gli importi in gioco sino al 2023 sono imponenti: la direzione generale per le politiche regionali della Commissione europea aveva espresso già nel novembre scorso preoccupazioni per la lentezza con cui l’Italia spende i fondi strutturali europei. E in effetti la classifica degli investimenti delle regioni e dei ministeri (Lavoro per l’inclusione giovani, Interni per la legalità, Sviluppo economico per imprese e competitività) rivela una assai bassa capacità di assorbimento di queste risorse, un deficit di efficienza e di programmazione che non è solo tecnico-burocratico, ma anche politico.

Sono solo cinque – quattro regioni e, in parte, un ministero – ad aver superato la soglia del 40% nella certificazione delle spese rispetto alla dotazione complessiva dei fondi. Nell’ordine Piemonte (49,96% di spesa effettuata e certificata), Emilia-Romagna (43,32%), Ministero del Lavoro, per il programma di formazione dei giovani che non studiano e non lavorano (42,3%, ma deve ancora spendere più di un miliardo e mezzo), Lombardia (40,75%) e Toscana (40,24%). Tra le regioni meno sviluppate, in testa c’è la Basilicata (36,48%) seguita, ma a distanza, dalla Calabria (29,35%, ma che ha da spendere più del ministero del Lavoro). Seguono la Sardegna (26%), la Sicilia (25%), che però ha da investire una cifra vertiginosa: poco meno di quattro miliardi, e la Campania (23,35%) anche se il primato negativo tra tutte le regioni è quello della Puglia: è vero che ne ha investiti il 27,13%, ma deve “coprire” impegni per più di cinque miliardi.

Discorso a parte, e ancora più serio, riguarda i tre ministeri che dovrebbero beneficiare di fondi Ue. Lo stesso Ministero del Lavoro (gestito sino a qualche mese fa da Luigi Di Maio), che qualcosa ha fatto per il programma-inclusione giovani sui fondi di sviluppo regionale, è invece penultimo tra tutti i beneficiari del fondo sociale: ha utilizzato appena il 19,11% delle disponibilità, e manca la realizzazione di altre iniziative per circa un miliardo. Peggio il Ministero dell’Interno (che sino a ieri era patrimonio assoluto di Matteo Salvini…) che nei programmi operativi regionali è in coda con il 14,74% e potrebbe usufruire ancora di molte centinaia di milioni. In testa, tra i ministeri, ma di poco, c’è lo Sviluppo economico (per anni anch’esso, in gestione a Luigi Di Maio): e qui non c’è solo il misero 20,56%, ma anche un assai pingue tesoro di tre miliardi e rotti non investiti.

Che la media delle Regioni, con qualche dovuta e meritoria eccezione (c’è da aggiungere l’Umbria), non brilli da sempre per dinamismo e capacità di operare in prospettiva non solo è notorio, ma viene colto tra le righe dallo stesso ministro Provenzano. Insomma è un dato riconosciuto e incontrovertibile. Ma che poi a finire in coda a tutti siano proprio le articolazioni essenziali del potere centrale, questo è il colmo: non solo non danno l’esempio, ma sono gli ultimi della classe, pur con mastodontici apparati ma con tutta evidenza lenti come tartarughe. Ammesso e non concesso che il limite vero sia in chi li guida.


pd bandiere

Mai con i populisti:
la lezione di Engels
oggi parla al Pd

Errori strategici, quindi non tutti correggibili in corso d’opera, precipitano nel voto umbro che vede un successo della destra radicale ancor più allarmante perché riscosso in coincidenza con un ampliamento della partecipazione elettorale. Il primo dato da cogliere è che anche in tempi di tweet, comunicazione irreale, chiacchiera è arduo passare dal rifiuto categorico di ogni alleanza a una operazione parlamentare di conquista del governo che in tempi celeri andrebbe peraltro trasformata anche in un grande accordo di programma.

Il governo con i grillini è stato una sorta di eccesso di legittima difesa costituzionale. La volontà di potenza di Salvini andava di sicuro arrestata, ma bastava per compiere con efficacia l’impresa un brevissimo governo presidenziale di tregua per il ristabilimento della norma, non era in alcun modo indispensabile alimentare la leggenda di un governo addirittura “di svolta” (con Di Maio e Conte!) senza passare attraverso una preliminare investitura politico-programmatica da parte del popolo.
Forte del buon risultato ottenuto alle europee, e incassando i vantaggi della decomposizione del governo gialloverde, Zingaretti avrebbe dovuto mostrare la stoffa di un leader politico chiamato a dare battaglia. Ha invece ceduto alle pressioni interne di un personale governista di professione e di ceti politici “di sinistra” mentalmente stanchi, e senza le categorie per leggere la fase politica di oggi al riparo di cose già fatte e viste. In tanti hanno nel tempo maturato una sorta di sindrome di Stoccolma che li induce a vedere nei propri aguzzini del 2013 la porzione salvifica per la rigenerazione della democrazia repubblicana.

Accettando la sfida di allestire una coalizione combattiva con la sinistra sociale e politica larga, il Pd avrebbe certamente potuto subire una sconfitta ma Zingaretti, con la decisione di dare battaglia per un progetto, avrebbe ridimensionato il ruolo di Renzi, avrebbe distrutto, come merita, il pasticcio ideale chiamato M5S e avrebbe mobilitato energie sociali e culturali in una lotta dalla grande valenza democratica, identitaria e sociale. Accettando l’invito “a fare politica”, e quindi a entrare al governo con i protagonisti del vecchio “contratto”, Zingaretti ha reciso la propria leadership e ha ricostruito tangibili nemici con i quali dovrà competere per la sopravvivenza: Renzi, Conte, oltre alla destra.
Una catastrofe tattica e un blocco strategico inaudito perché in certi passaggi critici non si sfonda nel gradimento popolare senza una tangibile volontà di lotta dall’esito non scontato. Per la preventiva rinuncia alla contesa, il Pd con Leu si trova ora nella poco invidiabile condizione di non poter andare avanti, per l’eterogeneità evidente di programmi e stili politici che costringe al lento logoramento l’esecutivo, e di non poter neppure a cuor leggero interrompere bruscamente il rapporto del governo “dettagliatissimo”, per non precipitare in situazioni di netto svantaggio competitivo. Un capolavoro di tattica, senza dubbio, accentuato dalle disinvolte investiture di Conte (!) come candidato naturale in caso di battaglia elettorale anticipata.

Il Pd e Leu hanno, verso il M5S, seguito la linea di Lafargue e di certi blanquisti francesi e non hanno dato ascolto alle più riflessive parole di Engels. Sul rapporto da tenere con i populisti si consumò infatti una rottura significativa tra Lafargue e Engels nei primi anni ‘90. Dinanzi al movimento populista raccolto attorno al generale Boulanger (sul quale anche Gramsci scriverà le sue riflessioni più significative su come interpretare i fenomeni populisti), la linea di Lafargue era quella di mescolare i popoli dei due campi. Il movimento ribelle capeggiato da un leader ambiguo e grottesco andava corteggiato perché, malgrado la sua fede superstiziosa nel capo-salvatore che denunciava la corruzione dei politici, il populismo del generale catturava anche un consenso di sinistra e radicalizzava istanze antiparlamentari condivisibili.

Un arrabbiato Engels si sfogò con la figlia di Marx sull’incredibile tratto impolitico di una infatuazione per un generale al soldo russo che “inganna le masse”, e da autentico “chiacchierone” e “bugiardo costituzionale” riscuote sostegni trasversali con sparate assurde. Con vero fastidio Engels ce l’aveva con “i ragazzi che si sono avvicinati a Boulanger compiendo un tradimento imperdonabile” (Marx-Engels, Werke (MEW) - Band 38, Berlin, 1979, p. 302). Molto duro è il giudizio e senza appello. “Non posso fare a meno di colpire queste persone con uno speciale disprezzo, esse si lasciano attirare da una trappola, non importa per quale pretesto. Nulla ha danneggiato la reputazione dei francesi all'estero più di questo folle entusiasmo per un nuovo salvatore della società, e un altro ancora! E non solo il borghese, ma anche la grande massa della classe operaia si è inginocchiata davanti a questo chiacchierone! Come può una persona di buon senso fidarsi delle persone che hanno legato il loro destino a quel jouisseur?”

Dinanzi alla crisi e al discredito del gaudente capo populista, è giusto porsi il problema di come raccoglierne i consensi ma questo, suggeriva Engels, riguarda i singoli e non prevede accordi siglati tra gli stati maggiori secondo “i gradi che avevano bella banda boulangista”. Costituire alleanze in parlamento con un movimento in decadenza, che “sarà quasi sicuramente espulso dalla camera alle prossime elezioni”, comporta per un partito operaio un forte discredito per la convivenza molto problematica con gruppi che in aula presentano “le risoluzioni più insensate”. La domanda di Engels (“vale la pena identificarsi con loro?”) si accompagna ad una constatazione amara di atteggiamenti “inaffidabili”. Dopo l’improvvisazione nel segno di Lafargue e della leggenda di un M5S come popolo di sinistra da ricondurre sulla retta via, la sinistra dovrebbe ripartire dalla saggezza analitica di Engels.

Come ha acutamente osservato su queste colonne Michele Ciliberto, l’abbandono del Pd da parte di milioni di elettori non si cura con scaltri accordi parlamentari siglati nel solco del trasformismo anche perché l’odio coltivato contro il tradimento dei chierici (non solo) fiorentini è tale che la vecchia casa non esercita più alcuna attrattiva. La divisione del lavoro per cui il Pd coltiva il centro intellettual-benestante e il M5S si dedica alla rappresentanza delle periferie arrabbiate è grottesca anche perché il grillismo ha perso quella carica ribelle. Il “popolo” che la sinistra dovrebbe riconquistare più che al M5S allo sbando guarda da tempo a Salvini e alla destra più radicale.

La prospettiva di rifugiarsi per alcuni anni ancora nelle stanze del potere, mentre nelle elezioni regionali cresce l’onda sovranista che reclama il voto contro il palazzo, è una vera sciagura dagli elevati costi sistemici. I realisti che per bloccare Salvini hanno preparato questa frittata di un governo dall’alto, condiviso tra partito dell’ordine e non-partito del disordine, tra sentinelle del sistema e guastatori anti-sistema, ignorano che i voti non sono cumulabili e che l’addizione aritmetica di sigle non produce un automatico consenso. Nessuno è padrone di un pacchetto di voti, e quelli di sinistra andati al M5S non sono nella disponibilità di Casaleggio, vanno conquistati con la grande proposta politica, non con le alleanze difensive tra ceti politici impauriti.

Non è dal governo, e fuggendo dalla fatica della riflessione e dalla mobilitazione di forze sociali, che si recupera consenso di massa e si argina il fantasma del capitano. Occorre davvero “fare politica” e cioè riscoprire una funzione, riconquistare territorio reale dopo la lunga fuga, proporre una analisi critica del presente dopo il chiacchiericcio della comunicazione, insomma ricostruire una identità del socialismo possibile. Non è con la pura politica-amministrazione, con il super-ticket e i cunei fiscali, con il tono manettaro-moraleggiante sulla evasione, che si argina il dialetto distruttivo della destra incombente senza infingimenti con le sue bandiere e esibizioni identitarie.


La disfatta umbra non è un caso
Il Pd deve fare un'analisi spietata
per evitare che la catastrofe si ripeta

E’ andata come doveva andare, anzi, come era giusto che andasse. L'Umbria, da tempo, da Perugia a Terni, non era più una regione "rossa", ma la dimensione di questa disfatta è andata oltre qualsiasi aspettativa. La Lega trionfa e cresce ovunque, assieme al satellite sovranista di Fratelli d’Italia, e trascina tutto il centrodestra.

C'era una volta il buongoverno comunista

L’Umbria è piccola, montuosa, poco abitata con i suoi 700.000 abitanti, ma è piena di storia, antica e recente. E’ la terra che fu di Francesco d’Assisi, il poverello che ha sfiorato l’eresia ed ora è il santo patrono dell’Italia. E’ stata una terra povera, che ha cercato un riscatto economico e sociale. E’ stata antifascista perché ha fatto la Resistenza e poi ha trovato una nuova dimensione nella cultura e nel turismo oltre che nella classe operaia.

Per oltre mezzo secolo ha coniugato clientelismo e buon governo, prima con il Pci e poi con i suoi eredi, ma a un certo punto la nuova classe dirigente si è trasformata in nomenklatura, si è immaginata eterna ed intoccabile, sono emersi, qua e là, episodi di corruzione in spregio alla presunta “diversità” raccontata da Berlinguer.

 

Catiuscia MariniQuando il partito è diventato nomenklatura

Ancora nel 2005 la “zarina” Maria Rita Lorenzetti, sottobraccio a D’Alema, aveva vinto con il 65% di consensi. Nel 2010 Catiuscia Marini, dopo un lungo e tradizionale “cursus honorum”, viene eletta con il 57% dei voti, ma cinque anni dopo viene confermata “solo” con il 42,78%. A Catiuscia è stato dato il nome di un potente lanciarazzi usato dall'Armata rossa per fermare l'invasione di tedeschi ed italiani durante la seconda guerra mondiale, ma sul fronte della ricostruzione post terremoto i suoi risultati sono assai deludenti.

Poi arriva, come un fulmine a ciel sereno, l’accusa –sostenuta da inequivocabili intercettazioni telefoniche- di presunti illeciti nelle assunzioni nel sistema sanitario umbro: in pratica voleva favorire in un concorso i “suoi” clienti rispetto a candidati più bravi e qualificati. Un vero e proprio tradimento dei principi inseguiti da Berlinguer, e anche le sue dimissioni sono ambigue e “offerte” malvolentieri. Da qui nascono le catastrofiche elezioni anticipate, con una partecipazione record al voto del 64,4%, che ha regalato a un iperattivo Salvini il trionfo della Lega e la simmetrica umiliazione del neo governo “rossogiallo”, in particolare del M5S, ridotto a meno dell’8%.

Quali effetti sul governo avrà la vittoria della destra?

Salvini e Meloni, in coro, hanno dichiarato “li mandiamo a casa”, riferendosi al governo “giallorosso”. Dal loro punto di vista non hanno tutti i torti, anche se non c’è alcun automatismo tra elezioni regionali e locali con quelle nazionali, ma la botta è stata forte. Adesso Luigi Di Maio, che ha pagato il prezzo maggiore della sconfitta, ha già annunciato che l’esperimento dell’alleanza giallorossa sul territorio è fallito e quindi non se ne parlerà più.

Anche lui non ha tutti i torti, ma va anche detto che in questi quaranta giorni – con l’oggettiva complicità di Matteo Renzi - ha fatto di tutto per litigare e distinguersi sulla manovra finanziaria e per indebolire un governo che –anche se è “suo” - evidentemente gli sta antipatico. E poi ha iniziato a stargli antipatico anche il “suo” premier, Giuseppe Conte, che raccoglie un notevole gradimento personale e può insidiare la sua traballante leadership nel M5S.

Eppure, paradossalmente, il vero sconfitto di questa elezioni è il Pd, anche se ha raggranellato un 22,4%, non disprezzabile, di questi tempi. E’ sua la classe dirigente, diventata nomenklatura, che è stata accecata dagli dei e non si è accorta che contadini, operai ed artigiani stavano abbandonando quello che era stato “il partito”. Sta al Pd, allora, analizzare senza alibi e senza dare troppe colpe a Renzi, che si è opportunamente eclissato all’ultimo momento, per elencare tutti gli errori che ha fatto in questi anni.

Dovrebbe essere un’analisi spietata e sincera, per ripartire dal territorio, dal lavoro, dalle esigenze reali dei cittadini, per evitare che la catastrofe si ripeta in Emilia-Romagna e in Toscana. Vedremo, anche se i tempi per interrogarsi e cambiare sembrano molto –troppo- stretti.


Voto, lezione al governo:
o vera svolta
o la destra fa il pieno

Sarà anche vero – come ha detto il premier Giuseppe Conte – che l’Umbria ha meno abitanti della provincia di Lecce: il punto è che è difficile immaginare un esito elettorale diverso anche in aree più popolate del Paese... Tutto è andato come previsto, purtroppo, forse peggio. Ma non per questo le conseguenze della sconfitta della coalizione centrosinistra-5 Stelle in Umbria saranno meno gravi. Non si tratta solo dell’ennesima Regione – per giunta uno dei presìdi storici della sinistra – a finire nel bottino della destra sovranista. C’è anche la conferma che la nuova alleanza giallo-rossa (più Renzi) al governo non riesce a prendere quota e consistenza. E anche se le attenuanti non mancano (il dato elettorale di partenza favorevole alla Lega e al centrodestra, il poco tempo a disposizione dell’inedita coalizione anti-sovranista e dello stesso candidato Bianconi, scelto quasi in extremis) la sconfitta è nettissima e rischia di lasciare un segno profondo.

Tanto più se le reazioni saranno quelle che si sono sentite nelle ore immediatamente successive allo scrutinio: nell’ordine, sottovalutazione (Conte), retromarcia radicale sulle alleanze sul territorio (Di Maio), presa di distanza (Renzi), senso di rassegnazione rispetto all’alleanza (Zingaretti).

Per raddrizzare una situazione che ai più appare ormai compromessa servirebbe una svolta, a cominciare dall’azione di governo. Il punto è che una componente (il Pd) la sollecita a sinistra, l’altra (i 5 Stelle, o meglio la loro leadership) a destra. Un esempio? L’immigrazione. Non è un mistero che persino sul superamento dei decreti sicurezza – nonostante i rilievi del Quirinale e i dubbi di costituzionalità della gran parte dei giuristi – si proceda lentamente e con grandissima prudenza: anche perché quei decreti xenofobi e illiberali i 5 Stelle li hanno condivisi e difesi fino all’ultimo nel precedente governo. E non è un caso che nel Parlamento europeo i mancati voti grillini siano stati determinanti nella sconfitta della risoluzione dei verdi e dei socialisti favorevole ai “porti aperti”. Qualcosa di non troppo dissimile avviene sul tema dell’evasione: una battaglia che Di Maio e soci combattono solo a parole, con misure demagogiche (8 anni di carcere per i grandi evasori), ma lasciando di fatto prosperare l’evasione diffusa: l’avversione ai limiti del contante occhieggia in fondo non poco alle posizioni di Salvini e del centrodestra.

Probabilmente sta qui, nelle profonde differenze di cultura politica, il problema di fondo dell’alleanza anti-sovranista. Per usare una espressione in voga, non si vede l’amalgama. Sembra complicato in queste condizioni non solo costruire un’alleanza strutturale ma dotare il governo di una missione che non sia solo quella di neutralizzare Salvini.

La campana umbra comunque è suonata per tutti, anche se con toni diversi. Chi esce peggio è certamente il M5S, ormai ridotto – come in altre aree del Paese – a quarto partito, superato anche da Fratelli d'Italia. Il Pd, tutto sommato, ha tenuto i suoi voti, pur in presenza dell’ennesima scissione: ma è una magra consolazione, rispetto alla catena di sconfitte che ormai si trascina da troppo tempo. E Renzi non può coltivare grandi illusioni: essere rimasto fuori dalla foto dei leader a Narni non basta certo a tenerlo fuori dalla sconfitta. Ieri – nelle prime dichiarazioni sul voto – il capo di Italia Viva è sembrato molto scettico sulle capacità di leadership di Giuseppe Conte: eppure durante le trattative per il governo giallo-rosso era stato proprio lui a insistere col suo partito (allora il Pd) perché accettasse di non cambiare l’inquilino di Palazzo Chigi… In fondo la stessa tenuta dei democratici, nella sconfitta, non è per l’ex premier una buona notizia: fare come Macron, annientare il suo ex partito per affermarsi, appare una strada sempre più in salita.


Corruzione, il problema
è il sistema
E noi siamo assolti?

Gli appassionati dell’eterna Tangentopoli italiana (non è mai finita, prendete nota…) sono concentrati sul nuovo caso: quello che sta angustiando la maggioranza di centrodestra al governo in Lombardia. Tutto è iniziato - o meglio, è diventato di dominio pubblico - il 7 maggio scorso, quando sono state eseguite 43 ordinanze di custodia nell’ambito di un’inchiesta che ipotizza un giro di tangenti. Coinvolge politici e imprenditori. Incluse persone di spicco del centrodestra lombardo, tra cui Pietro Tatarella, consigliere comunale a Milano e candidato di Forza Italia alle Europee, e il sottosegretario allo Sviluppo area Expò della Regione Lombardia, Fabio Altitonante. In totale sono un centinaio gli indagati per associazione a delinquere e corruzione.

L’altro ieri è emerso che sono sotto inchiesta, per finanziamento illecito, anche l’eurodeputata di FI Lara Comi e il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti. Manco a farlo apposta, da poche ore il sindaco di Legnano, Gianbattista Fratus (Lega), è tra gli arrestati, con l’accusa di turbata libertà degli incanti e corruzione elettorale, di un’altra indagine, avviata dalla Procura di Busto Arsizio (Varese); con lui ci sono l'assessore ai Lavori pubblici Chiara Lazzarini e il vicesindaco Maurizio Cozzi (entrambi di Forza Italia).

Sarebbe facile adesso sparare a zero contro la coalizione salvinian-berlusconiana che governa la Regione Lombardia. Il fatto è che, appunto, nessuno può riposare sugli allori del giustizialismo, visto che il fantasma della corruzione e dintorni si aggira per l’Italia con testardaggine e senza interruzione. Solo negli ultimi mesi sono esplosi il caso calabrese, quello umbro, quello romano, quello a sfondo mafioso che ha coinvolto il governo con le indagini su Armando Siri, da poco diventato ex sottosegretario del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti nel Governo Conte. Non c’è forza politica - o quasi - che non sia stata sfiorata, incluso il Movimento 5 Stelle.

Potremmo andare indietro nel tempo e arrivare - senza soluzione di continuità - fino agli anni Novanta di Mani Pulite, quelli in cui il vecchio bubbone esplose; ma anche prima - nonostante insabbiamenti e impunità - le mazzette volavano, semmai soltanto qualcuna arrivava davanti ai magistrati. Diciamo che c’è continuità nel malaffare perlomeno dagli anni Settanta.

Quindi non si tratta di cercare il “cattivo” di turno, a seconda delle nostre simpatie o antipatie politiche. Si deve ragionare invece sul “sistema Italia”. Considerando che - 27 anni dopo l’arresto di Mario Chiesa a Milano - non è cambiato granché, nonostante innumerevoli cambi di simboli e casacche.

All’epoca, politici, imprenditori, burocrati e faccendieri furono risucchiati nel tritacarne giudiziario, grazie a una crisi strutturale del sistema dei partiti, divenuto incapace di proteggersi e vittima prima di tutto di se stesso. Tuttavia l’occasione fa l’uomo ladro oggi come allora, perché la presunzione dell’impunità è quella che spinge qualsiasi criminale o aspirante criminale a non temere di finire nei guai.

Ora una domanda è d’obbligo. I cittadini, gli elettori, insomma… noi: ecco, noi possiamo veramente assolverci? Possiamo accontentarci ancora della tiritera secondo la quale va così a causa del fatto che troppi politici e burocrati nostrani - grandi, medi e piccoli - appaiono sensibili al fascino della bustarella? Perché non prendere in considerazione il fatto che quei politici, da noi eletti, sono l’espressione di una vocazione, congenita del “sistema Italia”, all’illegalità nei confronti del bene comune? Perché non ammettere che quei politici siamo noi?

Non è una considerazione masochistica, né il tentativo di assolvere tutti diluendo la pozione velenosa: la responsabilità penale è personale, chi verrà condannato in via definitiva dovrà scontare la sua pena. Però in Italia davvero è il momento di arrivare a una riflessione di massa sul nostro sistema.

Trent’anni fa il professor Mario Centorrino, siciliano, scrisse un libro purtroppo poco noto: “L’economia ‘cattiva” del Mezzogiorno”. Sosteneva che certamente la criminalità organizzata controllava con la sua economia malvagia vaste aree del Sud Italia (oggi non solo quelle, è definitivamente multiregionale e multinazionale). Però c’era (e c’è) anche tante gente “per bene” che trova conveniente, sul fronte del  rispetto elastico delle regole, assecondarla, coltivando un’economia cattiva complementare a quella malvagia, dalle piccole scelte a quelle più impegnative, dalla micromazzetta alla mega evasione fiscale.

Quella riflessione valeva e vale dalle Alpi alla Sicilia anche sul fronte della corruzione. Se qualcuno pensa che coloro che entrano nei ranghi della nostra classe dirigente possano emanciparsi tutti da soli, a prescindere dalla società che li esprime, si sbaglia di grosso. È il caso di dire che nelle stanze dei bottoni e dei bottoncini abbiamo messo chi ci meritiamo.

Enrico Berlinguer nel 1981 - durante la sua famosa intervista - disse che la “questione morale” non è solo un problema di onestà della classe dirigente; bisogna anche difendere le istituzioni dalla partitocrazia che le ha invase, per garantire che possano funzionare in modo equilibrato e lungimirante senza diventare fotocopie dei partiti, sempre in balìa della scadenze elettorali e della caccia al consenso. Berlinguer all’epoca non  disse che il Pci, di cui era segretario, era rimasto immune. E infatti - per lo meno a livello locale, visto che non era al governo nazionale - anche il Pci non si poteva assolvere.

Di certo, ai partiti (o ai sedicenti movimenti, che sono in realtà partiti come gli altri, a volte pure più centralisti) quel potere invasivo lo diamo noi. E purtroppo la catena di casi di corruzione che continua a emergere svela che la questione morale è più che mai attuale: le istituzioni continuano ad essere piegate alle esigenze dei partiti, anche a quelli che oggi sono al governo.

Sarebbe davvero l’ennesima sconfitta se ciascuno di noi non si chiedesse quanto ha contribuito, più o meno consapevolmente, a creare nel corso degli anni questo sistema, scegliendo le persone da mandare al potere. Ai tempi di Mani Pulite, di certo, non ci siamo sufficientemente interrogati. Oggi ne stiamo ancora pagando le conseguenze.


Non chiamate
quella di oggi
"questione morale"

La tentazione ricorrente e persistente è quella di considerarla soltanto una sottigliezza terminologica, priva di implicazioni concrete. Un dettaglio, una curiosità, un cavillo, buoni ad alimentare controversie accademiche, ma irrilevanti sul piano sostanziale. Che differenza volete che faccia – si sente spesso ripetere – se la si chiama “questione morale”, invece che chiamarla con un altro nome? Quello che conta è il merito, la “cosa”, non il modo in cui la si nomina.

Nel caso specifico della questione morale, si può anche citare un illustre precedente, visto che il primo a introdurre questa espressione nel lessico politico contemporaneo è stato niente meno che Enrico Berlinguer, nella famosa intervista concessa a Eugenio Scalfari nell’ormai lontano 1976. Allarmato dai numerosi “scandali” (altro termine molto discutibile, se non del tutto inappropriato), il leader del PCI aveva proposto quale tema centrale di analisi i sempre più frequenti casi di corruzione che avevano allora coinvolto in particolare i partiti di governo, Democrazia Cristiana e Partito Socialista in prima linea, sostenendo che erano il sistema politico bloccato e l'occupazione dello Stato da parte dei partiti le cause fondamentali di quella degenerazione.

Fu, quella di Berlinguer più di quarant'anni fa, una riflessione lungimirante che poneva al centro del dibattito pubblico il tema della riforma del sistema politico. Ma il termine usato dal segretario del Pci - la “questione morale” – era del tutto inappropriato perché sembrava richiamare un tema individuale piuttosto che politico generale.

Per questo considero fuorviante il fatto che, di fronte all’impressionante numero di politici indagati o sottoposti a misure restrittive in Lombardia, in Calabria o in Umbria, si torni ad evocare la questione morale. Per venire subito al dunque, il problema di fondo è che di tutto in realtà si tratta, salvo appunto che di questione “morale”. Se fosse un problema riguardante il comportamento di singoli personaggi – quindi la loro “morale” - dettato dalla mancanza di saldi princìpi a cui ispirarsi, la cosa potrebbe essere considerata non particolarmente preoccupante. Mele marce – si sa – ce ne sono dappertutto, e sarebbe strano se la politica facesse eccezione. Non particolarmente complicati sarebbero anche i correttivi, visto che basterebbero alcune misure preventive, sul piano della selezione del ceto politico, e taluni severi interventi riparativi, per evitare la diffusione di un fenomeno da ogni punto di vista certamente negativo.

Tutt’altra cosa se si tratta di qualcosa che ha a che vedere non con le scelte soggettive di singoli, ma con le modalità di organizzazione e di funzionamento del sistema politico-istituzionale nel suo insieme. Se ciò che si tratta di fronteggiare non è riconducibile a devianze circoscritte, ma attiene piuttosto alle regole materiali che disciplinano il rapporto tra politica e affari. Nell’avvicendarsi di governi di diversa ispirazione politica e culturale, questo problema è sempre rimasto sintomaticamente eluso. Mentre ciò che occorrerebbe porre in discussione sono i meccanismi concreti di funzionamento del processo decisionale, i rapporti concreti fra potentati economici e sedi politiche, le forme determinate di controllo a monte e di verifica a valle dei provvedimenti legislativi che implicano l’impiego delle risorse pubbliche.

Ostinandosi a parlare di questione morale, si mette tra parentesi il dato fra tutti più importante, vale a dire il carattere strutturale – e non occasionale o circostanziale – dei fenomeni di corruzione, il fatto insomma che non il singolo politico o amministratore, ma il sistema nel suo insieme funziona a regime perpetuando abusi e irregolarità di ogni sorta. In altre parole, ciò che dovrebbe seriamente preoccupare, e tradursi in interventi radicali, è che l’intreccio tra politica e malaffare non ha carattere patologico, ma fisiologico, in quanto attiene ai criteri effettivi di gestione del sistema politico. Questa consapevolezza, ove non fosse offuscata dall’improprietà terminologica, dovrebbe riaprire una questione di fondo, troppo presto frettolosamente archiviata, quale è quella delle riforme istituzionali. Ma di ciò converrà occuparsi ad una prossima occasione.


Come ricostruire
una classe dirigente
onesta e competente

Classe dirigente cercasi. Ancora una volta, siamo punto e a capo. Un tempo abbiamo avuto una classe dirigente con una visione di lungo periodo, ma era quella che aveva scritto la Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza. Poi la classe dirigente è degenerata in “casta”, inamovibile e clientelare, secondo il solfureo assioma andreottiano che “il potere logora chi non ce l’ha”. Tangentopoli ha demolito la “casta”, ma è arrivato Silvio Berlusconi, carico di conflitti d’interesse e di scheletri nell’armadio, con una nuova classe dirigente selezionata con metodi aziendali. Il centro sinistra, dopo essersi fatto tante volte del male, ha trovato il giovane rampante Matteo Renzi, abile, veloce e spregiudicato. Poteva essere un vero ricambio generazionale, ma è nata -attorno al “giglio magico”- solo una “simil casta”, meno preparata di quella delle origini e più arrogante.

Danilo Bucchi al Maam. Foto di Ella Baffoni

Adesso abbiamo una nuova classe dirigente, a suo modo “innovativa”, ma sempre affamata di poltrone. La Lega è riuscita a far dimenticare agli italiani il suo “furto con destrezza” di 49 milioni di euro e i sospetti sui legami con le mafie per dilagare anche al Sud. Il M5S si è presentato sulla soglia del governo nazionale e di tante città, a partire dalla “grande bellezza” di Roma, volenteroso ed impreparato, ma è già inciampato in vari scandali, con poca “onestà, onestà”. Matteo Salvini, ministro piglia tutto, mostruosamente abile e onnipresente sui social media, tra un ringhio e un mezzo sorriso, è pronto all’assalto di “Roma ladrona”. Di Maio e Salvini litigano su tutto e aumentano i consensi quando chiedono le dimissioni degli altrui indagati, forse corrotti e/o inadeguati a loro insaputa.

Il Partito democratico ha cercato di rialzare, poco poco, la testa, ma è stato tramortito dalla tegola dell’inchiesta sulle raccomandazioni nella sanità della Regione Umbria, “rossa” forse da troppo tempo. Impietose intercettazioni rivelano un sistema di potere diffuso, sciatto ed arrogante, che premia gli amici degli amici, massoneria e curia compresi, al posto dei più meritevoli. Un sistema che farebbe rivoltare Berlinguer nella tomba. E allora, cosa può fare il “buon” Zingaretti, impegnato a rosicchiare qualche punto di percentuale alle prossime Europee? Molto poco, ma almeno potrebbe lanciare qualche segnale facendo emergere una nuova classe dirigente di qualità, di giovani europei che hanno viaggiato grazie al programma Erasmus, di scienziati e ricercatori, che abbiamo costretto a fuggire dall’Italia. Potrebbe abbracciare, a nome di tutti noi, come ha fatto papa Francesco, Greta Thunberg, che qualcuno a destra insulta e dileggia, e chieder scusa a lei e ai suoi giovanissimi compagni di lotta per aver devastato il “loro” pianeta.

Danilo Bucchi al Maam. Foto di Ella Baffoni

Potrebbe puntare - sempre e comunque - sulla scuola, la cultura e la scienza, guardare a chi sperimenta concretamente la solidarietà e porta nella politica passione ed esperienza, impegno ed entusiasmo. Dovrebbe rifiutare -per sempre- ogni compromesso con gli amici degli amici e i “signori della tessere”. Dovrebbe restituire valore e cittadinanza al lavoro, combattere favoritismi e privilegi, rilanciare la lotta alle mafie che soffocano, inquinano e depredano il paese, ormai da nord a sud, e la lotta contro corruzione ed evasione fiscale, che rendono l’Italia sempre più ingiusta. Dovrebbe dirci qualcosa sulle migrazioni, che hanno stravolto l’opinione pubblica europea, e anche come pensa di aiutare quel pasticcione pieno di buona volontà, ex sindaco di Riace, sull’accoglienza, per restare un po’ umani, senza diventare complici dei mercanti di schiavi e senza degradare ulteriormente le periferie. Forse, ogni tanto e senza esagerare, dovrebbe mandarci qualche tweet, per tenerci svegli.

E soprattutto dovrebbe esserci quando – prima o poi - la serietà, l’impegno, la conoscenza e davvero l’onestà ritorneranno ad essere dei valori positivi. Prima o poi?


Il caso Umbria insegna:
al Pd non basta
il "campo largo"

E ora cosa succederà? Le dimissioni – diventate inevitabili davanti al moltiplicarsi di elementi d’accusa, di indiscrezioni, di intercettazione non sappiamo quanto legalmente diffuse – di Catiuscia Marini da presidente della Regione Umbria fanno definitivamente precipitare la crisi. Il rischio è che questo sia l’ostacolo sul quale si infrange, ancor prima di iniziare, il rinnovamento del Pd. Fino a ieri faceva impressione la fretta leghista di andare subito al voto nella certezza di poter cogliere il frutto della prima caduta di una “regione rossa”. Così come colpiva la cautela dei 5 Stelle che non hanno cavalcato l’inchiesta nella non esplicita consapevolezza che i voti allontanati dallo scandalo non andranno a loro.

Ma la questione vera è tutta centrata sul Pd e sul centrosinistra, perché, a un anno dal voto che riguarderà la gran parte delle Regioni tra cui la Toscana, il Piemonte le Marche, la Puglia, la Campania (l'Emilia Romagna, invece, andrà al voto a novembre) ovvero il piccolo tesoretto che il Pd ha ancora sui territori l’Umbria potrebbe essere il banco di prova di una reazione oppure l’annuncio di una sconfitta di dimensioni incognite. La questione vera resta nella domanda: che cosa può fare il Pd, oggi in Umbria e domani ovunque, per ricostruire un rapporto con i cittadini elettori, per avanzare proposte capaci di catalizzare un consenso che non è appartenenza (se puntiamo all’appartenenza come qualcuno crede sia possibile, al “popolo di sinistra” ci condanniamo ad una minorità inutile)? La risposta non è facile né scontata: finora Zingaretti si è mosso con l’idea di un allargamento del campo, di una cucitura dei diversi pezzi di cui nessuno conosce neppure il peso specifico. Lo ha fatto pensando alle elezioni europee e al meccanismo specifico di quella legge elettorale. Ma al di là dell’Europa non si capisce cosa tenga in piedi questo “campo largo”, per usare una espressione cara a Bettini prima ancora che a Zingaretti, se non la preoccupazione legittima per le spinte sovraniste, isolazioniste, opache nei confronti della democrazia.

Ma basta? Credo proprio di no: gli anni vissuti col collante dell’anti berlusconismo dovrebbero avercelo dimostrato. Eppure la frana umbra dovrebbe essere studiata con cura. Perché lo scandalo delle raccomandazioni, l’arresto del segretario regionale, l’inchiesta che investe e spinge alle dimissioni la presidente non sono fulmini a ciel sereno. Certo fino a l’altro ieri i fulmini erano stati politici ed elettorali e non avevano investito il terreno giudiziario. Ma qui nel giro di qualche anno Pd e il centrosinistra hanno perso i comuni di Perugia, Terni e molti altri centri importanti, qui un anno fa il centrosinistra era arrivato terzo: al centrodestra (con la Lega già allora al 20%) era andato oltre il 36,8% dei voti, ai grillini il 27,5 un risultato migliore di quello conseguito dall’intera coalizione di centrosinistra. E quattro anni fa, in un momento in cui il centrosinistra aveva un risultato straordinario, la presidente Catiuscia Marini aveva battuto solo di due punti e mezzo il contendente della destra fermandosi al 42,5% dei voti. Allora quella vittoria era un segnale di stanchezza (nelle precedenti prove il voto dei candidati di sinistra era tra il 55 e il 63%), aveva fatto emergere due partiti al 14% ciascuno (la Lega e i 5 Stelle) che avevano giocato la loro campagna elettorale sulla contestazione del “sistema” Umbria. Quella erosione (e la crisi manifestatasi in pieno solo un anno fa col voto politico) come era stata affrontata? Dov’era stato il cambiamento, le facce nuove, le idee nuove? E qui le semplificazioni nazionali non reggono, qui il problema non si può certo ridurre a Renzi sì o Renzi no. Qui i due “partiti” storici (come li vogliamo chiamare, i diessini di rito strettamente dalemiano come la Marini e della precedente presidente Maria Rita Lorenzetti, i democristian-popolari di rito incerto, una volta con Franceschini e l’altra con Fioroni) dopo non poche liti si sono messi insieme saldando uno straordinario patto fatto di capibastone, presidenti delle Asl degli Ato, assessori intramontabili. Così – magistrati o non magistrati – tutto resta immobile e non si va da nessuna parte.