Il paradosso del teatro: fondi
in diminuzione, pubblico in crescita
Il paradosso dell’attore non è più quello teorizzato da Diderot (la creazione non è pura imitazione), ma il fatto che, proprio mentre la sua funzione pubblica e sociale viene maggiormente riconosciuta, diminuisce il sostegno che gli riconosce lo Stato. In parole povere: il teatro è in crisi economica ma in grande sviluppo di pubblico e fatturato. Una contraddizione, appunto. Le cui ragioni sono assai complicate e riguardano da un lato la riorganizzazione dei bilanci dello Stato e delle amministrazioni locali all’indomani della crisi del 2009 e dall’altro il tracollo di credibilità (e qualità) della televisione e di altri mezzi di comunicazione di massa.
Oltre al fatto che in un tempo così terribilmente digitalizzato e quindi spersonalizzato, un luogo – il teatro – dove gli individui si incontrano in carne e ossa e si emozionano tutti insieme risulta essere quasi rivoluzionario. Sempre più spesso, specie per le giovani generazioni, andare a teatro è un atto politico: un modo per segnare la propria distanza dalla massificazione globale prodotta dagli smartphone (e dal web, che degli smartphone è il profeta).
Volete un po’ di numeri? Eccone qualcuno, senza esagerare. Ma prima partiamo dal presupposto che tutto il teatro – proprio tutto – è finanziato (anche) dallo Stato. Ossia che tutte le compagnie godono di contributi pubblici, sia che provengano dal Mibact (Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo) tramite il Fus (Fondo unico per lo spettacolo) sia che siano stanziati dai Comuni, dalle Regioni o, lì dove sopravvivono, dalle Province. Quel che cambia sono le regole: Teatri Nazionali, Tric (Teatri di Rilevante Interesse Culturale), Centri di produzione, Imprese, Circuiti regionali e Festival hanno vincoli differenti in materia di rappresentazioni da produrre e ospitare nonché di giornate lavorative da garantire (sarebbe a dire di contributi da pagare al Fisco e all’Inps). Ebbene, il Mibact nel 2017 ha destinato al Fus 333,710 milioni di euro: di questi, la quota riservata al teatro di prosa ammonta al 20,28% (meno di 38 milioni di euro). La parte del leone del Fus, notoriamente, lo fanno le fondazioni sinfoniche che drenano quasi il 55% del contributo complessivo (fonte Mibact).
Chi segue il teatro da qualche decennio sa che, negli anni Ottanta, in piena èra Craxi, il Fus toccò la mitica quota dei mille miliardi di lire: oggi siamo molto più in basso giacché, appunto, a malapena s’arriva ai seicento miliardi di lire. In mezzo non c’è stata solo la crisi economica, ma anche l’egemonia culturale berlusconiana (alla quale tutte le parti politiche a cavallo del 2000 si sono agevolmente adeguate) che tendeva a bollare la cultura come “attività inutile” in favore del dominio dell’intrattenimento puro (leggi tv commerciali). Da lì, in specie a partire dal secondo governo Berlusconi (2001), è cominciato non solo il disimpegno costante dello Stato nei confronti delle attività culturali in senso lato, ma anche un’azione di discredito verso chi quelle attività tentava sempre più faticosamente di portare avanti.
Il risultato è che, se oggi i soggetti finanziati dal Mibact sono circa trecento, nel 2001 erano circa cinquecento. Ma questa desertificazione culturale non deriva solo dalla contrazione del Fus: in grande parte dipende anche dall’azzeramento dei contributi riservati dalle amministrazioni comunali alla cultura. È stata ancora una volta la dottrina creativa del commercialista che l’èra Berlusconi trasformò in economista (sto parlano di Giulio Tremonti) a produrre questo effetto. I Comuni, privati di introiti fiscali diretti (l’Imu) e vistisi diminuire drasticamente i trasferimenti dallo Stato (così da permettere allo Stato medesimo di fingere conti in ordine), hanno disinvestito in un settore che via via veniva considerato superfluo. La cultura, appunto. Con la conseguenza diretta che le numerose compagnie che andavano a radicarsi in centri medi e piccoli hanno dovuto cambiare strategia, affidandosi solo al Fus nel frattempo sempre più impoverito. Per onestà politica occorre ripetere che dopo il trionfo delle politiche berlusconian/tremontiane a detrimento della cultura, dei saperi, della ricerca scientifica e dell’esercizio critico, tutte le altre parti politiche si sono adeguate: nessuno ha avuto la voglia o la forza di cambiare le cose.
Ma tutto questo è solo una faccia della medaglia. L’altra, ci dice che nel 2016, per esempio, il numero di biglietti venduti e il fatturato complessivo del teatro sono cresciuti (lo stesso era successo già nel 2014 e nel 2015 rispetto agli anni precedenti). In base ai dati della Siae, nel 2016, «pur essendo diminuito il numero degli allestimenti (-0,74%), sono aumentati gli ingressi (+4,05%) e tutti gli indicatori economici con valori notevoli: dalla spesa al botteghino (+12,02%) al volume d'affari (+13,38%)». Per fare solo un esempio clamoroso: nella stagione 2016/2017, il Teatro di Roma-Teatro Nazionale ha avuto poco meno di 15mila abbonati per l’Argentina e l’India mentre la seconda squadra di calcio della Capitale, la Lazio, ne ha avuto poco più di 4000 (la Roma calcio, comunque, ne avuti poco di più, circa 18mila, dati Corriere dello Sport).
Quale la ragione di tutto ciò? Il teatro vanta un’unicità che nessun altro “intrattenimento” può vantare: il suo essere vivo qui e ora. E, in quanto tale, libero e imprevedibile: un marchio di indipendenza (che non sempre corrisponde alla sua realtà creativa, comunque) che desta attenzione soprattutto in chi vuole marcare la propria differenza dalla comunicazione omologata dalla tv e dal web. Un paradosso, appunto. Ma al quale i teatranti – sempre più in ristrettezze economiche e il cui lavoro troppo spesso è trattato alla stregua del volontariato – guardano con terrore. Tutti sanno che dal 535 (anno in cui l’imperatore Giustiniano vietò le rappresentazioni in tutto il territorio dell’Impero Romano) al 1445 (anno in cui si formò la prima compagnia teatrale professionale della storia moderna) l’umanità ha fatto a meno del teatro: la storia potrebbe pur sempre ripetersi…