La fretta dell'Ucraina e i tempi obbligati dell'Unione Europea
L’Ucraina ha ottenuto lo status di candidato per l’adesione all’Unione europea il 23 giugno 2022 insieme alla Moldova a seguito della domanda presentata il 28 febbraio 2022 e cioè quattro giorni dopo l’invasione della Russia.
Otto paesi sono dunque attualmente candidati all’adesione e cioè la Turchia candidata dal 1999 con un solo capitolo chiuso nei negoziati su 33 capitoli, la Macedonia del Nord candidata dal 2005 con cui non sono ancora iniziati i negoziati a causa della pregressa ostilità della Bulgaria, il Montenegro candidato dal 2010 con cui sono stati aperti tutti i capitoli di negoziato e ne sono stati chiusi 3, la Serbia candidata dal 2012 con cui sono stati aperti 22 capitoli su 34 e ne sono stati chiusi due, l’Albania candidata dal 2014 con cui non è stato aperto nessun capitolo di negoziato, l’Ucraina e la Moldova candidate dal 23 giugno 2022 ed infine la Bosnia Erzegovina candidata dal 15 dicembre 2022 con le quali non è stato aperto nessun capitolo..
Restano in lista di attesa il Kosovo e la Georgia mentre l’Islanda, la Norvegia e la Svizzera hanno congelato da tempo le domande di adesione.
La prima riunione della Comunità Politica Europea

Su iniziativa di Emmanuel Macron si è riunita a Praga nello scorso ottobre per la prima volta la Comunità Politica Europea in un formato che ha visto insieme oltre ai 27 e ai paesi candidati e candidati alla candidatura i leader di Regno Unito, Svizzera, Norvegia, Islanda, Lichtenstein, Armenia, Azerbaigian per un totale di 44 paesi e dunque con la sola esclusione della Bielorussia e della Russia in una inedita alleanza geopolitica diversa dall’idea iniziale di una alleanza democratica con paesi appartenenti al Consiglio d’Europa e all’OSCE ma non tutti appartenenti alla NATO.
La Comunità Politica Europea, considerata come un quadro di cooperazione intergovernativa non alternativo all’adesione all’Unione europea, si concentra sui temi dell’energia e della sicurezza europea lasciando spazio ad accordi bilaterali e con funzioni di appeasement fra paesi in situazione di forte tensione come la Grecia e la Turchia, la Serbia ed il Kosovo, la Serbia e la Bosnia Erzegovina, l’Armenia e la Turchia, l’Azerbaigian e l’Armenia.
Tutti i paesi candidati o candidati all’adesione hanno sottolineato che la nuova Comunità Politica Europea può facilitare il dialogo con l’Unione europea ma che tale dialogo non deve ritardare i negoziati di adesione con conclusioni che quasi tutti vorrebbero collocare entro la fine della prossima legislatura europea (2029) sapendo che i trattati di adesione dovranno essere ratificati da tutti i paesi membri dell’Unione europea e da ciascun paese candidato in vari casi con referendum confermativi come è previsto ad esempio nell’art 88-5 della Costituzione francese.
Fra tutti i candidati l’Ucraina rivendica con molta determinazione l’urgenza di tempi accelerati per la sua piena adesione e lo stesso presidente Zelensky ha chiesto alle istituzioni europee un calendario di negoziati rapidissimi su tutti i 34 capitoli previsti dalle regole europee per giungere ad una loro conclusione e alla ratifica del trattato di adesione entro il 2026, un’ipotesi considerata oggettivamente impraticabile sia a Bruxelles che in molti paesi membri dell’Unione europea.
Nonostante i passi in avanti fatti dal governo ucraino dal momento dell’’attribuzione dello status di candidato, è difficile prevedere quando inizieranno i veri e propri negoziati di adesione e ciò non avverrà prima della presentazione da parte della Commissione europea di un rapporto sullo stato di avanzamento delle riforme interne e sul rispetto dei criteri di eleggibilità fissati dal Consiglio europeo.
Problemi in molti capitoli dei negoziati
Ci sono in effetti molti capitoli dei negoziati che avrebbero suscitato problemi di adeguamento alle politiche europee già prima dell’aggressione della Russia e degli effetti devastanti della guerra come tutto il settore della politica agricola dove l’Ucraina appare o appariva come uno dei maggiori esportatori di grano nel mondo, il fatto che - nonostante le sue risorse - l’Ucraina è considerata un paese in via di sviluppo ed uno dei paesi più poveri d’Europa per PIL pro capite con conseguenze molto importanti per il bilancio europeo nella politica di coesione economica, sociale e territoriale ed infine la sicurezza ambientale a cominciare da quella delle centrali nucleari.

Ancor più difficili saranno i passi che il paese dovrà compiere in tempi certamente a medio e lungo termine per l’adesione allo spazio di Schengen (per fare l’esempio più recente la Croazia è stata accettata in questo spazio solo dieci anni dopo il suo ingresso nell’Unione europea e la Bulgaria e la Romania sono ancora in sala di attesa) e ancor di più per l’ingresso nell’eurozona anche se il Montenegro ha introdotto l’Euro sulla base di un accordo bilaterale con l’Unione europea.
Quel che appare più problematico nella prospettiva di una rapida conclusione dei negoziati di adesione è la dimensione geopolitica nei rapporti fra l’Unione europea e l’Ucraina in cui incideranno fortemente le relazioni con i Balcani occidentali che attendono da molti anni che si aprano per loro le porte dell’Unione europea nonché la clausola di solidarietà nel caso di un’aggressione armata con aiuti e assistenza che andrebbero certamente al di là del sostegno militare attuale.
Il nodo equilibri istituzionali nel Parlamento europeo
Last but not least, l’adesione dell’Ucraina porrà il problema degli equilibri istituzionali nel Parlamento europeo dove i parlamentari ucraini potrebbero aver diritto allo stesso numero dei loro colleghi spagnoli, nella composizione delle maggioranze qualificate nel Consiglio e nel Consiglio europeo, nella struttura della Commissione che è oggi composta da un membro per paese, nella cultura giuridica della Corte di Giustizia e ciò soprattutto se insieme all’Ucraina avvenisse il big bang che fu imposto dai governi dei quindici al tempo dell’allargamento all’Europa centrale nel 2005 quando l’Unione europea passò rapidamente a venticinque membri e che in futuro passerebbe da ventisette a trentacinque membri.
Nella visione pragmatica della Germania, condivisa dalla Francia, l’eventuale e nuovo big bang dovrebbe essere preceduto da una profonda riforma del sistema europeo andando ben al di là del Trattato di Lisbona firmato più di quindici anni fa, con un processo di natura sostanzialmente costituente che occuperà molto probabilmente tutta la prossima legislatura fino al 2029 insieme alla revisione del quadro finanziario pluriennale che giungerà nella sua attuale struttura fino al 2027 e che dovrà essere radicalmente rinnovato dal 2028 in poi per tener conto dei bisogni di dimensioni geografiche, economiche, sociali, culturali e demografiche ben diverse da quella attuale.
Ue, la pacchia è finita e di certo non grazie a Giorgia Meloni
La “pacchia”, che in italiano ha una connotazione negativa, si traduce nelle maggiori lingue europee in un “dono del cielo” o “di Dio” e potrebbe esprimersi positivamente in una situazione di “abbondanza materiale e di assenza di preoccupazioni”. La “pacchia” è finita nell’Unione europea (Ue) da quindici anni e la fine della abbondanza materiale e della assenza di preoccupazioni è iniziata con la crisi finanziaria del 2007-2008, è proseguita con il terrorismo internazionale sviluppatosi all’interno dei confini dell’Ue, è continuata con l’aumento dei flussi migratori “economici” o di richiedenti asilo; si è aggravata con le conseguenze di sciagurate e reiterate politiche che hanno inquinato l’acqua, l’aria e la terra, si è materializzata con l’assenza di autonomia strategica dell’Ue di fronte alla fine del multipolarismo, è diventata drammatica con la pandemia e ha infine sconvolto gli equilibri mondiali con l’aggressione della Russia all’Ucraina.
Le sfide sovranazionali della Ue
La differenza fra le soluzioni europee adottate per rispondere alle scarsità materiali e all’aumento delle preoccupazioni non è ideologica e cioè legata ad una ipotetica contrapposizione teorica fra un metodo di decisione (o di “non decisione”) prevalentemente confederale o dei meccanismi di analisi dei problemi, di proposta, di decisione e di esecuzioni sovranazionali o prevalentemente federali ma maledettamente concreta se si approfondisce il modo in cui l’Ue ha reagito o è stata incapace di reagire di fronte alle sette sfide che abbiamo qui sopra sintetizzato.
Chi guarda all’Europa con le lenti confederali danneggia gli interessi nazionali perché solo con l’Ue possiamo rispondere alle sfide sovrannazionali che abbiamo davanti.
La pandemia e la guerra ai confini dell’Ue hanno messo in evidenza che le soluzioni – pur frammentarie e temporanee – possono essere trovate quando c’è coincidenza fra interessi nazionali ed interesse europeo e che le soluzioni non vengono trovate se ci si affida alla contrapposizione fra gli uni e l’altro lasciando prevalere il “potere” (che non è un “diritto”) di veto o perché le regole del Trattato hanno mantenuto il voto all’unanimità o perché il Consiglio decide di non decidere anche se il Trattato prevede una decisione a maggioranza qualificata o perché non si raggiunge tale maggioranza nel “combinato disposto” del voto degli Stati e delle popolazioni rappresentate.
L’esempio più recente è quello della decisione sul cosiddetto price cap in cui l’interesse italiano a adottare questa misura coincideva con l’interesse europeo ma la decisione è sospesa per la difesa nel Consiglio di apparenti interessi nazionali che impediscono il raggiungimento della maggioranza qualificata.
La risposta alla pandemia
Le misure adottate per far fronte alle conseguenze economiche e sociali della pandemia (prima il meccanismo SURE di risposta alla disoccupazione e poi il piano – che non è un fondo – denominato Next Generation EU che ha attribuito all’Italia oltre duecento miliardi di euro fra prestiti e sovvenzioni) sono state il frutto di un meccanismo sovranazionale fondato sull’analisi dei problemi, su proposte della Commissione europea facilitate dal sostegno politico di alcuni governi che hanno fatto prevalere l’interesse europeo su quelli apparentemente nazionali, su decisioni “comunitarie” e su procedure di esecuzione fondate su regole adottate di comune
accordo e sottoposte a puntuali verifiche europee.
In questo quadro rientrano le condizioni per il rispetto dello stato di diritto fondate su un interesse europeo che hanno bloccato la concessione di finanziamenti all’Ungheria e inizialmente anche alla Polonia su cui pende una decisione della Corte di Giustizia e l’esigenza di avviare e dare piena esecuzione a riforme a livello nazionale indispensabili per rendere l’economia dei paesi europei più “resiliente” e che rende giustamente impossibile l’apertura di un nuovo negoziato sui PNRR, una esigenza accolta sulla base di regole adottate di comune accordo nel Consiglio in “codecisione” con un’ampia maggioranza nel Parlamento europeo (Pe) e con il consenso dei parlamenti nazionali.
Tutto questo sistema è fondato sul principio “esistenziale” dell’Ue della “cooperazione leale” che non può né deve essere messo in discussione nel caso in cui cambino le maggioranze o i governi in un paese membro e dal primato del diritto europeo nei settori di competenza dell’Ue.
Il modello federale
Per riacquistare almeno una parte della “pacchia” che abbiamo progressivamente perduto negli ultimi quindici anni – nel rigoroso rispetto degli obiettivi dello “sviluppo sostenibile” – e cioè per garantire i beni pubblici “materiali” comuni e per ridurre le preoccupazioni, la via italiana non è certamente quella di contrapporre apparenti interessi nazionali all’interesse europeo ma rafforzare la dimensione sovranazionale secondo un modello federale riconoscendo alla Commissione (il “governo europeo” in statu nascendi) il ruolo di analisi e di proposta, al Consiglio e al Pe il potere di decidere superando nel Consiglio il vincolo dell’unanimità o del potere di non-decidere, tornando al ruolo della Commissione per eseguire le decisioni o
controllare il rispetto delle decisioni da parte degli Stati membri.
Sappiamo che tutto il sistema comunitario – che è un ibrido o un coacervo fra confederalismo e federalismo che le opinioni pubbliche comprendono difficilmente, e le cui debolezze vengono spesso attribuite alla dimensione europea al cui interno prevarrebbero i “burocrati” portando acqua ai mulini del sovranismo nazionalista – ha difetti di frammentazione e di provvisorietà e che, pur attuando quel che è possibile attuare a trattato costante per rispondere alle emergenze e rafforzando il bilancio europeo in particolare attraverso vere e proprie risorse proprie, è sempre più necessario avviare un processo “costituente” per andare al di là del Trattato di Lisbona firmato nel 2007 prima che l’Ue entrasse nel vortice crescente delle sette crisi che abbiamo più sopra sintetizzato.
Per questa ragione noi siamo convinti che la via italiana nell’Ue deve passare dalla coerenza e coesione fra interessi nazionali e interesse europeo scegliendo la dimensione realistica della dimensione federale in alternativa alla mancanza di realismo della dimensione confederale e costruendo nell’Ue le alleanze necessarie fra i governi, nel PE, nella società civile e nel rafforzamento della democrazia rappresentativa, partecipativa e di prossimità in vista delle elezioni europee nel maggio 2024.
L’autore è presidente del Consiglio italiano del Movimento Europeo
Dal Club del Coccodrillo alle elezioni del 2024: il cantiere Europa
Il 9 luglio 1980 nove deputati europei ispirati da Altiero Spinelli lanciarono con la creazione del Club del Coccodrillo – dal nome del ristorante di Strasburgo dove si riunirono per la prima volta - la sfida del ruolo costituente del Parlamento europeo eletto per la prima volta nel giugno 1979 a suffragio universale e diretto.
L’iniziativa nacque come risposta all’incapacità dei governi dei Nove che costituivano allora le Comunità europee (Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Regno Unito, Irlanda e Danimarca) di prendere decisioni adeguate nell’interesse dei cittadini e delle cittadine sui temi della politiche dell’economia reale, del bilancio e della politica estera, una incapacità plasticamente rappresentata dallo scontro sul finanziamento europeo con il primo ministro britannico Margaret Thatcher (I want my money back).
L’iniziativa del Coccodrillo fu inizialmente accolta con scetticismo fra i gruppi politici nel Parlamento europeo (popolari, socialisti, liberali, conservatori) e con ostilità dai governi e dalla Commissione perché i trattati di Roma non attribuivano al Parlamento europeo un potere di iniziativa costituzionale, perché molti ritenevano che le risposte in termini di nuove politiche potessero essere date senza cambiare i trattati;
perché i più «audaci» fra i deputati europei proponevano di chiedere o meglio di pregare il Consiglio di proporre alcune modifiche al funzionamento delle istituzioni da sottoporre per approvazione ad una conferenza intergovernativa.
Nel corso dei mesi il realismo innovatore della iniziativa del Coccodrillo prevalse sullo scetticismo dei gruppi politici e sull’ostilità dei governi, grazie anche all’azione di alcuni leader europei in tutti i paesi membri delle Comunità europee, provocando un interesse crescente anche al di fuori del Parlamento europeo.
L’iniziativa del Club del Coccodrillo fu accompagnata dall’ottobre 1980 fino al giugno 1983 dalla pubblicazione di “Crocodile: lettre aux membres dul Parlement européen” pubblicata da Altiero Spinelli, Felice Ippolito e Pier Virgilio Dastoli, con il contributo organizzativo di Viviane Schmit, in tutte le lingue ufficiali delle Comunità europee e diffusa in tutta Europa in diecimila copie a “lettera”.
Il "progetto Spinelli"
L’iniziativa si concluse con il successo della democrazia parlamentare perché l’assemblea approvò a larga maggioranza il 14 febbraio 1984 un progetto di trattato per istituire l’Unione europea: il “progetto Spinelli” su cui vi fu un iniziale impegno di François Mitterrand a sostenerlo, poi sacrificato sull’altare della logica intergovernativa.
Da allora è stata calcolata la quantità delle proposte innovative di quel progetto inserite nei trattati successivi (Atto Unico, Maastricht, Amsterdam, Nizza Lisbona) sottovalutando la qualità delle proposte rimaste negli archivi europei a causa dell’ostilità dei governi che si considerano i “padroni dei trattati” e che prendono ogni decisione di revisione all’unanimità con l’unanimità delle ratifiche nazionali.
Queste proposte riguardano in particolare alcuni elementi essenziali del progetto di trattato:
- la ripartizione delle competenze fra l’Unione europea e gli Stati membri,
- una vera politica estera e della sicurezza che comprenda anche la difesa,
- la generalizzazione del voto a maggioranza nel Consiglio e il ruolo limitato del Consiglio europeo,
- i poteri fiscali e cioè di bilancio del Parlamento europeo insieme al potere di iniziativa legislativa in caso di carenza dell’intervento della Commissione,
una legge elettorale europea, - un meccanismo efficace per la difesa dello stato di diritto,
- il ruolo governativo della Commissione europea
- un metodo costituzionale per consentire ad una maggioranza di paesi di proseguire sulla via di una unione sempre più stretta.
- una procedura ad hoc per completare i trattati con leggi costituzionali approvate con una doppia maggioranza qualificata nel Consiglio e nel Parlamento europeo.
Di fronte alla rinnovata incapacità dei governi di decidere la riapertura del cantiere europeo dopo la fine della Conferenza sul futuro dell’Europa, il Movimento europeo chiede che il Parlamento europeo richiami alle loro responsabilità la Commissione e il Consiglio per adottare insieme all’assemblea le misure necessarie per affrontare le emergenze (energia, difesa e cybersecurity, relazioni con il Mediterraneo e con l’Africa, conseguenze sociali della pandemia e della guerra, politiche migratorie e di accoglienza, politica fiscale europea e nuova governance economica, transizione ecologica…).
Il Movimento europeo chiede al Parlamento europeo di abbandonare contemporaneamente la via di una parziale revisione all’unanimità dei trattati con il metodo tortuoso di una convenzione senza legittimità democratica e decida di scrivere gli elementi essenziali di un nuovo progetto di trattato che sostituisca integralmente il Trattato di Lisbona e che venga discusso nell’autunno 2023 in una riunione di “assise interparlamentari” come quelle che si svolsero a Roma nel novembre 1990.
La discussione del progetto preparato dal Parlamento europeo dovrà così costituire il tema centrale della campagna per le elezioni europee nel 2024 su cui si dovranno confrontare i partiti europei e la società civile per far emergere una maggioranza politica dotata di una chiara volontà costituente per trasformare il progetto in un nuovo trattato da sottoporre direttamente alle ratifiche dei parlamenti nazionali o ad un referendum paneuropeo e trasformare l’unione ibrida in un sistema federale.
Alcuni di noi hanno già compiuto la propria corsa e la preparazione delle prossime elezioni europee dovrà essere affidata soprattutto alla responsabilità delle giovani generazioni di federalisti, in particolare a coloro che si incontrano ogni anno a Ventotene, rispondendo all’appello lanciato da Altiero Spinelli nella scuola dell’isola nell’ottobre 1981, e a cui vogliamo dedicare quest’anno il ricordo e l’esempio del Club del Coccodrillo contando sulla loro volontà e capacità di uscire dagli schemi tradizionali dell’apparente realismo per far prevalere rapidamente la scelta di una democrazia costituente.
Pier Virgilio Dastoli, presidente del Movimento Europeo
Cartellino rosso a Orbán: l'Unione deve sospendere l'autocrate ribelle
Il “progetto di Trattato sull’Unione europea” del 14 febbraio 1984 (“progetto Spinelli”) era fondato sull’idea che fosse necessario rilanciare l’opera di unificazione democratica dell’Europa e che, per ottenere quest’obiettivo, fosse indispensabile fondare la futura unione sui principi della democrazia pluralista, del rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, dunque del primato del diritto europeo su quello degli Stati membri.
Fra le maggiori innovazioni del “progetto Spinelli” c’era l’affermazione secondo cui si poteva diventare membri dell’Unione solo a condizione di rispettare questi principi e questi valori ma che, se uno Stato membro li avesse violati, la Corte di Giustizia avrebbe potuto constatarne l’estraneità alla vita democratica dell’Unione europea consentendo al Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo di emarginarlo dal funzionamento delle istituzioni evitando così che un regime illiberale potesse paralizzare il funzionamento del sistema europeo per difendere l’illegittimità della sua sovranità assoluta.
Dopo la vicenda della formazione in Austria del governo sostenuto dal partito neo-fascista guidato da Haider nel 1999, i governi europei hanno cercato di correre ai ripari introducendo nei trattati una norma di natura costituzionale simile a quella suggerita dal “progetto Spinelli” allo scopo non solo di condannare le violazioni ma di prevenirle affidando tuttavia il potere di intervento alla decisione arbitraria e per di più all’unanimità del Consiglio europeo escludendo sorprendentemente l’intervento della Corte di Giustizia e auto-attribuendosi il diritto di “non-decidere” alla unanimità.
Ostruzionismo putiniano
Il meccanismo intergovernativo introdotto prima con il Trattato di Nizza e poi confermato dal Trattato di Lisbona è rimasto inapplicato consentendo alla Polonia e all’Ungheria di collocarsi progressivamente in una situazione di estraneità rispetto alla vita democratica dell’Unione e creando un inaccettabile stato discriminatorio fra i cittadini europei all’interno e all’esterno di quei paesi.
L’ostruzionismo putiniano di Viktor Orbán sulla questione delle sanzioni contro la Russia ed i suoi autocrati, considerate uno strumento collettivo per minarne alla base l’economia e ridurre dunque la sua capacità militare aggressiva, si è aggiunto alle ripetute violazioni dello stato di diritto in Ungheria denunciate dal Parlamento europeo, dalla Corte di Giustizia e dalla Commissione europea oltre che da un’ampia rete della società civile.
Chi ci segue, sa che- come Movimento europeo – ci siamo ripetutamente rivolti alle istituzioni europee usando lo strumento della iniziativa dei cittadini europei (ICE) e della petizione per dotare l’Unione europea di forti strumenti per prevenire e reprimere le violazioni dello stato di diritto ma, ciononostante, l’estraneità del regime di Viktor Orbán (e del suo partito Fidesz) dal sistema europeo è andata crescendo ed ha raggiunto ora un punto di non-ritorno dopo l’aggressione di Vladimir Putin all’integrità territoriale e all’inviolabilità delle frontiere dell’Ucraina insieme alla proclamata ed iniziale volontà di ingerenza nel sistema politico a Kiev.
Per proteggere gli interessi dell’Unione europea nel suo insieme che riguardano nello stesso tempo la sua autonomia strategica, la sua progressiva indipendenza energetica, la sua capacità di svolgere un ruolo di attore internazionale unitario e attivo sul continente europeo, il rispetto delle regole europee e la protezione dei suoi interessi finanziari, è arrivato il momento di estrarre finalmente il cartellino rosso dell’art. 7 del Trattato di Lisbona contro il governo ungherese denunciando la sua estraneità al sistema europeo e sospendendo tutti i diritti dell’Ungheria che derivano dall’applicazione dei trattati – ivi compresi quelli finanziari – e il diritto di voto di quel governo nel COREPER, nel Consiglio e nel Consiglio europeo annullando così l’effetto paralizzante del diritto di veto in tutte le materie in cui il Trattato prevede nel Consiglio e nel Consiglio europeo il voto all’unanimità e in cui Orbán ha fatto uso con illecita arroganza del potere di interdizione che gli è stato consentito dalla prevalente dimensione confederale del Trattato di Lisbona.
Uscire dall'impasse
Vale la pena di ricordare il principio – costituzionalmente vincolante - della cooperazione leale (art. 4 TUE) che fu iscritto nei trattati di Roma a richiesta del governo tedesco come richiamo alla prospettiva federale dell’integrazione europea e che obbliga tutti gli Stati membri ad astenersi da ogni azione suscettibile di mettere in pericolo gli obiettivi dell’Unione europea fra i quali il contributo “alla pace, alla sicurezza…alla solidarietà e al mutuo rispetto fra i popoli…alla protezione dei diritti dell’uomo in particolare quello dell’infanzia così come allo stretto rispetto e allo sviluppo del diritto internazionale in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite” (art. 3 TUE).
L’applicazione – hic et nunc – dell’art- 7 di questo Trattato e l’uso del cartellino rosso consentirebbe di uscire immediatamente dalla troppo lunga impasse sul contenuto delle sanzioni – un'impasse che rafforza la protervia di Vladimir Putin e rende inconsistente l’azione geopolitica dell’Unione europea – e segnalare al regime ungherese e ai suoi cittadini, che hanno a maggioranza confermato il governo in carica nelle elezioni del 3 aprile, che la chiusura nel recinto di una sovranità assoluta ed il loro isolamento è contrario agli interessi del paese e che la sospensione dei suoi diritti può creare danni profondi all’economia e agli equilibri sociali della società magiara rigettandola ai margini di una storia di progresso, di solidarietà e di pace.
È per noi evidente che l’esperienza che stiamo vivendo drammaticamente dal 24 febbraio e quelle vissute in questi primi due decenni del ventunesimo secolo rendono necessario e urgente il superamento del Trattato di Lisbona sulla via di un’unità politica indispensabile premessa per l’adesione di nuovi Stati pronti a partecipare ad un progetto di sovranità condivisa, al superamento della divisione del continente in stati-nazione e allo stretto rispetto dello stato di diritto e del primato del diritto europeo.
Per questa ragione sosteniamo che occorre una mobilitazione popolare a sostegno dell’avvio in occasione delle elezioni europee nella primavera del 2024 di una fase costituente per un’Europa unita, democratica e solidale.
Il nuovo governo di Berlino: la Ue rinasca dai diritti dei cittadini
Nell'accordo di coalizione sulla base del quale nasce il nuovo governo tedesco c'è un passaggio molto interessante che riguarda il futuro dell'Unione, che è al centro della Conferenza sul futuro dell'Europa. Si tratta di un richiamo preciso alla necessità di modificare i trattati e al fatto che le modifiche dovrebbero partire dal pieno riconoscimento dei diritti dei cittadini europei. Vale la pena di citare integralmente il passo in questione: “Usiamo la Conferenza sul futuro dell’Europa per le riforme. Supportiamo le necessarie modifiche dei trattati. La Conferenza dovrebbe sfociare in una convenzione costituente e portare all’ulteriore sviluppo di uno Stato europeo federale, anch’esso organizzato in modo decentrato secondo i principi di sussidiarietà e proporzionalità e basato sulla Carta dei diritti fondamentali”.
Il tema della codificazione del rapporto tra doveri e diritti ha una storia antichissima. All'inizio ci furono soltanto dei codici di doveri: il Codice di Hammurabi del diciassettesimo secolo a.C., i Dieci Comandamenti del tredicesimo secolo a.C. e le Dodici Tavole della Legge del quinto secolo a.C.. Dovere e Diritto, si diceva, sono come padre e figlio: non c'è padre senza figlio ma è il padre che genera il figlio ed il Dovere viene prima del Diritto.
Più tardi - per riprendere un'espressione di Immanuel Kant - ci fu la rivoluzione copernicana delle dichiarazioni dei diritti fondamentali.
Niccolò Copernico "fece girare" i pianeti intorno al sole: il Bill of Rights del 1689, la Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati americani del 1776 e la Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali del 1789 fecero del cittadino il perno dei sistemi giuridici moderni. La Dichiarazione del 1789 fu adottata dall'Assemblea nazionale il 26 agosto dopo una lunga ed aspra discussione sulla priorità da attribuire ai diritti fondamentali o alla Costituzione. Alla fine della discussione, l'Assemblea decise a grande maggioranza che la Dichiarazione dei diritti (che qualcuno definì' come "l'atto di costituzione di un popolo") dovesse precedere la Costituzione, che fu approvata due anni più tardi, nel 1791.
È ciò che noi abbiamo sempre pensato che dovesse avvenire nel processo di integrazione europea e che traspare in qualche modo dal “programma semaforo”.
Dalla Dichiarazione del 1789, la concezione individualista della società e la protezione delle libertà fondamentali hanno fatto molta strada: i diritti della persona, affermati nelle costituzioni nazionali, sono riconosciuti e proclamati al di là delle frontiere statuali e la dottrina del diritto internazionale ne è stata sconvolta perché ogni individuo è divenuto un soggetto della comunità internazionale mentre prima lo erano solo gli Stati-nazione sovrani.
Cinque tappe
Questo percorso - di valori e di diritti - è stato segnato da cinque tappe, che è utile ricordare oggi dopo la decisione del nuovo governo tedesco di proporre l’avvio di un processo costituente che abbia come punto di partenza la Carta dei diritti:
1) la costituzionalizzazione dei diritti e cioè la loro iscrizione nelle costituzioni nazionali e dunque l'affermazione del loro carattere vincolante e della loro "giustiziabilità";
2) l'ampliamento del loro campo di azione dai diritti civili, politici e del cittadino ai diritti economici, sociali e culturali;
3) l'universalizzazione dei diritti e cioè il loro riconoscimento a livello internazionale e la loro protezione al di là della cittadinanza statuale;
4) la specificazione dei diritti e cioè la loro affermazione riguardo al genere (uomo/donna/orientamento sessuale), le fasi differenti della vita (bambino/anziano), delle condizioni di speciale difficoltà (malato/portatore di handicap…)
5) la protezione dei diritti collettivi che concernono lo sviluppo della democrazia locale e della democrazia partecipativa, i diritti delle minoranze, i diritti dei popoli e l'affermazione di importanti diritti economici e sociali.
Il rapporto tra poteri e libertà
Nella visione del nuovo governo tedesco il concetto di democrazia non può essere dissociato da quello dei diritti e delle libertà della persona umana: la miglior realizzazione della democrazia è quella attraverso cui gli individui (tutti gli individui) - liberi ed eguali - possiedono, ciascuno, una parte di sovranità: sapendo che gli esseri umani non nascono liberi ed eguali e che la libertà e l'eguaglianza non sono dei fatti ma delle prescrizioni di un dovere (che deve essere compiuto dai poteri pubblici).
Il rapporto fra i poteri e le libertà si è rovesciato e, in linea di principio, le libertà precedono oggi i poteri: crediamo sia necessario precisare "in linea di principio", perché la realtà delle nostre società ci mostra quotidianamente e dappertutto nel mondo i pericoli che pesano sulla democrazia, sulle democrazie e la fragilità dei mezzi a disposizione dei cittadini per esigere il rispetto dei diritti riconosciuti dalle costituzioni nazionali e dalle convenzioni internazionali.
Un sistema di garanzie
Il sistema comunitario non aveva previsto né un catalogo dei diritti fondamentali né una procedura interna per la loro protezione. In seno alle Comunità prima ed all'Unione poi non era stato creato un sistema di garanzie di protezione dei diritti né un metodo che permettesse ai cittadini di rivendicare il rispetto delle loro libertà fondamentali di fronte alle istituzioni europee, ai loro funzionari ed agli Stati quando applicano la "legge" europea.
Nonostante questo evidente vuoto giuridico, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha elaborato, fin dagli inizi degli anni '70, un'importante giurisprudenza comunitaria per proteggere le libertà individuali. I giudici hanno utilizzato il loro "diritto pretoriano" per affermare - nella "causa 4/73 Nold, Kohlen e Baustoffgrosshandlung contro la Commissione delle Comunità europee" che "i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte garantisce il rispetto" e che questa garanzia si ispira alle tradizioni costituzionali degli Stati membri.
Nelle sue sentenze successive, la Corte ha proseguito l'elaborazione di una giurisprudenza sui diritti fondamentali, approfondendo l'esame dei rapporti fra i diritti e le libertà individuali nell'ambito economico e sviluppando in particolare l'aspetto dei diritti sociali.
La giurisprudenza comunitaria ha influito sull'atteggiamento delle istituzioni comunitarie che hanno adottato, nell'aprile del 1977, una "Dichiarazione Comune" nella quale Parlamento europeo, Consiglio dei Ministri e Commissione europea "sottolineano l'importanza primordiale che essi attribuiscono al rispetto dei diritti fondamentali quali risultano in particolare dalle costituzioni degli Stati membri cosi come dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali".
Il Trattato secondo il "progetto Spinelli"
Nel suo progetto di Trattato che istituisce l'Unione europea (il "progetto Spinelli" del 14 febbraio 1984), il Parlamento europeo affermò che quest'Unione doveva essere fondata sulla "adesione ai principi della democrazia pluralista, del rispetto dei diritti dell'Uomo e sul primato del diritto".

Il progetto del Parlamento europeo riprese così l'idea di una garanzia (autonoma da quella della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali del Consiglio d'Europa) dei diritti fondamentali associandola alla proposta di una "dichiarazione" da adottare in un termine di tempo di cinque anni dall'entrata in vigore del progetto e da sottoporre alle stesse procedure previste dal progetto per le modifiche del trattato. Il progetto di trattato approvato dal Parlamento europeo prevedeva inoltre che la nuova Unione dovesse:
1) proteggere la dignità dell'individuo e riconoscere ad ogni persona sottoposta alla sua giurisdizione i diritti e le libertà fondamentali quali risultano dai principi comuni delle costituzioni degli Stati membri e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali;
2) impegnarsi a mantenere ed a sviluppare, nei limiti delle sue competenze, i diritti economici, sociali e culturali che risultano dalle costituzioni degli Stati membri e dalla Carta Sociale Europea;
3) deliberare, entro un termine di tempo di cinque anni dall'entrata in vigore del trattato, sulla sua adesione alla Convenzione di Roma, alla Carta Sociale ed anche ai patti delle Nazioni Unite relativi ai diritti civili, politici, economici, sociali e culturali.
Quali sanzioni per le violazioni
Infine, il Parlamento europeo aveva introdotto la previsione di sanzioni contro uno Stato membro responsabile di una "violazione grave e persistente dei principi democratici o dei diritti fondamentali". Secondo il "progetto Spinelli", dopo la constatazione della Corte a richiesta del Parlamento europeo o della Commissione, il Consiglio europeo avrebbe potuto giungere fino al punto di sospendere la partecipazione di uno Stato dalle stesse riunioni del Consiglio europeo, del Consiglio dell'Unione o di ogni altro organo dell'Unione all'interno del quale uno Stato è rappresentato in quanto tale.
Questa previsione è stata ripresa tale e quale dall'articolo 7 del Trattato di Amsterdam e poi nel Trattato di Lisbona, con la sola esclusione - non giustificata e non giustificabile - del ruolo della Corte di Giustizia nella procedura prevista dal Trattato per applicare le sanzioni.
Nel dar seguito al "programma" stabilito nel suo progetto del 1984, il Parlamento europeo ha elaborato - nel marzo 1988 - un "Libro Bianco" che raccoglie tutte le più importanti garanzie esistenti a livello europeo di diritti fondamentali ed ha adottato - nell'aprile 1989 - una "dichiarazione solenne sui diritti e sulle libertà fondamentali", integrata successivamente nel progetto di costituzione europea approvato dall'Assemblea nel febbraio 1994.
La Carta dei diritti come un fiume carsico
Come un fiume carsico, l'idea di una carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea è tornata periodicamente in superficie: le conclusioni del Consiglio europeo di Madrid del 15 e 16 dicembre 1995 contengono la proposta di un "catalogo" di diritti e quest'idea appare di nuovo nelle discussioni del "gruppo Westendorp", incaricato dai governi dei Quindici di preparare la Conferenza intergovernativa sul Trattato di Amsterdam.
Il Forum permanente europeo della società civile - una piattaforma di oltre duecento organizzazioni non governative creata nell'autunno del 1995 ad iniziativa del Movimento Europeo Internazionale - aveva chiesto ai governi, alla vigilia del negoziato di revisione del Trattato di Maastricht, di porre il cittadino al centro dell'Unione europea e di contribuire allo sviluppo di una società europea portatrice di valori.
Per realizzare questo progetto, la costruzione europea avrebbe dovuto ispirarsi - secondo il Forum - alla logica federale ed alle esigenze prioritarie seguenti: solidarietà e tolleranza all'interno ed all'esterno dell'Unione; sviluppo di vere politiche comuni; attenzione alla protezione dell'ambiente; democrazia politica; democrazia partecipativa; rispetto del diritto comunitario da parte degli Stati membri.
Cittadinanza, uguaglianza dei diritti
Secondo il Forum, la collocazione centrale della cittadinanza nel nuovo trattato avrebbe avuto una rilevanza politica, morale e educativa superiore anche ai suoi effetti giuridici: in un'Europa attraversata da fenomeni di intolleranza e di razzismo, l'affermazione dell'eguaglianza dei diritti civili per ogni persona residente all'interno dell'Unione avrebbe permesso di dare una risposta forte e senza ambiguità a questi fenomeni.
Reagendo al carattere mediocre del negoziato intergovernativo, il Forum decise - nell'ottobre del 1996 - di "lanciare una campagna di discussione, di elaborazione e di mobilitazione il cui scopo fondamentale sarà la redazione di una carta della cittadinanza europea da sottoporre al Parlamento europeo, alla Commissione ed ai governi nazionali prima della fine della Conferenza intergovernativa".
Il Consiglio europeo, riunito a Colonia il 3 e 4 giugno 1999 sotto presidenza tedesca, ritenne che fosse necessario ("allo stato attuale dello sviluppo dell'Unione") elaborare una Carta di diritti “al fine di sancirne in modo visibile l'importanza capitale e la portata per i cittadini dell'Unione". Secondo il Consiglio europeo, questa carta avrebbe dovuto essere elaborata da un "organo composto di delegati dei capi di Stato o di governo e del Presidente della Commissione europea nonché di membri del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali" ed il progetto avrebbe dovuto essere presentato in tempo utile prima del Consiglio europeo del dicembre 2000 a Nizza.
Così è stato e la Carta dei diritti è diventata, con il Trattato di Lisbona, costituzionalmente vincolante e, a nostro avviso, si sovrappone allo stesso trattato.
La Conferenza sul futuro dell'Europa
Cosicché appare una scelta essenziale – che riguarda cioè l’essenza della costruzione europea come stato di diritto – il fatto che il nuovo governo tedesco abbia deciso che la fase che si dovrà aprire dopo la Conferenza sul futuro dell’Europa attraverso una non meglio precisata “convenzione costituente” debba fondarsi sulla Carta dei diritti fondamentali che giunse al traguardo di Nizza grazie alla proposta che l’allora governo tedesco propose al Consiglio europeo di Colonia.
Il nuovo trattato - o la futura costituzione europea – dovrà essere elaborato, approvato e entrare in vigore (fra gli Stati che lo accetteranno) in modo conforme alla Carta: innanzitutto dal punto di vista delle competenze dello “stato federale” e poi delle politiche che nasceranno da queste competenze, quindi dalle regole di una vera democrazia europea ed infine dai mezzi di cui essa dovrà disporre per offrire a chi vive nell’Unione europea i beni comuni che derivano dai diritti affermati nella Carta.
Ora si sostenga la via costituente
Attendiamo ora che i partiti europei a cui appartengono SPD, Verdi e Liberali – ispirandosi all’internazionalismo socialista, alla cultura ambientalista e al cosmopolitismo liberale e coinvolgendo il popolarismo universalista laddove ha salvaguardato l’europeismo dei padri fondatori - si impegnino a dare un seguito concreto e coerente al programma europeo della “Ampel Koalition” a cominciare dalle conclusioni a cui dovrà arrivare la sessione plenaria della Conferenza sul futuro dell’Europa in tempi adeguati alla complessità del dialogo fra democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa..
Attendiamo ora che i movimenti europeisti - che si sono per ora adagiati sull’idea apparentemente pragmatica di considerare la Conferenza come lo spazio da cui dovessero emergere proposte di alcune modifiche dei trattati da sottoporre inevitabilmente ad un negoziato intergovernativo – accolgano e sostengano la via costituente che è stata concepita a Berlino e che dovrà condurre al superamento del Trattato di Lisbona firmato quattordici anni fa quando le sfide dell’Unione europea erano profondamente diverse da quelle attuali.
Le ombre dell'era Merkel sul processo d'integrazione europea
La cosiddetta «era Merkel» si avvicina alla sua conclusione dopo sedici anni da quando Angela entrò nel Palazzo della Cancelleria il 22 novembre 2005.
Si avvia lentamente alla sua conclusione perché i tempi per la formazione del nuovo governo federale saranno lunghi e potrebbero durare fino alla primavera del 2022. Nel frattempo Angela Merkel continuerà ad essere cancelliera ed è difficile immaginare che il «suo» governo gestisca solo gli affari correnti.
Molti commentatori hanno sottolineato le luci e le ombre di sedici anni di azione europea ed alcuni hanno anche scritto che il suo obiettivo è stato quello di un’Europa tedesca piuttosto che di una Germania europea.
Da parte nostra vorremmo ricordare alle nostre lettrici e ai nostri lettori due momenti della sua azione europea che hanno lasciato segni significativi sul processo di integrazione europea e sui quali noi speriamo che ci sia un altrettanto significativo mutamento di rotta con la nuova coalizione tedesca.
Il discorso di Bruges
Correva l’anno 2007 (o meglio: il primo semestre) ed erano trascorsi due anni di pausa, ma non di riflessione, dopo la bocciatura del trattato costituzionale. L’idea del presidente Napolitano, osteggiata dai diplomatici della Farnesina, era fondata sulla salvaguardia dei principi di fondo e della struttura di quel trattato.
A Berlino regnava Angela Merkel perché, come sappiamo e come è avvenuto ancor di più dopo Lisbona, da tempo in materia europea il potere è nelle mani dei capi di governo e non dei ministri degli Esteri. Come nei Promessi Sposi fra Egidio e la monaca di Monza, Tony Blair-Egidio chiamò Angela Merkel-monaca di Monza. La sciagurata rispose, il trattato costituzionale fu cancellato dal Trattato di Lisbona - che Angela Merkel aveva valutato come “la costituzione europea fino al 2050” - e da allora viviamo con regole e ripartizione di competenze che non sono all’altezza delle sfide del ventunesimo secolo.
Il secondo momento è il discorso a Bruges di Angela Merkel del 2 novembre 2010. Dopo quello di Margaret Thatcher alcuni anni prima, il discorso del 2010 rappresenta la summa della visione istituzionale dell’Europa a trazione merkelliana.
La sua visione da allora non è cambiata, ma noi speriamo che cambi la visione del nuovo governo tedesco. Se i negoziati in Germania dovessero prolungarsi nel tempo bisognerebbe riflettere su una seconda fase della Conferenza sul futuro dell’Europa - trainata dal Parlamento europeo - con un nuovo governo tedesco e dopo le elezioni presidenziali in Francia.
Giscard d’Estaing visto da vicino:
un europeista, ma con qualche freno
Parafrasando gli scritti di Giulio Andreotti potrei dire di Valéry Giscard d’Estaing: “visto da vicino”. Sono stato eletto segretario generale del Movimento europeo internazionale – una rete di organizzazioni europee e di sezioni nazionali nata all’Aja nel 1948 come casa comune dell’europeismo tradizionale – nell’aprile 1995 candidato dei federalisti, vincendo a sorpresa nel segreto dell’urna contro l’inglese Peter Luff che partiva avvantaggiato dal ruolo di segretario generale aggiunto.
Da sei anni, il Movimento europeo internazionale era presieduto da Valéry Giscard d’Estaing, eletto parlamentare europeo nel 1989 e presidente del Gruppo Liberale dal 1989 al 1991.
Il suo ruolo nei liberali europei
Dopo la scomparsa di Altiero Spinelli, di cui ero stato l’assistente parlamentare dal 1977 al 1986, avevo promosso e coordinato un “intergruppo federalista per l’Unione europea” nutrendo l’illusione che il Parlamento europeo fosse disponibile a riprendere l’azione costituente che si era concretizzata nell’approvazione del “Progetto Spinelli” il 14 febbraio 1984.
Notoriamente lontano dalla cultura gollista in materia europea che caratterizzava la posizione della grande maggioranza delle forze politiche francesi a cominciare dai socialisti ma estraneo alle logiche interne del Parlamento europeo, Giscard d’Estaing avrebbe voluto collocare i liberali europei al centro dell’azione parlamentare approfittando della paralizzante grande coalizione fra popolari e socialisti e creando intorno al suo ben più piccolo gruppo un’alleanza per una “Europa sovrana”.
Fui convocato a Parigi da un suo collaboratore per un colloquio con Monsieur le Président nel corso del quale Giscard d’Estaing mi propose di lasciare il Gruppo Comunista e Apparentati in cui ero entrato nel 1988 come consigliere per le questioni istituzionali e diventare suo capo di gabinetto nel Gruppo Liberale scegliendo un italiano, vicino ai comunisti e federalista.
Nella convinzione che nel passaggio al Gruppo Liberale avrei perso una buona parte della mia posizione di libero pensatore federalista, non accettai la sua proposta. A metà legislatura Giscard d’Estaing lasciò a sorpresa i liberali entrando nel Gruppo dei popolari europei e mi felicitai con me stesso per non aver accettato la sua proposta.
Ciononostante continuai a “vederlo da vicino” nel Parlamento europeo e nel Movimento europeo che avevo iniziato a frequentare più assiduamente in rappresentanza della sezione italiana.
Da buon francese, Giscard d’Estaing non amava molto gli inglesi e tantomeno chi all’interno del Movimento europeo aveva rappresentato la logica dell’europeismo tradizionale acritico nei confronti del metodo comunitario.
Mi ritrovai così alla segreteria generale del Movimento europeo ancora più vicino a Giscard d’Estaing valutando in incontri settimanali le sue convinzioni europeiste.
Capii che non poteva essere iscritto fra i seguaci di Jean Monnet che aveva messo il metodo funzionalista (e cioè l’evoluzione graduale dell’integrazione europea affidata ad una amministrazione formalmente indipendente dagli Stati nazionali ma di fatto prigioniera del potere preponderante dei governi) al centro della costruzione comunitaria.
Quel settennato con luci e ombre
Avendo contribuito da presidente della Repubblica - durante un settennato (1974-1981) pieno di luci come la modernizzazione laica dello Stato francese e di ombre come l’affaire dei diamanti del dittatore centro-africano Bokassa spodestato dallo stesso Giscard nel 1979 - a iniettare nelle Comunità europee tre innovazioni di peso rappresentate dalla perennizzazione del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo con un ruolo politico di indirizzo e non di decisione, dalla creazione del Sistema Monetario Europeo come embrione della futura unione monetaria e dall’elezione a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo, Giscard era convinto che il sistema europeo dovesse essere razionalizzato in un insieme più equilibrato che evitasse i rischi di paralisi insiti in un evidente squilibrio istituzionale e nel diritto di veto permanete nel Consiglio.
A suo avviso, l’Unione europea nata a Maastricht nel 1992 doveva essere inquadrata in una futura costituzione europea per evolvere verso gli Stati Uniti d’Europa, gli Stati avrebbero dovuto attribuire al livello sopranazionale un insieme di competenze ampie ma non modificabili secondo il modello federale della Legge Fondamentale tedesca e il passaggio dall’Unione agli Stati Uniti d’Europa avrebbe dovuto avvenire nel quadro di un’Europa a due velocità.
Nella sua visione degli Stati Uniti d’Europa, equidistante dal funzionalismo di Monnet e dal federalismo di Spinelli, non c’era posto tuttavia per un governo federale di origine parlamentare (nella Convenzione sul futuro dell’Europa propose una sorta di Congresso di Versailles composto da parlamentari europei e deputati nazionali, n.d.r.) ma era prevalente l’idea di una repubblica europea semipresidenziale necessaria per gettare le basi di un’Europa sovrana a livello internazionale.
Da Spinelli lo allontanava infine l’idea che gli Stati Uniti d’Europa dovessero essere il frutto di un’azione costituente del Parlamento europeo perché a suo avviso si doveva passare dalle forche caudine dell’accordo dei governi a condizione che tale accordo non dovesse essere sottoposto alla condizione della unanimità e perché non aveva trovato o non aveva cercato nel Parlamento europeo una spinta propulsiva verso un ruolo costituente.
L'impegno per una Costituzione europea
“Visto da vicino” nel ruolo di presidente del Movimento europeo internazionale, la sua equidistanza fra Monnet e Spinelli era compensata dal desiderio di passare alla storia come il padre della futura costituzione europea e, con questo obiettivo, convinse il Movimento ad agire in due direzioni: una di carattere accademico con la creazione di una Agora accademica sul futuro dell’Europa che elaborò un corposo rapporto significativamente intitolato Verso una costituzione europea ed una – accettata a dire il vero obtorto collo in una agitata riunione al Bundestag dove le reticenze di Giscard d’Estaing furono superate dal sostegno della presidente del Bundestag e presidente del Movimento europeo tedesco Rita Suessmuth e dal presidente del Movimento europeo italiano Giorgio Napolitano – della creazione della prima rete europea della società civile (il Forum Permanente) che fu poi all’origine della Carta dei diritti dell’Unione europea e dell’embrione di democrazia partecipativa inserito nell’art. 11 del Trattato di Lisbona.
L’idea della costituzione fu approvata dal Congresso d’Europa all’Aja nel maggio 1998 quando Giscard aveva lasciato a Mario Soares la presidenza del Movimento e, in quanto presidente di regione, era stato eletto alla presidenza del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa. Il tema della costituzione entrò così nell’agenda europea prima con il discorso di Joschka Fischer a Berlino il 12 maggio 2000 tuttavia pieno di caveat confederali e quindi nella Convenzione sull’avvenire dell’Europa concepita al Vertice di Laeken nel dicembre 2001 su iniziativa del primo ministro belga Guy Verhofstadt e alla cui presidenza Jacques Chirac impose lo stesso Giscard d’Estaing affiancato da Giuliano Amato.
Condizionato dalla presenza ingombrante dei governi e frenata dall’incapacità del Parlamento europeo di assumere un ruolo di leadership e di creare un’alleanza innovatrice con i parlamenti nazionali, il testo di “Trattato che istituisce una costituzione europea” elaborato e approvato dalla Convenzione fu il frutto di un minimo comun denominatore reso inevitabile dalla regola secondo cui i convenzionali dovevano decidere sulla base del principio del consenso sapendo che il testo sarebbe poi passato per le mani di un negoziato diplomatico, di una conferenza intergovernativa e delle ratifiche nazionali frammentate fra consultazioni popolari e adozioni parlamentari.
Prigioniero del proprio ego, Giscard d’Estaing ha lavorato sull’ipotesi di una apparente costituzione condivisa dai governi nella speranza o nell’illusione che essa sarebbe passata indenne dalle forche caudine delle ratifiche nazionali, che sarebbe stata accettata anche dal Regno Unito a cui aveva concesso l’art. 50 sull’uscita volontaria e che avrebbe comunque aperto la strada ad un salto verso l’unità politica grazie ai suoi anticorpi costituzionali (il primato del diritto dell’Unione, la legge europea, una clausola per il passaggio dall’unanimità alla maggioranza….).
Sappiamo che così non è stato perché i governi hanno irresponsabilmente deciso di mettere del piombo nelle deboli ali della breve costituzione europea associando ad un testo di diritto primario la massa di oltre trecentocinquanta articoli del diritto secondario dei trattati esistenti ed hanno eliminato tutti gli anticorpi costituzionali aprendo la strada ad un dibattito confuso e a quelle che oggi avremmo chiamato fakenews.
Prima dei britannici e nonostante il voto favorevole di tredici paesi europei (di cui i referendum in Spagna e Lussemburgo) la Francia di Giscard d’Estaing e i Paesi Bassi incamminati sulla via dell’euroscetticismo hanno affossato nella primavera del 2005 il cosiddetto Trattato costituzionale e, come avrebbe detto Spinelli, dalla sua montagna è nato il topolino del Trattato di Lisbona.
Speriamo che la storia della sfortunata costituzione europea ammaestri coloro che dovranno guidare il prossimo dibattito sul futuro dell’Unione sulla via degli Stati Uniti d’Europa ed in particolare il Parlamento europeo.
Bilancio Ue: i governi
stringono la cinghia
con un abuso di potere
Si sta consumando a Bruxelles, con la complicità della Commissione europea, un abuso di potere da parte del Consiglio europeo che potrebbe provocare per un tempo indefinito la paralisi dell’integrazione europea.
Contrariamente al riequilibrio istituzionale introdotto dal Trattato di Lisbona che ha separato il potere di indirizzo politico del Consiglio europeo dal potere legislativo e di bilancio del Consiglio e del Parlamento europeo, il negoziato sul regolamento che introduce le prospettive finanziarie pluriennali 2021-2027 sulla base di un accordo fra ministri delle finanze e parlamentari europei è stato avocato a sé dal Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo.
Se giungeranno a trovare un accordo unanime fra paesi “frugali” e “amici della coesione”, i capi di Stato e di governo vorranno imporre la loro decisione nello stesso tempo ai loro ministri e al Parlamento europeo vincolando le politiche dell’Unione per i prossimi sette anni.
Programmazione quinquennale
Innovando rispetto ai trattati precedenti, il Trattato di Lisbona ha introdotto una procedura legislativa apparsa necessaria per garantire lo svolgimento regolare delle procedure di bilancio, stabilendo una programmazione quinquennale delle spese e dunque delle politiche comuni legando gli impegni e i pagamenti a risorse proprie e cioè alla capacità fiscale dell’Unione indipendente da quella degli Stati membri da cui dovrebbero discendere i livelli dei bilanci annuali nel rispetto del quadro finanziario pluriennale.

Il Trattato prevede anche che Parlamento, Consiglio e Commissione agiscono con spirito di cooperazione leale per facilitare l’adozione della programmazione pluriennale stabilendo tuttavia (come avviene a livello nazionale) che la mancata approvazione della “legge finanziaria” europea entro la fine del periodo della precedente programmazione non determina la paralisi delle politiche comuni con effetti finanziari perché sarà applicato il sistema tradizionale dei dodicesimi provvisori corrispondenti al livello di impegni e di pagamenti dell’ultimo anno.
Il sistema è fondato su una doppia logica istituzionale: il ruolo crescente del Parlamento europeo per rafforzare la dimensione europea della democrazia rappresentativa e la natura comunitaria del Consiglio, istituzione comune dell’Unione come l’Assemblea e la Commissione sottomessa a tutte le regole europee a cominciare dal controllo giurisprudenziale pieno della Corte di Giustizia che è limitato per il Consiglio europeo agli atti che producono effetti giuridici nei riguardi di terzi o se esso si è astenuto dal decidere (ricorso in carenza).
La Corte non può invece giudicare il Consiglio europeo per incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione dei trattati o di ogni regola del diritto relativa alla loro applicazione o abuso di potere al contrario di uno Stato membro, del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione.
La logica del sistema contiene tuttavia tre rilevanti eccezioni che dovranno essere corrette quando si metterà mano alla revisione dei trattati: il potere esclusivo del Consiglio sulle entrate in violazione del principio no taxation without representation, il voto all’unanimità del Consiglio sulle entrate e sul quadro finanziario pluriennale e l’incomprensibile e ingiustificabile sottrazione alla Commissione del suo potere esclusivo di iniziativa legislativa.
Il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo è dunque legibus solutus.
Una nuova proposta della Commissione
Non sappiamo ancora, mentre scriviamo, se e quando il Consiglio europeo raggiungerà un accordo che dovrà inviare comunque al Consiglio che – prima di adottarlo all’unanimità – dovrà ottenere l’approvazione del Parlamento europeo.
L’Assemblea avrebbe dovuto chiedere alla Commissione von der Leyen, contestualmente al voto di fiducia, di presentare una proposta destinata a sostituire quella – ormai politicamente, finanziariamente e economicamente caduca – della Commissione Juncker del 2 maggio 2018.
Non basterebbe tuttavia chiedere ora il ritiro da parte della Commissione di quella proposta perché - contrariamente alla procedura legislativa ordinaria – il negoziato finanziario potrebbe continuare anche in assenza di un documento dell’esecutivo.

Il Parlamento europeo dovrebbe accompagnare questa richiesta dalla decisione di respingere ad ultimum qualunque proposta del Consiglio e, a fortiori, una proposta del Consiglio europeo adottata in evidente abuso di potere.
Il Parlamento europeo dovrebbe pretendere dalla Commissione che la nuova proposta sia conforme alle sei priorità politiche su cui essa si è impegnata per ricevere la fiducia dell’aula e che sia programmata per un periodo di cinque anni fino all’inizio della nuova legislatura europea, che il livello delle risorse proprie [1] sia superiore a quello dei contributi nazionali calcolati sulla base del PIL di ogni Stato membro, che – in attesa di una revisione dei trattati – sia introdotto un accordo interistituzionale sulle risorse proprie che riconosca di fatto all’assemblea un potere di codecisione sull’esempio della cooperazione finanziaria del 1975 applicata agli atti legislativi con conseguenze finanziarie.
Un’alleanza siffatta fra Parlamento europeo e Commissione porrebbe le basi politiche di uno sviluppo in senso federale dell’integrazione europea nel momento in cui si dovrebbe avviare la Conferenza europea sul futuro dell’Europa al cui interno l’assemblea intende svolgere un ruolo di leadership.
[1] Secondo il Movimento europeo – www.movimentoeuropeo.it – è possibile introdurre risorse proprie pari all’1% del PIL globale dell’UE con prelievo legati all’elusione fiscale delle multinazionali, alle più grandi e dominanti aziende nel settore dell’informatica (web tax), ai giochi d’azzardo e al tabacco, alla border carbon tax.
Sul bilancio dell'Unione
diamo la parola
ai cittadini europei
Se dovessimo cercare un’immagine significativa del dissesto europeo dovremmo disegnarla intorno al tema del bilancio e cioè dall’insieme delle risorse, delle spese e del sistema di governance nell’equilibrio o meglio nello squilibrio dei poteri fra autorità esecutiva (la Commissione) e autorità legislativa (il Consiglio e il Parlamento europeo).
Nel labirinto dei bilanci annuali e pluriennali
Come sanno coloro che seguono le vicende finanziarie internazionali, a partire dalla metà degli anni settanta, il mondo occidentale è passato – su ispirazione statunitense – dal sistema dei bilanci annuali a quello dei bilanci pluriennali per permettere una programmazione finanziaria durante una periodicità normalmente quinquennale che in Italia è stata introdotta per la prima volta con la Legge finanziaria dell’agosto 1978 successivamente modificata nel 1988 come naturale conseguenza del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria.
Il bilancio costituisce o dovrebbe costituire un documento nello stesso tempo politico, economico, contabile e giuridico.
Nel 1988 e in vista della realizzazione del mercato interno nel 1992, la Commissione Delors propose una programmazione finanziaria pluriennale di cinque anni dal 1° gennaio 1988 al 31 dicembre 1992 adottata dal Consiglio e dal PE il 29 giugno 1988.
Contrariamente agli Stati membri dove il Documento di programmazione economica ha una funzione solo politica, nell’Unione europea le prospettive finanziarie non servono solo per definire degli orientamenti di politica finanziaria che lasciano ai bilanci annuali il compito di fissare il livello delle spese e delle entrate ma deteminano i livelli annuali sia dei crediti di impegno che quelli di pagamento per categoria di spese lasciando dunque un esiguo margine di manovra all’autorità di bilancio e in particolare al Parlamento europeo.
Occorre aggiungere che le prospettive finanziarie sono sostanzialmente una prerogativa del Consiglio che le adotta all’unanimità nel quadro di una procedura legislativa speciale sottraendo al Parlamento europeo quel potere di codecisione che è ormai la regola nel processo legislativo e concedendogli solo un potere di veto alla maggioranza qualificata dei suoi membri. Il Consiglio inoltre decide uniformandosi agli orientamenti politici stabiliti dal Consiglio europeo.
Che cosa prevede il Trattato di Lisbona
Nonostante le disposizioni del Trattato che prevedono un quadro finanziario pluriennale di cinque anni (art.312 TFUE) e il fatto che il bilancio deve essere integralmente finanziato da risorse proprie e cioè da imposte europee (art. 311 TFUE), il quadro finanziario pluriennale copre inspiegabilmente dal 1993 un periodo di tempo di sette anni superando di due anni l’agenda strategica del Consiglio europeo e il programma per la legislatura della Commissione su cui si fonda il voto di fiducia del Parlamento europeo. Il bilancio annuale è largamente fondato sui contributi nazionali degli Stati membri legati al loro PIL con l’eccezione delle entrate provenienti da una percentuale dell’IVA, dai dazi e dai prelievi agricoli sui prodotti dei paesi terzi e dalle imposte sui salari dei funzionari delle istituzioni europee.
Contrariamente alla (fallita) costituzione europea, il Trattato di Lisbona ha mantenuto sia il voto all’unanimità del Consiglio sulla fissazione della quantità e della qualità delle risorse proprie aggiungendo l’obbligo delle ratifiche nazionali e emarginando il Parlamento europeo in un ruolo meramente consultivo con disprezzo del principio “no taxation without representation”.
E’ stato fissato infine un tetto massimo dei crediti di impegno legato alle entrate (e cioè ai contributi degli Stati membri) che non può superare l’1.24% del PIL globale dell’Unione europea cosicché il bilancio europeo non è dettato dalle spese e dunque dalle necessità di finanziare le politiche comuni, seppure nel rispetto dell’equilibrio fra entrate e spese, ma dalle entrate fissate ogni sette anni dal Consiglio.
Perdurando nella violazione del trattato e della logica economica e democratica, la Commissione Juncker ha presentato il 2 maggio 2018 una proposta per un quadro finanziario pluriennale fondato su un periodo di sette anni (2021-2027) con una parte irrisoria finanziata dalle risorse proprie (che dovrebbero derivare da una modesta tassa sulle emissioni di CO2 e da una percentuale sulla imposta delle società nel caso in cui il Consiglio adotti all’unanimità i regolamenti di attuazione), la parte principale finanziata dai contributi nazionali e un tetto di spese largamente al di sotto dell’1.24% del PIL.
Alla ricerca dell'autonomia fiscale europea
E’ trascorso un anno e mezzo dalla proposta della Commissione alla quale il Parlamento europeo ha risposto proponendo un quadro pluriennale “5+5” che conduca l’Unione fino al 2030 e insistendo sulla necessità di passare dai contributi nazionali alle risorse proprie per rendere il bilancio europeo indipendente da quelli degli Stati nazionali con un tetto dell’1.3 % che porterebbe le spese oltre i 215 miliardi di Euro all’anno e consentirebbe la realizzazione di piani di investimenti essenziali come quello per l’Economia Verde, gli aiuti alla cooperazione internazionale, la riforma della politica agricola, il controllo delle frontiere e la decuplicazione delle spese per la formazione, la ricerca, la cultura e l’educazione.
Si inserisce in questo quadro la proposta di una capacità fiscale autonoma dell’Eurozona su cui il Movimento europeo ha presentato a giugno 2019 proposte precise in termini di fiscalità europea e di investimenti sostenibili di lunga durata (www.movimentoeuropeo.it).
Sette riunioni del Consiglio europeo dal giugno 2018 al dicembre 2019 si sono concluse senza accordo e il dossier è stato ora rinviato alla presidenza croata sulla base di un’inaccettabile “negotiation box” preparato dalla presidenza finlandese che propone di ridurre drasticamente l’ammontare complessivo delle spese a meno di 150 miliardi di euro all’anno trasformando le parole dei capi di stato e di governo dell’UE a favore della crescita sostenibile in una sequenza di dichiarazioni ipocrite.
La Commissione Von der Leyen non può accettare gli orientamenti del Consiglio europeo perché negherebbe le priorità del programma su cui ha ottenuto il voto di fiducia del Parlamento europeo.
Applicando l’art. 11 TUE sulla democrazia partecipativa, il Parlamento europeo dovrebbe organizzare con urgenza dei fora di dialogo, di dibattito e di consultazione con le organizzazioni rappresentative della società civile aprendo la via ad un bilancio partecipativo secondo l’esperienza avviata trenta anni fa a Porto Alegre e poi sviluppatasi in diversi modelli nel mondo per dare il potere ai cittadini di indicare le loro priorità nel governo del territorio, dell’ambiente, dell’educazione, della salute, della ricerca e della sicurezza.
Poiché al centro del bilancio ci deve essere il piano di investimenti per l’Economia Verde sulla base delle priorità presentate dalla Commissione l’11 dicembre, le cittadine e i cittadini europei dovrebbero partecipare al processo decisionale sulla base della Convenzione di Aarhus che, alla data del novembre 2019, è stata ratificata da 46 Stati e dall’Unione europea (e dall’Italia con la Legge 108 del 16 marzo 2001) e per la cui violazione la Commissione europea è stata già condannata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Per Commissione e Parlamento europeo agire coinvolgendo la società civile sul bilancio europeo sarebbe il modo migliore per avviare la preparazione della Conferenza europea sul futuro dell’Europa.
Perché è difficile eleggere i vertici delle istituzioni europee
Il negoziato per la definizione dei vertici delle istituzioni europee è molto complicato, come vediamo in queste ore. Ciò dipende dai contrasti politici tra gli stati e gli schieramenti, ma anche dalle farraginosità e dalle contraddizioni del metodo che si è andato consolidando. Vediamo come e perché.
La procedura di formazione della Commissione europea è stata modificata nel corso degli ultimi venticinque anni, a partire dal Trattato di Maastricht, con un rafforzamento parallelo dei poteri del suo Presidente e del ruolo del Parlamento europeo a cui i trattati di Roma avevano attribuito – anche dopo la sua elezione diretta nel 1979 – il solo ruolo negativo di costringere l’intero collegio a dimettersi se l’Assemblea avesse adottato una mozione di censura.
Il Trattato di Lisbona
Con il Trattato di Lisbona, che riconosce il fatto che l’Unione è una organizzazione sui generis, di Stati e di cittadini è stato stabilito che a partire dal 2014:
- Il Consiglio europeo – tenuto conto delle elezioni europee e dopo aver effettuato delle consultazioni appropriate (senza precisare con chi) – propone al PE un candidato alla presidenza della Commissione decidendo a maggioranza “super-qualificata”, che non si applica alle decisioni legislative dove vale il calcolo della maggioranza qualificata ma si applica invece all’elezione del Presidente del Consiglio europeo, alla nomina dell’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, all’adozione di sanzioni contro un paese membro che viola lo stato di diritto e al passaggio dal voto all’unanimità a quello a maggioranza in particolare nella PESC. In una Unione a 28 la maggioranza super-qualificata richiede il voto favorevole di 21 paesi membri che rappresentano il 65 % dell’insieme della popolazione europea e cioè almeno 334 milioni di cittadini. A contrario, una minoranza di bloccaggio deve riunire almeno otto paesi che rappresentino 179 milioni di cittadini con l’obiettivo di escludere sia una minoranza di bloccaggio dei quattro-cinque grandi (Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna) che un’alleanza dei “piccoli”. Secondo questi calcoli i paesi di Visegrad non possono riunire una minoranza di bloccaggio anche nel caso in cui ad essi si associasse l’attuale governo italiano.
- Il Presidente della Commissione proposto dal Consiglio europeo deve essere eletto dal PE con la maggioranza dei suoi membri (376 in una Unione a 28). Nel caso in cui la sua candidatura fosse respinta, il Consiglio europeo avrebbe un mese di tempo per proporre un nuovo candidato secondo la stessa procedura. Il Trattato non prevede nessuna soluzione nel caso di un prolungato braccio di ferro fra Consiglio e Parlamento anche se, nel corso delle molte riflessioni sulle riforme istituzionali qualcuno aveva lanciato l’idea di uno scioglimento anticipato del PE senza essere capace di indicare l’autorità europea incaricata di scioglierlo.
I membri della Commissione
- La lista dei membri della Commissione è adottata dal Consiglio (a maggioranza semplice) di comune accordo con il Presidente della Commissione eletto che si sottopone con i suoi colleghi al voto di fiducia del PE (alla maggioranza dei voti espressi) prima della nomina di tutto il collegio da parte del Consiglio europeo a maggioranza super-qualificata. Durante i lavori della Convenzione sulla Costituzione europea era stata avanzata l’idea che ogni governo avrebbe dovuto offrire al Presidente eletto una rosa di nomi (nel rispetto dell’equilibrio di genere) lasciandogli il potere di scegliere i suoi commissari in ragione della loro competenza, del loro impegno europeo e delle loro garanzie di indipendenza ma il Trattato di Lisbona ha mantenuto i criteri eliminando la “rosa” così come la Costituzione europea aveva previsto una composizione della Commissione corrispondente ai 2/3 degli Stati membri con un principio che è rimasto nella lettera del Trattato ma che è stato accantonato dal Consiglio su richiesta del governo irlandese.
- Da notare il fatto, previsto dal regolamento del PE ma non dal Trattato, che i singoli commissari devono passare attraverso delle rigorose audizioni davanti alle commissione parlamentari competenti per i “portafogli” che saranno loro attribuiti su scelta autonoma del Presidente della Commissione e che il voto negativo di una commissione costringe di fatto il Presidente a scegliere un altro commissario dello stesso paese o a proporre un altro “portafoglio”.
Come si vede la procedura è molto complicata e presenta vistose contraddizioni sui sistemi di voto nei vari passaggi e con equilibri politici, geografici e geopolitici facilmente superabili in un quadro interistituzionale coerente ma che rischia di paralizzarsi di fronte alla frammentazione emersa dalle elezioni del 26 maggio.
Gli Spitzenkandidaten
A queste complicazioni si è aggiunto il metodo degli Spitzenkandidaten immaginato dai partiti europei nel 2014 che , contrariamente a quel che pensava qualcuno, non ha rafforzato la democrazia parlamentare ma ha creato una graduale conflittualità fra un sistema di partiti europei ancora embrionale e il sistema di potere dei governi che si è consolidato con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
Nel 2014 la conflittualità è rimasta latente perché ha funzionato nel Consiglio europeo e fra i partiti la “grande coalizione” europea fra popolari e socialdemocratici che per vent’anni hanno ottenuto la maggioranza assoluta nel Parlamento europeo. La conflittualità è esplosa a vari livelli (fra i partiti, nel Parlamento europeo, fra i governi, all’interno dei governi di coalizione) aprendo la via ad una potenziale paralisi interistituzionale che può essere risolta o consolidando il sistema intergovernativo consacrato di fatto con il Trattato di Lisbona o procedendo sulla via di un governo parlamentare che, per sua natura, dovrà avere inevitabilmente poteri federali.
In ordine sparso
l'assalto a Bruxelles
delle truppe sovraniste
Fra poche ore sapremo quale sarà il peso politico dei nazionalisti nel Parlamento europeo che, essendo stati per decenni forze politiche marginali in alcuni paesi membri, sono ormai presenti in quasi tutta l’Unione da Lisbona a Varsavia, da Helsinki ad Atene.
Sono stati definiti spesso populisti o sovranisti ma l’espressione che più si addice loro è quella di nazionalisti poiché quello che li accomuna è la loro volontà di difendere lo stato-nazione o meglio i suoi cittadini (“prima gli italiani” ma anche “prima gli ungheresi” o i polacchi o i cechi o i tedeschi e via di questo passo per tutti i ventotto popoli europei) dai vincoli – ritenuti insopportabili - imposti da un’organizzazione sovranazionale considerata senza legittimità democratica ma anche dalle prevaricazioni degli altri stati-nazione.
Alla rinascita delle frontiere interne fra i paesi membri si accompagna anche la richiesta di blindare le frontiere esterne per impedire l’invasione di prodotti e migranti difendendo così nello stesso tempo le industrie e le identità nazionali.
Come avviene per la corrente di pensiero europeista nella quale occorre distinguere gli orientamenti moderati o conservatori di chi difende l’UE nel suo stato attuale - con le istituzioni consolidate nel Trattato di Lisbona (2009) e le politiche di austerità rappresentate dal Fiscal Compact (2013) – dalla cultura federalista che sostiene la necessità di sovranità condivise nel quadro di una democrazia europea multilivello, così fra i nazionalisti occorre distinguere fra chi sostiene l’idea di un’Europa intergovernativa nella quale prevalga la difesa degli interessi nazionali e la posizione di chi è contrario in se al progetto di integrazione europea.
Le tesi dei movimenti nazionali che difendono la necessità di tornare alla priorità degli Stati-nazione non è fondata perché:
- le differenze fra gli Stati nazionali non sono state eliminate e le nazioni non sono morte, il primato della Germania non ha imposto il tedesco lasciando l’egemonia all’inglese internazionale in una lingua franca che rimarrà anche dopo il Brexit mentre la Torre di Babele dell’UE continuerà a garantire le culture nazionali
- gli Stati nazionali non si sono smembrati, la Lega Nord è diventata Lega nazionale e gli indipendentisti catalani si siedono ora al tavolo del negoziato con il nuovo governo socialista di Pedro Sanchez
- i parlamenti nazionali hanno recuperato parte dei loro poteri con il Trattato di Lisbona mentre non è nato un “macroscopico progetto di potere”, i governi nazionali non sono stati eliminati, non hanno perso di importanza ed è l’ectoplasma del “governo europeo” (la Commissione Juncker) che è diventato esecutore dei governi nazionali
- il pluralismo non è stato negato e gli indirizzi comuni nella sanità, nell’istruzione, nella cultura e nella ricerca sono passati dai tentativi (falliti) di armonizzazione al mutuo riconoscimento. Quel che è buono in un paese è buono anche negli altri anche se non tutto viene accettato da mercati diversi
- la cittadinanza europea non ha sostituito le cittadinanze nazionali (si è cittadini europei se si è cittadini di uno Stato membro) ma ha aggiunto a esse diritti comuni che sono stati consolidati nella Carta europea dei diritti fondamentali. Secondo l’interpretazione della Corte costituzionale italiana (la teoria dei contro limiti”) se una costituzione nazionale garantisce un livello di diritti superiore a quello della Carta, prevale la costituzione nazionale.
Vale ancora in questo quadro la nota “linea di divisione” – proposta dal Manifesto di Ventotene nel 1941 “fra partiti progressisti e partiti reazionari” che “cade ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale….e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e che, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale”?
Alla luce di quel che sta avvenendo nell’Unione europea quell’affermazione deve essere rivista e aggiornata per tre ragioni fondamentali:
- i nazionalisti intendono conquistare il potere non solo a livello nazionale ma anche nelle istituzioni sovranazionali per cambiare (rivoluzionare, dicono alcuni di loro) l’Unione europea dal suo interno
- il tema della democrazia o meglio di “quale democrazia?” è diventato centrale se si tiene conto delle ripetute violazioni dello stato di diritto, del fatto che nuovi partiti nazionalisti si proclamano “veri democratici” (in Svezia, nei Paesi Bassi) e infine della necessità di garantire a livello europeo nuove forme di democrazia partecipativa che completino e arricchiscano quella rappresentativa
- il progresso economico o meglio la riduzione delle diseguaglianze appaiono prioritari per ricostruire quella rete di consensi e di corpi intermedi essenziali al salto in avanti verso una Comunità federale.
Fra poco conosceremo dunque il peso dei nazionalisti nel futuro Parlamento europeo ma possiamo già fare delle previsioni alla vigilia del voto. Essi si presenteranno divisi nell’emiciclo come lo sono stati nella legislatura che si sta chiudendo in tre o quattro gruppi che comprenderanno le destre radicali di Marine Le Pen e Matteo Salvini, la nuova ed eterogenea famiglia politica formata su iniziativa del Movimento 5 Stelle, il gruppo conservatore di orientamento gollista (a cui apparteranno i deputati di Fratelli d’Italia), e il gruppo dell’Europa delle Nazioni controllato dal brexiter Farage, questi ultimi due destinati a ridursi o a scomparire se il Regno Unito (con i suoi deputati) uscirà dall’Unione il 31 ottobre.
Una cosa è certa: la polvere delle polemiche nazionali (che hanno contraddistinto alcune campagne elettorali nazionali come quella – mediocre e fuorviante – italiana) si poserà nel giro di poche settimane per lasciare il posto a scelte transnazionali mettendo in evidenza che si è trattato di elezioni europee e non di una somma di elezioni nazionali per eleggere un parlamento europeo e non una assemblea composta da delegazioni nazionali.
Poiché sarà impossibile ricostituire la “grande” coalizione fra popolari e socialdemocratici perché essi non avranno più insieme la maggioranza assoluta dell’assemblea e perché il solco fra i due gruppi è diventato più ampio, si dovranno costruire alleanze diverse e più vaste con tre varianti: una maggioranza di centrodestra del PPE con i nazionalisti (modello bulgaro), una maggioranza di centrosinistra con i socialdemocratici insieme alle sinistre e ai Verdi (modello iberico) o – probabilmente – una grande alleanza di europeisti che escluda le ali estreme dei popolari (gli ungheresi), dei socialdemocratici (i rumeni), dei liberali (i cechi) coinvolgendo i Verdi che saranno probabilmente i veri vincitori di questa tornata elettorale.
La coesione e la coerenza all’interno di questa alleanza saranno determinanti nello scontro con il Consiglio europeo per la formazione della nuova Commissione a cominciare dalla scelta del suo Presidente secondo il metodo degli Spitzenkandidaten (che non vuol dire accettare a scatola chiusa il candidato del partito di maggioranza relativa ma il candidato che raccoglierà intorno al suo nome la maggioranza assoluta dei deputati europei) o un metodo tutto nuovo di un accordo all’interno dell’alleanza su una figura “terza” da indicare al Consiglio.
La coesione e la coerenza all’interno di questa alleanza saranno infine determinanti per garantire la coerenza e la coesione all’interno della nuova Commissione: così come avviene nella formazione di un governo nazionale l’alleanza dovrebbe opporsi alla nomina di commissari appartenenti a partiti nazionali (=nazionalisti) che non fanno parte dell’alleanza sfruttando la procedura delle audizioni instaurata dal 1999 che consente al PE di respingere una singola candidatura chiedendo al Presidente della Commissione di sostituirla con un nuovo candidato.
Pier Virgilio Dastoli
Lo strappo polacco
richiede più Europa
Il progetto di trattato che istituisce l’Unione europea (“progetto Spinelli”) aveva iscritto – fin dal suo preambolo – la preminenza del diritto dell’Unione sui diritti nazionali, considerandola come una condizione indispensabile per garantire nello stesso tempo l’uguaglianza delle cittadine e dei cittadini europei davanti alla legge (europea) e l’uguaglianza fra gli Stati che avrebbero composto la futura Unione.
Vale la pena di ricordare che nell’ordine di priorità delle istituzioni previste dal “progetto Spinelli” la Corte di Giustizia precedeva il Consiglio europeo e che i giudici europei avrebbero dovuto essere nominati per metà dal Parlamento europeo e per metà dal Consiglio dell’Unione e dunque con una doppia “delega” da parte dei rappresentanti degli elettori e degli Stati e non una delega “di primo livello” dei soli rappresentanti degli Stati all’interno del Consiglio.
La logica del primato del diritto dell’Unione ribadita dalla Corte prima e dal “progetto Spinelli” poi si fonda sul fatto che i trattati sono approvati democraticamente dagli Stati o per via parlamentare o per via referendaria, che le leggi europee (regolamenti o direttive, di cui i primi sono direttamente applicabili negli Stati membri) sono sempre approvate dagli Stati membri e che con il “progetto Spinelli” il processo decisionale europeo si sarebbe fortemente rafforzato dal punto di vista democratico perché il Parlamento europeo sarebbe diventato autorità legislativa su un piede di uguaglianza con il Consiglio legiferando insieme agli Stati sulla base delle proposte della Commissione o sostituendosi ad essa nel caso di una sua carenza.
Sotto la spinta del “progetto Spinelli” il Parlamento europeo legifera ormai insieme al Consiglio in una progressione che lo ha condotto – dall’Atto Unico fino al Trattato di Lisbona – ad acquisire poteri di decisione che coprono più del 60% delle competenze dell’Unione in una democrazia sopranazionale ancora incompiuta ma certo più sostanziale di quello che avviene nel diritto internazionale.
Nella Convenzione sull’avvenire dell’Europa (2001-2003), il progetto di trattato-costituzionale approvato da rappresentanti dei governi e dei parlamenti non solo dei paesi membri dell’Unione europea a 15 ma anche dei paesi candidati all’adesione ivi compresi quelli del Gruppo di Visegrad conteneva un articolo 6 che codificava la giurisprudenza della Corte sul primato del diritto dell’Unione all’interno di un progetto ben lontano dall’obiettivo di uno “stato federale” che sarebbe stato invece il risultato dell’entrata in vigore del “progetto Spinelli” fra gli Stati e i popoli che lo avessero accettato.
Come sappiamo il progetto di trattato-costituzionale approvato dalla Convenzione sull’avvenire dell’Europa fu prima annacquato dai governi nazionali che lo sottoposero alle ratifiche nazionali e, dopo i referendum negativi in Francia e Paesi Bassi, fu tradotto nel Trattato di Lisbona da cui furono eliminati tutti i riferimenti di natura costituzionale.
Contrariamente ad una opinione diffusa nella stampa, la mancata entrata in vigore del progetto di Trattato-costituzionale non rappresentò il fallimento dell’obiettivo dello “stato federale” ma la sconfitta dei governi che decisero di tradire il testo originale trasformandolo in un mostro giuridico sotto forma di centauro metà uomo (il trattato costituzionale) e metà capra (i trattati esistenti) e che fu definito da Giuliano Amato un ermafrodito.
Pur non “costituzionalizzando” il primato del diritto dell’Unione, tutti i governi che sottoscrissero il Trattato di Lisbona, fra cui i paesi di Visegrad, firmarono una dichiarazione (n° 17) nella quale si confermava la costante interpretazione della Corte di Giustizia sul primato del diritto dell’Unione peraltro condivisa da un parere del Servizio Giuridico del Consiglio secondo cui “il primato del diritto comunitario è un principio fondamentale di questo diritto”.
L’interpretazione delle Corti costituzionali nazionali sulla questione dì tale primato non solo sul diritto “infra-costituzionale” ma sulle costituzioni nazionali è stata inizialmente non univoca perché in Irlanda e nei Paesi Bassi è stato riconosciuto il primato del diritto comunitario anche in relazione alle costituzionali nazionali mentre in Italia con la teoria dei “contro-limiti” (sentenza Frontini del 1973 e Fragd del 1989) e in Germania con le decisioni Solange del 1974, del 1986 e del 2000 per non citare il Consiglio costituzionale francese c’è stato un iniziale rifiuto di riconoscere la prevalenza del diritto dell’Unione sulle costituzioni nazionali.
Negli ultimi anni, anche grazie al dialogo fra le Corti ma anche alle modifiche introdotte nelle costituzioni nazionali per adattarle ai trattati europei, abbiamo assistito ad una sostanziale evoluzione di un sistema giudiziario multilivello in cui anche i giudici nazionali sono diventati….europei, l’autorità della Corte di Giustizia non è più messa in discussione ed è soprattutto riconosciuta dagli Stati come è avvenuto da parte del governo federale tedesco quando il Tribunale di Karlsruhe pose la questione di una decisione ultra vires della Corte di Giustizia sulla politica della BCE.
Abbiamo sperimentato l’inefficacia dell’art 7 TUE che affida al Consiglio europeo secondo una decisione unanime il compito di constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori comuni così come conosciamo l’effetto marginale del ricorso della Commissione contro uno Stato membro sulla base dell’art. 258 TFUE, sapendo che la Commissione è spesso lasciata sola perché gli altri Stati intervengono raramente ad adiuvandum sulla base dell’art. 259 TFUE.
Conosciamo infine l’ambiguità della cosiddetta “condizionalità” sul rispetto dello stato di diritto che imporrebbe alla Commissione di bloccare i fondi europei e in particolare il NGEU ma la Commissione ha fatto sapere al Parlamento europeo che essa intende aspettare la decisione della Corte di Giustizia sui ricorsi polacco e ungherese, una decisione che arriverà fra molti mesi e il suo esito – se ci dovessimo basare sull’udienza pubblica del 19 ottobre non appare scontato.
La vicenda polacca ha messo ancora una volta in luce l’ambiguità e il malessere del sistema europeo – denunciati con grottesco ritardo dalla ormai ex-cancelliera Angela Merkel all’uscita dal suo 107mo Consiglio europeo.
A noi è sembrato fin dall’inizio un grave errore non aver voluto invitare al tavolo della Conferenza sul futuro dell’Europa la Corte di Giustizia e crediamo che il Comitato esecutivo, i tre co-presidenti e i presidenti delle tre istituzioni debbano rapidamente invitare la Corte a partecipare al Gruppo di Lavoro sulla democrazia e alla sessione plenaria di dicembre.
A monte, deve essere risolta l’ambiguità di un sistema inizialmente fondato sul metodo comunitario, sottoposto poi ai vincoli e alle strettoie del metodo intergovernativo con il Trattato di Lisbona e sempre più lontano dalla finalità federale del processo di integrazione europea.
La via da percorrere non è quella di Polexit ma di una fase costituente che eviti l’ostacolo del negoziato intergovernativo per modificare questo o quell’articolo dei trattati e che abba come finalità quella di riunire in un insieme coerente le norme costituzionali relative agli obiettivi, alla ripartizione delle competenze, alle procedure e alle politiche dell’Unione sostituendo l’intero Trattato di Lisbona e sottoponendo il nuovo Trattato ad un referendum pan-europeo in occasione delle elezioni nel maggio 2024.
Sarano le cittadine e i cittadini europei a decidere se vorranno o non vorranno entrare nella nuova Unione.
Pier Virgilio Dastoli è presidente del Movimento Europeo Italia
di Pier Virgilio Dastoli