La app Immuni rischia
di diventare
un'occasione perduta
L’app Immuni è la dimostrazione di come vincoli ideologici superati dalla realtà dei fatti da tempo (e senza che ne sia seguito un ripensamento che ridefinisca il mondo dei diritti individuali e collettivi alla rivoluzione della potenza di calcolo) possano rendere una idea di grandi potenzialità pressoché completamente inutile e perfino politicamente controproducente.
Si è scelto di limitare i dati raccolti, di tenere ferma la volontarietà, di affidare a Sogei la parte informatica, di caratterizzarla come un servizio altamente decentrato e anonimo, privo di geo localizzazione. Con tutte queste premesse, il giudizio di Confindustria di considerarla uno strumento inutile è perfettamente condivisibile.
Eppure poteva essere uno strumento formidabile sulla cui base mappare e individuare i contagiati al fine di controllare il contagio lasciando liberi tutti gli altri.
Inoltre si potevano trarre indicazioni predittive sulla epidemia e usarla come uno degli elementi sui quali costruire un moderno sistema di tracciamento e raccolta dei dati sanitari a livello centrale dal quale trarre fondamentali indicazioni di gestione e organizzazione sanitaria nonché indicazioni predittive di nuove pandemie.
Il ruolo del ministero della sanità
Bisognava che il centro di organizzazione fosse identificato nel Ministero della sanità e, stabilita la riservatezza assoluta individuale dei dati, elaborare tali dati in forma anonima per la gestione sanitaria. Si poteva almeno non limitare i dati raccolti con la scusa della privacy e lasciare la volontarietà. Almeno avremmo avuto un sistema limitatamente efficace ma non inutile invece si è agito in entrambe le limitazioni.
Il Ministero della sanità ha perso la sua più importante battaglia e il paese pagherà un prezzo altissimo a questa scelta. Prezzo in termini di salute pubblica e di riorganizzazione e ripartenza economica. E infine anche di diritti e libertà individuale.
Verso l'immunità di gregge
Dunque si riparte come prima con qualche terapia intensiva in più e i consigli sanitari della nonna. Una sconfitta che qualcuno sarà chiamato a pagare. Di fatto si scivola verso la linea dell’immunità di gregge via infezione che facilmente dilagherà, senza poter utilizzare tutte le possibilità di controllo, seppure con velocità mitigata.
Insomma il coronavirus ha stravolto con forza rivoluzionaria le nostre vite e il sistema economico ma, al momento, la sostanza dei provvedimenti presi è quella finalizzata alla mitigazione del contagio e al sostegno caritatevole del disagio economico. Due vie non sostenibili a lungo.
I vari strati sociali e classi sono scesi in campo con loro ricette. La destra chiede soldi a fondo perduto in quantità illimitata e libertà di riprendere l’attività. A chi obbietta che l’intervento dello stato, resosi necessario inevitabilmente, debba porsi finalità fissate collettivamente, la destra risponde che l’economia e la sua direzione privata non si toccano. Né tanto meno le proprietà e i patrimoni.
Il piano di Prodi
Un po’ più a sinistra, (ma non tanto) uno come Prodi indica in un piano pubblico di investimenti infrastrutturali la prima condizione per un rilancio, ma poi riconosce che lo stato non deve tornare a gestire in economia e aziende, deve limitarsi a finanziare, e a partecipazioni azionarie di minoranza e vigilare, al massimo, sui passaggi di proprietà. A tal fine, l’ex presidente dell’Iri ritiene che basti il ruolo della Cassa depositi e prestiti. E ha ragione.
Piccolo è bello

Se lo scopo è quello da lui indicato. Prodi riconosce che “il piccolo è bello” è messo in crisi contemporaneamente dalla riconversione che la Germania apre con la discesa in campo di una grande mole di investimenti pubblici e dai processi di modernizzazione tecnologica aperti dallo sviluppo delle tecnologie basate sulla potenza di calcolo.
Ma basta una politica di finanziamenti finalizzata a accorpamenti di filiere per superare questa arretratezza che tiene inchiodata la produttività italiana? In sopraggiunta si rafforzino i percorsi formativi e di management.
Le varie ricette del sindacato
I sindacati oscillano fra vari mix di ricette con più a sinistra la Cgil che parla di ritorno dello stato e di piani pubblici e privati di investimento.
Landini chiede al governo un piano di investimenti e sembra puntare anche lui sul ruolo della Cassa depositi e prestiti.
Colpisce che neanche la Cgil ponga con chiarezza la questione e sciolga nodi: se ruolo dello stato deve esserci allora deve essere anche gestionale e non solo regolativo.
Senza saper gestire figuriamoci che sapere regolativo può esserci. Va detto con determinatezza e precisione: e dunque serve una Agenzia a ciò finalizzata composta da persone competenti in strategie e gestione industriali ed economiche innovative in particolare.
Una scuola pubblica di management
Non una Gepi ma una Iri. Non la Cassa depositi e prestiti. Serve una scuola pubblica di management , risorse stanziate, poteri di investimento, scelta dei settori strategici.
Serve un Centro Strategico finalizzato al perseguimento dell’ammodernamento e del ridisegno economico e produttivo del paese. Per le aziende in crisi altri percorsi, se non rientranti nei piani strategici. Ciò al fine di non scaricare su questa agenzia compiti classicamente assistenziali. Serve inoltre il ritorno della proprietà pubblica nei settori a monopolio naturale. Autostrade per tutti. Morandi Docet.
Una adeguata cabina di regia
Insomma quello che la Mazzucato propone non si può fare senza la creazione di una adeguata e strutturata cabina di regia e gestione.
Più a sinistra grande è la confusione sotto il cielo. Con poche idee di come ammodernare il paese. E con che risorse. Tutti comunque ad escludere patrimoniali. Altri nodi sono da sciogliere. È possibile dopo il coronavirus, e la voragine nei conti che si apre, continuare con difesa delle pensioni pubbliche e insieme il rafforzamento di quelle integrative? Con la Sanità pubblica e i fondi sanitari integrativi,per di più esentasse? Con la scuola pubblica e le scuole paritarie? Con il modello attuale delle Rsa?

Una sinistra spiazzata
In generale il mondo della sinistra sfidato dal coronavirus ha dimostrato un enorme spiazzamento. Lo stesso che deriva dal non aver compreso l’altra decisiva rivoluzione avvenuta: quella nella potenza di calcolo e delle possibilità che apre a ridefinizioni su tutti i campi, a partire dal campo dei diritti sociali e politici. Quando parlano alcuni leader sindacali e della sinistra, anche quelli più vicini, sembra di sentire amministratori di condominio con il problema di rifare il tetto distrutto dalla caduta di un grosso meteorite. Problema certo grave, ma dalla conseguenze definite.
Invece noi pensiamo che niente, o quasi, sarà più come prima. E già prima avevamo problemi giganteschi. Il mix coronavirus, mitigazione distanziamento, potenza di calcolo, comporterà che tutto ciò che potrà essere reso immateriale lo sarà.
E con accelerazione quasi istantanea.
Sui luoghi di lavoro il controllo sanitario, necessario come condizione stesso del produrre, e che il protocollo governo sindacati relega di fatto ai rapporti fra le parti sociali, e al medico aziendale, ridisegna i diritti dei lavoratori e porta al confine sottile del controllo sul lavoro.
Filiere produttive a rischio
Che il sindacato non abbia saputo dire niente sul destino dell’app Immuni, anzi che abbia fatto introiettato proprio l’ideologia dei giganti del web, è il segno della sua incomprensione dei tempi. Lo stesso mix distrugge già intere filiere produttive e ne riposiziona e ne riorganizza altre.
La pubblica amministrazione, la giustizia, i vari servizi, dovranno riorganizzarsi alla luce della potenza di calcolo a velocità formidabile pena la crisi verticale del paese.
La regionalizzazione della Sanità, a fronte dei problemi pandemici, si rivela totalmente inadeguata e superata. Si pensi ad esempio alla proposta di riportare il servizio dei medici di base sotto il servizio sanitario nazionale.
Come cambia il mondo del lavoro
La diffusione, per molta parte irreversibile, dello smart working e la sua dimensione seppelliscono definitivamente il modello sindacale basato sulle categorie merceologiche di novecentesca memoria e riportano il territorio, e i diritti universali del lavoro, al centro. Come si definisce ad esempio l’orario di lavoro, l’intensità, e gli altri aspetti della condizione di lavoro per questi lavoratori?
La stessa divisione fra lavoro dipendente e lavoro autonomo subisce una drastica ridefinizione e apre il problema di come costruire diritti garantiti anche a chi formalmente lavoratore dipendente non è. Prendiamo poi tutti i servizi. Negozi, bar, ristoranti, turismo ecc., queste categorie hanno davanti una situazione drammatica.
Per almeno due anni, ben che vada, non potranno tornare alla situazione preesistente. Molti spariranno. Intere filiere di rendita urbana, affitti da capogiro per locali usati da questi servizi, non sono più pagabili. Eppure i proprietari possono ricattare l’esercente pretendendo il rispetto dei contratti di affitto. Stessa situazione per gli studenti universitari, o per tanti cittadini comuni soprattutto nelle città.
I contratti di affitto
Qualcuno ha rivendicato il bonus affitto. Sembra anche il Sunia. È del tutto evidente che andrebbe fatta una norma che legittimi la rinegoziazione e la decadenza di questi contratti. La rendita urbana non può continuare a spese dello stato.
Eppure a sinistra nessuno ne parla.
E si lascia che la rabbia di queste categorie sociali monti fino alla creazione di un pericolo reazionario di massa.
L'app del piccolo commercio
Colpisce che nessuno a sinistra abbia colto come straordinaria la proposta avanzata da una associazione del commercio che prevede la costruzione di una App pubblica per permettere al piccolo commercio e a molti servizi di continuare a lavorare e non essere cancellati dalla potenza di fuoco di Amazon.
Proposta straordinaria dal costo bassissimo. Realizzarla darebbe vitalità a un settore di prossimità che potrebbe competere con i giganti Free Tax della rete.
Dopo un periodo iniziale totalmente gratuito a sostegno del settore si potrebbe perfino liberare il commercio da ogni contabilità fiscale, sostituita da una percentuale sull’uso della App. Cose che non costano niente, che rendono amico lo Stato, che aprono contraddizioni nella base sociale della destra, ma che la sinistra non vede. Deriva da qui una ultima considerazione.
Il domani determinato dall'oggi
La sinistra, quando va bene, pensa in termini di politiche industriali. È sempre più evidente che bisogna pensare a un ruolo dello Stato nelle piattaforme. Il domani sarà determinato dall’adesso.
Il ronzino della Storia - direbbe Mayakowskj - ha cambiato natura: si è trasformato in un purosangue.
Sfratti, occupazioni, sgomberi e fragilità sociali: Roma e il diritto negato all'abitare
Gianni per il momento è salvo, è stato nominato custode dello scantinato di proprietà comunale che occupa dal 1978 e lo sfratto esecutivo è rinviato, ha 80 anni e vi abita con la moglie. Se ne riparla fra sei mesi, quell’occupazione di 40 anni fa gli è costata una condanna penale contraddittoria fin nelle parole della sentenza: lo scantinato, infatti, non è destinato a uso abitativo ma per il giudice l’occupazione abusiva ha danneggiato chi è in attesa di un alloggio sociale. A Roma, in via Carlo Felice l’immobile è occupato da 24 famiglie, circa 90 persone. Si sta trattando, grazie all’impegno dell’assessore regionale Massimiliano Valeriani che vorrebbe mettere a punto un modello che eviti di lasciare la gente per strada: proprietà, comune, regione, dovrebbero mettere ciascuno alcuni alloggi del patrimonio disponibile per dare ricovero temporaneo agli occupanti del palazzo di Banca d’Italia, una occupazione vecchia di 14 anni. L’80 per cento degli occupanti ha diritto alla casa popolare, un diritto certificato dalla domanda accolta. Le assegnazioni, però, vanno a rilento, a Roma 500 l’anno a fronte di 12mila in lista di attesa. Un numero insufficiente ma il dato è migliore rispetto a qualche anno fa.
Nelle occupazioni si sommano fragilità diverse, L. che sta lì con la figlia ha il marito in carcere, R. è una bellissima persona, un poeta, ma ha problemi con l’alcol, F. è disoccupato. Poi ci sono i separati, italiani e immigrati, che hanno lasciato a moglie e figli la casa e non riescono a pagare un’altra pigione. E gli sfrattati: si calcola che circa il 40 per cento delle morosità incolpevoli finiscano nelle occupazioni. Non tutte le occupazioni sono uguali, in alcune si accumula disperazione, in altre si organizza la progettualità. L’esempio progettuale più famoso a Roma è quello di Santa Croce, un enorme palazzo dell’Inpdap (ora Inps), 130 nuclei familiari, roba da far tremare le vene ai polsi ma c’è la sorveglianza fatta dagli stessi abitanti, i turni per le pulizie, lo sportello dei medici senza camice, le vaccinazioni, lo sportello della tutela sociale, la distribuzione dei pacchi alimentari ai poveri, soprattutto c’è Spin time labs: l’attività culturale nell’auditorium, gli street artist, i concerti, la redazione di Scomodo, la scuola popolare e doposcuola, c’è l’osteria e c’è il birrificio, la biblioteca e la palestra. È allo studio un progetto di rigenerazione, dare casa senza consumare suolo, dell’università Roma Tre e il coinvolgimento degli abitanti.
La stretta di Salvini sugli sgomberi plana su realtà diverse, su domande diverse di diritto all’abitare. Ma, se in alcune realtà si esprime progettualità, cassa comune per le utenze, fondo extra per le riparazioni, apertura al quartiere con le attività culturali, e in altre c’è tanta problematicità, come nella baraccopoli della ex fabbrica di penicillina - sulla via Tiburtina - l’umanità che incontri, migranti o autoctoni, è un’umanità in difficoltà vera, ovunque.
Un’emergenza che dura da quasi vent’anni, dice l’architetto Enrico Puccini, che è un appassionato specialista in materia (vedi osservatoriocasa.com) non è emergenza sociale ma emergenza politica e amministrativa.
Emiliano Monteverde, assessore al sociale del Municipio I riflette sull’ambiguità delle campagne di sgombero: “Si gioca sull’equivoco, quelli di cui stiamo parlando non sono immobili residenziali, mentre si deve essere rigorosi con chi occupa senza titolo una casa residenziale del patrimonio pubblico, in questi casi si tratta di trovare una soluzione”. Ci sono stati casi di assegnazione della casa popolare per gli occupanti che hanno trovato nell’appartamento assegnato degli abusivi. Noto quello di una signora molto anziana proveniente da un’occupazione che, ottenuta la casa popolare, ha fatto arrestare gli abusivi trovati a casa sua.
Emiliano Guarnieri, del Sunia Roma, mette in evidenza un’altra ambiguità: “A Roma ci sono 7mila sfratti esecutivi l’anno - 10mila gli sfratti esecutivi pendenti - e la componente di gran lunga più numerosa deriva da morosità incolpevole: una malattia, la morte di un coniuge, la perdita del lavoro, sono tutti fattori che possono far precipitare la situazione di una famiglia che precedentemente non stava male”.
Se si raffrontano i dati italiani con quelli di altri paesi europei si vedrà che in Germania, ad esempio, la percentuale di case agevolate è superiore. Ma in questi paesi, spiega Guarnieri, nel calcolo c’è anche l’housing sociale che da noi non riesce a decollare. “Una volta questo segmento degli affitti a prezzi calmierati era coperto dagli immobili degli Enti e delle Casse. Con le cartolarizzazioni questa copertura è sostanzialmente venuto meno”. Un deficit che impedisce di prevenire gli sfratti e quindi le occupazioni.
Il paradosso, spiega Enrico Puccini, è che in teoria ci sono gli immobili e ci sono abbastanza soldi (non quanto necessario ma non si riesce a spendere nemmeno quello che c’è) per affrontare i numeri non elevatissimi del disagio abitativo. Ma una serie di rigidità legislative e burocratiche impedisce di mettere insieme i pezzi del puzzle. Sono 71mila gli immobili Erp (edilizia residenziale popolare) a Roma fra proprietà Ater e Campidoglio, può sembrare poco rispetto al patrimonio immobiliare complessivo della città ma si tratta di quasi un terzo del mercato degli affitti, 250mila circa. Purtroppo una parte del patrimonio delle case popolari – 15mila circa - è occupato da abusivi e, soprattutto, da decaduti: persone che per reddito non avrebbero più diritto alla casa popolare.
Un segnale della volontà di aggredire il fenomeno degli abusivi è dato dall’inchiesta della magistratura che ha portato all’arresto di sei persone che prendevano mazzette nel mercato illegale di abitazioni e negozi, un’inchiesta partita nel 2015 su impulso dell’assessora Francesca Danese della giunta Marino.
Più complesso il fenomeno dei decaduti, la maggior parte di coloro che abitano senza diritto nelle case popolari. A sfrattarli si aggraverebbe il problema sociale. Soprattutto, l’Ater ha concordato con loro un canone maggiorato. Questo canone costituisce il 48 per cento del bilancio dell’ente che è un ente economico e di cui sono note le difficoltà finanziarie, determinate soprattutto dal fatto che deve pagare l’Imu come multiproprietario al comune di Roma per immobili che affitta a 7 euro al mese. In che modo un ente che ha come finalità sociale quella di dare un tetto a chi non se lo può permettere possa essere un ente economico è questione che andrebbe studiata a fondo, forse anche, pensano al Sunia, riconoscendogli la funzione di una quota di affitti calmierati da housing sociale, per prevenire anziché rimediare la caduta all’inferno che comporta la morosità, lo sfratto, la perdita della casa.
Restando al tema degli immobili popolari, l’altro problema è la loro dimensione. La gran parte degli immobili edificati secondo la legge 167 rispecchia lo standard degli anni settanta di 5,5 componenti. Oggi la media è di 2,2 componenti per nucleo familiare. Se si ristrutturassero le abitazioni con un programma di frazionamenti, la disponibilità di alloggi raddoppierebbe e, fra l’altro, si eviterebbero episodi di guerra fra poveri. Recentemente a Corviale è stato assegnato un appartamento a una numerosa famiglia rom. C’è stato un levarsi di grida tipiche dei tempi che viviamo: “Date le case prima a loro che a noi”. Ma non è vero, semplicemente la legge non consente di assegnare a un pensionato solo o a una mamma single un appartamento sovradimensionato.
Veniamo alla questione dei soldi, nel 2015 la regione Lazio vara una legge per le politiche abitative a Roma, finanziata con 197 milioni di cui 40 sono la prima tranche. Soldi che il Campidoglio a 5stelle rispedisce al mittente perché considera il provvedimento illegittimo, in quanto fra i beneficiari ci sono gli occupanti dei movimenti per la casa (ma solo quelli che hanno fatto domanda e sono in graduatoria per le assegnazioni, circa l’80 per cento), ci sono 14 milioni risparmiati dalla dismissione dei residence durante la giunta Marino, 12 milioni da delibera comunale, 47 milioni per i frazionamenti nel patrimonio Erp in base alla legge Lupi del 2014. Ci sono anche una serie di sussidi per la morosità incolpevole o buoni casa ma i sussidi sono erogati da dipartimenti diversi del comune di Roma che fra loro non comunicano, sono rigidi e spesso non cumulabili. Queste rigidità non aiutano a risolvere i problemi concreti. Per esempio, la sacrosanta dismissione dei residence, che costano con le utenze circa 2mila euro al mese per nucleo familiare, è ostacolata dalle rigidità delle leggi per l’erogazione dei sussidi: i piccoli proprietari privati non si fidano a dare in affitto a chi esce dai residence, nonostante il vantaggio che potrebbe derivare dalla redistribuzione del reddito dai grandi immobiliaristi proprietari dei residence ai piccoli. Chi pagherà, infatti, il condominio, le utenze o l’avvocato se i patti non vengono rispettati?
Di qui la convinzione di Enrico Puccini che l’emergenza è politica e amministrativa visto che i numeri del disagio abitativo sono costanti e stabili da molti anni. L’ipotesi a cui diversi soggetti, dalla Regione Lazio ai sindacati degli inquilini, lavorano, è quella di uno sportello unico che possa modulare gli interventi sulle necessità diverse che scaturiscono da diverse fragilità.