Spegnere il braciere
La guerra è il grande choc. Che non sarà solo economico, ma sociale e demografico. Grandi masse si muoveranno da un posto all'altro. Le nostre società avranno un bisogno assoluto di iniezioni di denaro pubblico. I nuovi poveri si aggiungeranno alla moltitudine che già ora soffre. Questo può costituire il braciere delle prossime contestazioni di piazza. La nostra democrazia è fragile ed esposta alle intemperie dei settarismi e dei nuovi fascismi e razzismi. Bisogna spegnere quel braciere.
Jean Paul Fitoussi
Morire dentro
Possibile che l’uomo non abbia imparato niente? Ripete gli stessi errori, sempre gli stessi, è desolante, un dolore enorme per me che ho vissuto la guerra peggiore. Non capisco come si possa, ancora oggi, usare armi e uccidere il prossimo pensando di stare dalla parte di Dio. Anche per questo mandare armi per fermare armi non ha senso. Come si divide una patria con giustizia dopo averla conquistata morendo e uccidendo? Più si uccide più si muore dentro. C’è troppo sangue in mezzo.
Edith Bruck
Allarme nucleare, si rischia un disastro peggiore di Fukushima
Il 24 febbraio un brivido è corso lungo la schiena di noi europei alla notizia che erano in corso combattimenti intorno alla tragicamente nota ex centrale nucleare di Chernobyl, teatro del più grave disastro del nucleare civile. Combattimenti, con proiettili ed esplosioni intorno al sarcofago che copre tonnellate di uranio e plutonio sepolte nella ex centrale, la più potente e distruttiva delle bombe. Fino alla conquista del sito da parte delle forze russe.
Pensavamo ormai di averle viste tutte. Invece l’escalation è stata esponenziale. L'offensiva di Mosca non ha dato e non dà tregua, con bombardamenti e città sotto assedio anche durane le cosiddette trattative. E nella notte tra il 3 e il 4 marzo si è svolta la più spaventosa delle battaglie: quella per il controllo della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Non una qualunque centrale atomica ma la più grande d'Europa, la quinta al mondo, uno dei punti strategici più importanti dell'Ucraina. Sotto i colpi russi è scoppiato un incendio fuori dal perimetro della centrale, spento solo intorno alle sei del mattino. A bruciare sono stati un edificio e un laboratorio, le fiamme non hanno colpito strutture essenziali. Né, come precisato dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica, sono stati segnalati cambiamenti nei livelli di radiazioni. Almeno per ora. Ma dopo l'incendio i civili nel panico hanno assaltato la stazione dei treni per fuggire dalla città. L'allarme è talmente alto da spingerer il presidente Zelensky a un appello notturno in cui ha chiesto sanzioni più dure contro la Russia e ha convinto l'Onu a convocare un consiglio di sicurezza straordinario.

Il rischio di un grande disastro europeo
Per capire di cosa parliamo ci viene in aiuto un'analisi tecnica di Greenpeace International, secondo la quale “nello scenario peggiore, in caso di bombardamento accidentale o di un attacco deliberato a Zaporizhzhia, le conseguenze potrebbero essere molto gravi, con impatti su vasta scala peggiori del disastro nucleare di Fukushima nel 2011”. Sarebbe un disastro di scala europea che implicherebbe un allargamento della guerra e che impone subito una reazione ferma e decisa all’Europa e non solo. Altrimenti rischiamo che un domani non ci sia più l‘Europa come la conosciamo oggi. Un pericolo che tocca anche le nostre vite e che va moltiplicato. Perché in Ucraina ci sono 4 centrali nucleari operative in cui sono installati un totale di 16 reattori: 4 a Rivne, a ovest di Kiev, 2 a Khmelnitskiy, a sudovest, 4 nel Sud Ucraina e 6 a Zaporizhzhe, ai confini meridionali della regione del Donbass. E oltre a quelle operative ci sono anche altre 4 centrali atomiche dismesse, fra cui l'impianto di Chernobyl.
Zaporizhzhia è ormai sotto il controllo delle forze russe e gli operai all'interno della centrale lavorano “sotto la minaccia delle armi” informa la Cnn. Intanto l'ambasciata Usa a Kiev ha dichiarato su twitter che attaccare una centrale nucleare costituisce un crimine di guerra.
E finché questo conflitto proseguirà, mi sento di aggiungere, il rischio di un incidente in una delle centrali ucraine resterà in campo. Un motivo in più per lavorare a un cessate il fuoco, per impegnarsi a una riapertura vera del dialogo e a una soluzione negoziale che porti alla fine delle ostilità.
È stato poco saggio, soprattutto da parte dell’Ue, lasciar circolare l’ipotesi di un allargamento della Nato fino alle porte della Russia. Sarebbe stato assai più lungimirante - come chiedeva un appello sottoscritto da autorevoli personalità del mondo dell’informazione, della cultura, della politica e della società civile che ho sottoscritto io stessa - avviare una trattativa per arrivare a condizioni che garantissero la Russia dalla preoccupazione di un accerchiamento e consentissero all’Ucraina di sviluppare la propria autonomia nazionale, in condizioni di indipendenza dai due blocchi. Partendo dall’attuazione dell’accordo di Minsk si sarebbe dovuta negoziare una posizione di neutralità per l’Ucraina, non più avamposto militare dell’Alleanza Atlantica, ma terra d’incontro, ponte tra mondi e culture altrimenti distanti.
Di fronte all’inedita risposta dell’Ue, che per la prima volta nella sua storia ha deciso di inviare armi a un Paese terzo, c’è chi giustamente ha richiamato l’attenzione sulla gravità di questa decisione che è un passo verso la cobelligeranza e che potrebbe portare a un casus belli.
Ciò premesso non bisogna nascondersi che questa è una guerra di aggressione in cui, proprio come scriveva Alex Langer a proposito del conflitto fratricida nella ex Jugoslavia, ci sono aggressori ed aggrediti, criminali e vittime. Non si può restare neutrali, né equidistanti, ma bisogna rispondere alle richieste di aiuto che arrivano dall’Ucraina sotto attacco.
E anche se condivido le aspirazioni alla pace, l’impegno di chi cerca una via diplomatica di uscita da questo conflitto, credo si debba guardare in faccia la realtà. E i punti di non ritorno ormai superati.
Sanzioni anche per le attività energetiche
In questo percorso difficile e urgente, che deve vedere l’Europa impegnata insieme agli Stati Uniti, agli alleati e alle Nazioni Unite, va sostenuta l’Ucraina, vanno accolti i profughi e vanno inasprite le sanzioni economiche. Che dovrebbero comprendere anche le attività energetiche.
In tutto questo l’Italia ha evidentemente un problema in più: la dipendenza dal gas, che fa male non solo alla transizione ecologica e alle bollette, ma che nuoce gravemente anche alla democrazia e ai diritti umani. È una dipendenza tossica che ci costringe a fare compromessi al ribasso sui diritti e a escludere il gas dalle sanzioni. Ma così continuiamo a finanziare la guerra di Putin. Anche per questo è necessario ridurre la nostra dipendenza fossile, con l’obiettivo di arrivare a liberarcene. Il governo, invece, sembra puntare soprattutto su un incremento delle forniture dall’Africa, maggiore utilizzo dei terminali di gas naturale liquido disponibili e in caso di emergenza anche al temporaneo riavvio delle centrali a carbone. Poi nel medio lungo periodo prevede un incremento delle rinnovabili, per le quali sta mettendo in cantiere una semplificazione delle procedure.
L’impressione è che l’esecutivo continui a vederle le rinnovabili come fonti complementari, utili soprattutto per il futuro. Senza capire che puntare sulle fonti pulite ci renderebbe indipendenti e ci aiuterebbe moltissimo nell’affrontare le molteplici crisi di oggi. E senza considerare che le imprese sono pronte per questa sfida. Elettricità Futura, associazione di ambito confindustriale che riunisce le principali aziende del settore elettrico, ha chiesto a Governo e Regioni di autorizzare entro giugno 60 GW di nuovi impianti rinnovabili, che è pronta a realizzare in tre anni investendo 85 miliardi. E grazie ai quali potremmo risparmiare circa il 20% del gas importato. Rinnovabili, risparmio ed efficienza energetici, sistemi di accumulo, smart grid, generazione diffusa, autoproduzione e innovazione sono la risposta giusta alle crisi climatica, economica e democratica che stiamo vivendo. Una trasformazione del modello energetico in questa direzione ci renderebbe liberi di reagire come sarebbe giusto alle violazioni del diritto non solo da parte della Russia, ma anche dell’Egitto, della Libia, e delle altre dittature.
Rossella Muroni è ecologista e deputata di FacciamoECO
Il pugno di Putin sui media russi, ma la scelta "pacifista" di Abramovich è un colpo al suo regime
Il colpo di scena viene dal più inaspettato dei personaggi. Roman Abramovich, l’oligarca che ha sempre mantenuto buoni rapporti con Putin, vende il Chelsea ma soprattutto annuncia che i proventi della vendita andranno alle vittime della guerra in Ucraina: “Ho incaricato il mio team di creare una fondazione di beneficienza alla quale andranno i proventi netti della vendita. I fondi saranno destinati a tutte le vittime della guerra in Ucraina, sia nell’immediato per i bisogni immediati, sia a lungo termine per il lavoro e il recupero”. Abramovich ha aggiunto che è stata una decisione dolorosa: “Non è una questione di soldi, ma di amore per lo sport. Ma credo che sia la decisione più giusta”. Forse l'oligarca sarà domani alla ripresa del negoziato fra le delegazioni ucraina e russa che, ha annunciato il capodelegazione russo Mendinski, avverrà al confine tra la Bielorussia e la Polonia (nella foresta di Belazova, la stessa località dove nel '91 fu siglato il dissolvimento dell'URSS) e avrà per oggetto – ha detto – "la questione del cessate il fuoco".
La presa di distanza degli oligarchi

Abramovich non è l'unico dei nomi importanti della nomenklatura economica di Mosca a prendere le distanze non solo dalla guerra, ma pure da Putin. Anche il superbanchiere di origine ucraina Mikhail Fridman, fondatore e proprietario della grande banca privata Alfa, non ha esitato a criticare la guerra che – ha detto – "non può essere una risposta". L'avventura di Putin – ha aggiunto – costerà molte vite umane e "danneggerà due stati che sono stati fratelli per centinaia di anni". Considerazioni critiche verso l'avventura militare in Ucraina sono venute anche da Oleg Deripaska, il re delle acciaierie e proprietario dell'azienda che produce l'alluminio per tutta la Russia.
Insomma, una vera e propria rivolta che scoppia proprio mentre a Mosca vengono colpiti i media indipendenti perché usano la parola guerra e vengono censurati anche professori, scienziati e studiosi, se si azzardano a esprimere posizioni critiche, come ad esempio mettere in dubbio lo slogan secondo cui bisogna “denazificare” l’Ucraina.
Il giurista Ilja Shablinskij ne scrive partendo dal precedente storico della Germania e dell'Austria occupate dagli Alleati dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il concetto di “denazificare” – dice pur non negando forme di nazionalismo estremo in Ucraina e in Russia – difficilmente si può applicare a Zelenskij, alla Rada (Parlamento) ucraina e al governo di Kiev. Il presidente è stato democraticamente eletto nel 2019 e riconosciuto da tutti gli Stati, compresa la Russia, nel Parlamento di Kiev sono presenti diverse formazioni politiche, quella generalmente considerata filorussa, che è il secondo gruppo parlamentare. Questa presa di posizione coraggiosa è costata cara al professor Shablinski, che il 25 febbraio è stato escluso dall’insegnamento all’Alta Scuola di Economia. Era fra gli scienziati che nel 2020 si erano espressi criticamente verso i cambiamenti costituzionali in Russia. Con lui sono stati esclusi molti altri ricercatori e docenti.
Una censura di guerra
La censura di Mosca colpisce, in primo luogo, i media russi non governativi. Il sito del canale televisivo indipendente Dozhd (Pioggia) è come congelato, nessun link, nessuna freccetta video si attiva. Ovunque campeggia la scritta “Materiale prodotto o diffuso dall’Estero che assolve alla funzione di agente straniero e/o persone giuridiche russe che svolgono funzione di agente straniero”. La radio indipendente Eco di Mosca tace. Il giornale Novaja Gazeta ha accettato (lo abbiamo scritto nel colonnino di ieri) di continuare a lavorare nelle condizioni di censura di guerra, pur di continuare a informare per quanto possibile. Vi campeggia il volto del direttore Dmitryj Muratov (insignito del premio Nobel per la pace 2021) con la scritta “qui c’erano le sue dichiarazioni video”.
Il 25 febbraio Novaja Gazeta era uscita con una edizione speciale in russo e ucraino che ancora oggi si può sfogliare. I titoli: “La sporca guerra”, “Ragazzi pregate per l’Ucraina”, e l’inchiesta a proposito di ciò che pensano i concittadini: “I russi preferiscono pensare che la guerra non c’è”, infatti alla domanda “Vuoi la guerra?” rispondono “No”.
Un altro articolo. Katja Dolmina è la dirigente di due cinema della “Mos-kinò”. Il 26 febbraio ha firmato un appello, senza citare l’azienda in cui lavora, quindi a titolo personale. Il suo nome era al 467esimo posto. Nell’appello è scritto: “La guerra in Ucraina è una terribile tragedia per gli ucraini e per i russi. Porta enormi lutti, colpisce l’economia e la sicurezza, porta il nostro paese all’isolamento. È anche assolutamente insensata, ogni aspirazione alla pace attraverso la violenza è assurda. Il pretesto per ‘l’operazione speciale’ è stato costruito interamente dagli organi di potere, ma non in nostro nome”. Il 27 febbraio Katja Dolmina ha ricevuto una telefonata: “Prepara la lettera di dimissioni”, “Se non lo faccio?”, ha chiesto. In questo caso, le è stato risposto: “O neghi che quella firma sia tua oppure andrai via per cattivo rendimento”. “Poiché – dice Katja – so che queste imposizioni vengono dal Dipartimento della cultura (vi sono molti casi simili al mio altrove) e non dall’azienda, non farò causa”.
Il grande oppositore di Putin, Alekseij Naval’nij, è riuscito a far uscire dal carcere un appello: “Manifestate contro la guerra. È difficile ma bisogna farlo. Manifestate alle 19 in ogni giorno feriale e alle 14 nei giorni festivi”.
Fin qui l'elenco delle manifestazioni di dissenso pubblico. Ma è possibile che forti malumori siano diffusi anche nelle sfere alte e anche all'interno dei servizi segreti. Se corrispondesse al vero che Zelenskij sarebbe stato avvisato proprio dall'intelligence russa di un attentato contro di lui che avrebbero dovuto mettere in atto i ceceni dall’FSB l’impressione che per Vladimir Putin il fronte interno stia diventando un problema serio, si rafforzerebbe notevolmente.
Dostoevskij e non solo: il delitto di essere nati russi
A Norimberga vennero processati i criminali nazisti (qualcuno venne pure assolto). Non vennero processati i tedeschi che pure avevano nelle piazze inneggiato a Hitler e neppure i militari della Wermacht che avevano sparato e ucciso per Hitler. All’università Bicocca si è pensato bene di processare un signore nato due secoli fa e morto cento e quaranta anni fa. Un signore un po’ particolare, direi eccezionale per tante ragioni, Fedor Dostoevskij, uno dei più eccelsi scrittori di ogni tempo, grande come pochi altri, di cui forse oggi, nell’ignoranza dei nostri tempi, si legge poco, ma che ha illuminato e continua a illuminare la cultura di tutto il mondo, attraverso opere straordinarie, come I fratelli Karamazov, I demoni, Memorie dal sottosuolo, Delitto e castigo (un piccolo vanto nazionale, perché fin da quel titolo ritroviamo il nostro Cesare Beccaria e il suo Dei delitti e delle pene).
Dostoevskij cancellato, niente polemiche
La colpa di Dostoevskij è di essere nato a Mosca e di essere persino morto a San Pietroburgo (ex Leningrado). Russo era e russo dunque rimane. Pazienza che fosse stato condannato a morte (e poi graziato, quand’era già sul patibolo e aveva già baciato la croce) con l’accusa d’aver cospirato contro lo zar Nicola. Russo era e russo rimane, dunque colpevole, al punto che l’università Bicocca ha l’altro ieri proibito che se ne pronunciasse il nome. La notizia l’avrete letta. Paolo Nori, scrittore e studioso di letteratura russa, autore recente di una biografia di Dostoevskij (Sanguina ancora. L'incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij), l’aveva raccontata riferendo su Instagram dell’avviso ricevuto dall’università Bicocca, dove avrebbe dovuto tenere quattro lezioni, aperte a tutti, sullo scrittore russo: “Sono arrivato a casa e ho aperto il pc e ho visto una mail che arrivava dalla Bicocca. Diceva: Caro professore, stamattina il prorettore alla didattica mi ha comunicato la decisione presa con la rettrice dì rimandare il percorso su Dostoevskij. Lo scopo è quello dì evitare ogni forma si polemica soprattutto interna in questo momento dì forte tensione”...
Reazioni multiple, testimonianze di solidarietà con Nori e a questo punto la marcia indietro degli accademici: le lezioni si terranno. Siamo contenti: “L'Università di Milano-Bicocca è aperta al dialogo e all'ascolto anche in questo periodo molto difficile che ci vede sgomenti di fronte all'escalation del conflitto”. A Radio popolare, il prorettore Maurizio Casiraghi, vittima sacrificale, aveva precisato che non di censura si trattava ma di “ristrutturazione dei percorsi”, per “ampliare i contenuti”. Avrebbero voluto aggiungere alcuni autori ucraini: troppo poco Dostoevskji. Peggio la pezza del buco.
La "colpa" di esseri russi
Il sindaco di Milano, che aveva già scomunicato il direttore d’orchestra Valerij Gergiev, ci ha pure messo a parte di una sua conversazione con la rettrice, Giovanna Iannantuoni: “Mi ha detto che le cose non stanno così, che non è stato cancellato nessun corso. Ma certamente qualcuno lì ha sbagliato. Ritengo sia un errore cancellare un corso del genere”. Non è chiaro. Forse Nori si è inventato tutto. La guerra confonde le coscienze, ma evidentemente anche la lettura della posta.
La Stampa (al giornale di Giannini, se non sbaglio, il merito dello scoop relativo alla Bicocca) pubblicava anche un articolo di Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica alla Sapienza, e , accanto, per una perfetta equidistanza, anche un testo di Massimiliano Panarari, professore di sociologia della comunicazione in vari atenei. Trascrivo il titolo di Panarari: “... bisogna mettere in chiaro che si è contro lo Zar e la sua corte”. Donatella Di Cesare citava il caso del soprano russo Anna Netrebko, che diserterà la Scala per via dell’ostracismo decretato nei confronti di Gergiev, e il titolo spiegava: “Sono con lei: il suo passaporto non può farla diventare un nemico”.
Donatella Di Cesare denunciava anche la pratica di alcune riviste culturali, letterarie o scientifiche, di respingere gli articoli di autori russi. Qualcuno, solerte, ha già evidentemente raccolto le prescrizioni contenute in un messaggio giunto proprio dall’Ucraina e siglato – ricopiamo diligentemente – da Ukrainian book institute, Lviv International BookForum, PEN Ukraine, Book Arsenal, la cui natura possiamo solo immaginare. Sotto i colori del paese aggredito e sotto il titolo “Stand with Ukraine!”, corre l’invito a boicottare ogni forma di informazione e comunicazione dalla Russia, propaganda che si realizza “attraverso prodotti culturali in genere e attraverso libri in particolare”. Propaganda a sostegno di Putin, spiegano gli autori del manifesto, propaganda diffusa in tutto il mondo, grazie alle fiere del libro o alle conferenze scientifiche, al fine di giustificare le bombe. Sotto accusa scrittori, agenti letterari, editori, distributori. Al primo colpo, viene da pensare alla “caccia alle streghe” di non lontana esperienza americana: allora, negli anni cinquanta, il bersaglio erano scrittori, registi, attori accusati di comunismo. Ci finì in mezzo anche Charlie Chaplin.
“E’ vero – torniamo a Donatella Di Cesare - che i venti di guerra soffiano forti ormai anche per le nostre strade e nelle nostre piazze e che c’è chi fa di tutto per accendere gli animi, ma forse occorrerebbe fermarsi prima di compiere gesti di cui pentirsi e vergognarsi”.
Uscire dagli schemi manichei
Il tifo imperversa e noi italiani il tifo lo conosciamo bene, ma non è questione tra Milan e Inter, tra Lazio e Roma, ma tra grandi paesi, tra grandi popoli, che imprigioniamo in uno schema banalmente manicheo, con il risultato di “accendere gli animi”, come ammoniva la professoressa. Quanti commentatori con l’elmetto in testa sono sfilati davanti alle nostre telecamere? Quanta ansia di regolare i conti con Putin e magari con la Russia, per quella idea antica, puramente simbolica, metaforica, astratta, preistorica, di “comunismo” che la Russia con la sua vicenda può ancora rappresentare. Contro il “tifo”, con le sue valenze belligeranti, dovrebbe valere l’arma pacifica della cultura (anche dello sport: ricordiamo tutti la “strategia del ping pong” che mezzo secolo fa aprì le porte della Cina di Mao al presidente americano Nixon). La cultura consente ponti e soprattutto consentirebbe di non fare stracci di decine d’anni di storia, di patti violati, di aggressioni, di false verità.
Sembra invece che si vogliano inasprire le divisioni, accentuare le distanze, chiudere le porte alla comprensione. Si dovrebbe capire che così non si fa “politica”: si fa solo un piacere al “nemico”, accerchiato, ma rinsaldato, i cattivi assieme ai buoni. Colpisce certo entusiasmo nostrano che ha accolto la scelta del governo di spedire bombe e fucili in Ucraina, come se bombe e fucili rappresentassero la via per costruire la pace e non invece un modo sicuro per allungare i tempi della guerra. L’interventismo lo abbiamo già conosciuto e lo abbiamo conosciuto come una malattia mortale.
Un’ultima notazione, lieve stavolta. A Milano sono stati i giorni della moda. Tra le tante passerelle anche quella per i modelli di Antonio Marras, uno dei più intelligenti stilisti italiani, un autentico artista. Aveva da mesi intitolato la sua sfilata “Oci ciornie”. Il titolo è rimasto. Dobbiamo cancellare Marras?
Il disertore
In piena facoltà
egregio presidente
le scrivo la presente
che spero leggerà.
La cartolina qui
mi dice terra terra
di andare a far la guerra
quest’altro lunedì
Ma io non sono qui
egregio presidente
per ammazzar la gente
più o meno come me (…)
E dica pure ai suoi
se vengono a cercarmi
che possono spararmi
io armi non ne ho.
Ivano Fossati
Il sovranista Conte
a Bruxelles fa votare
Frau Merkel al posto suo
All’anima del sovranismo! All’ultimo Consiglio europeo, che si è tenuto a Bruxelles il 13 e il 14 dicembre scorsi, il governo italiano ha delegato il proprio voto alla cancelliera tedesca Angela Merkel. E questo perché il presidente del Consiglio Conte non poteva arrivare in tempo, occupatissimo in Italia a cercare di salvare capre e cavoli della manovra.
La pratica del voto per delega è consueta nelle riunioni di condominio ma non è certo normale nei vertici europei. Gli esperti ricordano solo un precedente, un voto affidato, sempre alla cancelliera tedesca, da un presidente francese, forse Hollande. Ma pare che si trattasse di una questione marginale, mentre nel Consiglio di dicembre erano in discussione argomenti importantissimi: in primo luogo la Brexit, poi un primo scambio di opinioni sul bilancio triennale dell’Unione, varie questioni di politica internazionale,

tra cui i gravi incidenti tra la Russia e l’Ucraina, il problema delle migrazioni, all’indomani della firma sul Global Compact dell’Onu e in vista di decisioni da prendere sull’eventuale creazione di una guardia di frontiera e costiera europea. Questione, quest’ultima, che per ovvi motivi interessa molto l’Italia. Inoltre, pur se il tema era fuori dall’ordine del giorno, sulla riunione dei capi di stato e di governo aleggiava il contrasto che in quei giorni opponeva la Commissione di Bruxelles e parecchi governi (tra cui una buona parte di quello tedesco) all’Italia sullo sforamento dei vincoli di bilancio.
Non si sa se la delega a Frau Merkel abbia riguardato tutte queste questioni o solo alcune, e quali. Né Conte né gli uffici di Palazzo Chigi, né durante il vertice né dopo hanno fatto alcun cenno alla delega del voto, che evidentemente avrebbe dovuto restare segreta. La cosa è diventata pubblica ieri, con la pubblicazione di un’intervista che Conte ha concesso a Giovanni Di Lorenzo, direttore del settimanale tedesco “Die Zeit”. Alla fine del colloquio, l’intervistatore dice che a lui risulta che “a metà dicembre, quando lei (Conte) ha dovuto ritardare il suo arrivo al vertice, ha consegnato ad Angela Merkel il suo diritto di voto”. La domanda sembra cogliere di sorpresa Conte, che risponde: “E lei come lo sa?”. Poi aggiunge: “Sì, è vero. Lo ammetto: di Merkel ci si può fidare”.
“Di Merkel ci si può fidare”. Benissimo. Chissà se Conte lo ha detto anche a Matteo Salvini e a Luigi Di Maio che per mesi e mesi hanno dipinto la cancelliera tedesca come il diavolo: ispiratrice della più feroce disciplina di bilancio e delle più permissive politiche di accoglienza verso i migranti. Insomma, la nemica giurata di tutti i sovranisti.