Ci avevi illuso
Mose, paradosso
in forma di diga

Ora, le paratoie resteranno issate per tre giorni di seguito (i tecnici prevedono acqua alta, anche se non eccezionale) quasi a compensare la defaillance dell’altro giorno, quando l’onda di marea
aveva portato in laguna pochi centimetri d’acqua oltre il traguardo del metro e trenta e migliaia di “botegheri” pallidi e bagnati avevano scoperto le loro merci ancora una volta galleggiare nell’acqua salata dei loro negozi.

Sembra una vicenda giocata sulla pulsionalità dei suoi interpreti e invece nella sala di regìa di questa realtà è attivo un guazzabuglio di ragioni molto fondate e  molto intricate in perenne contesa tra loro. Intanto, il “giallo”: perché sempre l’altro giorno non si sono alzate le costosissime paratie il cui lavoro avrebbe impedito l’allagamento di gran parte della città? Eppure, in un recentissimo passato il loro intervento, ancora in fase sperimentale, aveva dimostrato la sua spettacolare funzionalità, tenendo per una volta le pietre veneziane all’asciutto mentre in Adriatico le onde volavano alte… mai accaduto prima, con quella misura in gioco… Era stato un gran successo anche se tardivo allo sfinimento, sotto il profilo ingegneristico, ma ben di più nella coscienza di massa: in tanti avevano pensato che la scommessa fosse vinta, che si poteva smettere di allarmarsi, di correre in bottega all’alba per tirar su le merci prima dell’allagamento, che il mercato immobiliare poteva smettere di rammaricarsi per lo scarsissimo valore di mercato dei piani bassi veneziani…

Sette miliardi...

Diciamo che da quel momento, da quel primo muro del Mose issato contro l’Adriatico, i veneziani si erano assestati in una nuovissima condizione dell’animo. Fiducia, certo, e consolazione: quel marchingegno, criticato da molti e sistemato a dispetto della volontà della stessa città, è costato non meno di sette miliardi di denaro pubblico, insomma, alla fine a qualche cosa era servito, serviva…Ma solo rispondendo alla domanda sul motivo in virtù del quale 48 ore fa quel Mito chiamato Mose non sia intervenuto, si riesce ad entrare nel cuore del problema più vero, potente, complesso. E’ stato deciso, questo è fondamentale, che il Mose si azioni solo in vista di una “acqua alta” superiore al metro e trenta, e ricordiamo che anche ben sotto quella altezza tutta piazza San Marco viene sommersa. Allora perché non si chiude per impedire l’allagamento della Piazza? Perché per garantirla all’asciutto sempre bisognerebbe chiudere le bocche di porto troppo spesso rispetto a due esigenze, una di carattere ambientale e una economica: se viene chiusa troppo a lungo, la laguna rischia di diventare uno stagno maleodorante e morbigeno, inoltre in questa evenienza la portualità verrebbe decapitata e oltre i lidi ci sarebbero colonne di navi petroliere e mercantili e passeggeri in attesa di entrare, davanti ad un cancello chiuso.

Quindi, è bello scoprire che scienza e affari trovano composizione solo in una visione politica della realtà: bisogna, cioè, scegliere a che altezza chiudere e a quella misura attenersi. Quel metro e trenta - anche questo è formidabile - è il dato più potente e regolatore di tutta la realtà urbana e ambientale della laguna, perché vi si intrecciano interessi diversissimi e sempre in conflitto tra loro, nonché la pianificazione territoriale ed economica di un territorio piccolissimo e ciò nonostante pazzescamente celebre che quando fa un colpo di tosse se ne parla, e con allarme, al Parlamento europeo.

Le previsioni dell'Ufficio Maree

Torniamo al “giallo”: il Mose è rimasto fermo, l’altro giorno, mentre l’acqua alta superava con comodo quell’asticella… perché? Altra questione: la Grande Macchina (che in tempi di ineffabili microchip suo malgrado fa la figura di un rottame verniano) ha bisogno di una programmazione elaborata sulla base delle previsioni dell’Ufficio Maree. E cioè ha bisogno di tempo: non è come salire in macchina, accendere e lasciare la frizione, servono almeno quattro ore per azionare le paratoie, e quell’Ufficio, dove operano tecnici seri e preparati, aveva previsto poco meno di quel metro e trenta, comunque una misura al disotto del livello operativo del Mose. Solo che, intasato l’Alto Adriatico anche di acqua dolce sversata dal Po e dagli altri fiumi, in laguna è poi entrata più “marea” del previsto, spinta da un sensibile rafforzamento del vento, e l’acqua dolce, che sta sempre in superficie, corre più di quella salata… Così, mentre si intuiva che la previsione sarebbe stata ritoccata quel tanto che bastava, il Gigante è rimasto a guardare quel che accadeva, impotente. Si possono fare le migliori previsioni, le più corrette, profonde, ma dal vivo i conti li regola la “natura”, o meglio, nel caso, quel complesso di soggetti tra i quali fanno la loro figura le conseguenze di una antropizzazione spesso senza cervello e tesa allo sfruttamento istantaneo del territorio. E ciascuna delle grandi anime – portualità e turismo - che si contendono il potere sulla città hanno dimostrato quanto siano sensibili al fascino di una cultura istantanea: non è sfruttamento del territorio far passare le grandi navi da crociera proprio “sopra” le finestre dei veneziani? Non è sfruttamento del territorio consentire che esista ancora il canale dei Petroli, profondissimo e rettilineo, così che l’acqua di mare giunga prima ad insaccare la laguna? E non è una purissima ottica di sfruttamento quella che consentirebbe di tirar su il Mose ogni volta che qualche negoziante rischia di trovare i locali allagati, oppure per ridare fiato al mercato immobiliare?

A scanso di equivoci

Ora sembra che sia una bestemmia ciò che non lo è mai stato: il fatto che i negozi e gli esercizi di alcune parti più basse della città vedano i loro pavimenti coprirsi d’acqua. E si chiede al Mose di mettere fine a questa “vergogna” per cui sono stati spesi i miliardi dei contribuenti, e i negozianti sono contribuenti, ma “nulla di buono” è venuto a quella robusta categoria. Poi, c’è il costo del Mito Mose: è stato calcolato, ma si attendono smentite autorevoli, che tirar su una sola volta le paratoie costerebbe circa 300.000 euro. Ogni alzata è come comprare quindi una Ferrari, disgraziatamente lentissima. I costi di gestione del Mose si calcolano in decine di milioni l’anno, c’è un piccolo esercito di addetti che ci lavora continuamente, come si alimenta senza scossoni questo colosso? Comunque, è chiaro adesso che il potere grande e vero sta nelle mani di chi governa ed elabora i dati e di chi aziona il Mose, il resto, consiglio comunale compreso, è robetta, in confronto, se la città non controlla e governa a sua volta questi due momenti. Ma a chi interessa? Al sindaco attuale? Quello che fino a poco fa diceva di saper nulla del Mose e delle sue condizioni? Quello per il quale, a sentire ciò che dice, la realtà non è altro che la confezione di un affare? Intanto, a scanso di equivoci, il Mose resterà issato per tre giorni, mettendo nel conto possibili sorprese rispetto alle previsioni. Ma all’ombra di quella asticella in apparenza ingenua come Cappuccetto Rosso, la lotta sorda tra quei due poli economici è tutt’altro che conclusa.


Biennale, ti disprezzo e ti sberleffo
(ma so che tu mi vuoi), firmato Banksy

È la legge del “Principe e il povero” - dove sta scritto che i ruoli vincono, non i loro interpreti - a governare per l’ennesima volta la scena nel gran teatro di Piazza San Marco a Venezia. Metti Banksy alla Biennale e tutti andranno a vederlo, anzi andranno alla Biennale per vedere soprattutto lui, l’invisibile muralista che ha fatto anche della comunicazione un’arte. Ma sistemalo, accanto ad altri, artisti o impostori poco conta, in uno dei luoghi più attraversati dalla curiosità e dall’incanto, pure accanto a suoi lavori, e nessuno se ne accorgerà. Infatti, nessuno si era accorto di lui.

I collezionisti pagherebbero volentieri milioni di euro per un suo lavoro. Anche per quei frammenti di immagine di una super-nave che al suo passaggio cancella la skyline di Venezia. Banksy stava lì, in piazza, accanto a questa sua opera colorata divisa in più pezzi mentre la folla del turismo di massa accarezzava indifferente, o quasi, uno degli artisti più “ricercati” di questo presente, uno dei più “in the mood” con i tempi, uno di cui molti vorrebbero in salotto un suo disegno, per mostrarlo commosso e soddisfatto agli amici. E non c’è molla migliore di questa, banalissima, per accendere il mercato dell’arte. Migliaia di esseri umani sono passati accanto all’affare della loro vita, alla fortuna grande, senza rendersene conto. E questo è normale, appartiene alla storia dell’umanità. Banksy giocava, stava giocando, pronto a rispettare le regole del gioco, anzi quasi invocandole.

Infatti, se non hai il permesso non puoi stare con le tue tele in piazza San Marco, giusto per venderle ai turisti. Così, un paio di vigili urbani hanno chiesto il documento a quello strano signore imbottito di abiti, accanto alla supernave a pezzi. E siccome non lo aveva, gli hanno chiesto gentilmente di allontanarsi, senza nemmeno chiedere i documenti di identità, pare.

L’artista fa fagotto, raccoglie i suoi lavori su tela e se ne va. Tace per qualche giorno, poi pubblica nel web un filmetto con il suo banchetto in Piazza San Marco chiudendolo con una perculata nei confronti della Biennale, che non l’ha mai invitato ad esporre nei suoi padiglioni. Un riconoscimento irritato del ruolo comunque positivamente centrale della Biennale nel far vedere l’arte, nel costruire uno sguardo di massa sull’arte che emerge, oppure la certificazione sarcastica di un suo fallimento fondamentale, solo marginalmente confermato dall’esclusione di Bansky dalle sue mostre?

Mentre lasciamo perdere queste profonde riflessioni su ciò che forse l’artista voleva fosse compreso del suo “movimento” visuale e di parola, torniamo al personaggio, Banksy, e alle sue coerenze. Sa comunicare, in modo eccellente. L’andamento dell’ultima asta a proposito di un suo lavoro, la bambina col palloncino, racconta che siamo ben oltre una carriera in attesa di promozione: venduto a oltre un milione di dollari, è stato affettato – lì in corso d’asta, appeso ad un muro, grazie ad una ghigliottina invisibile azionata a distanza - in striscioline che tuttavia ricomposte restituiscono la riconoscibilità dell’insieme. Tanto che il collezionista, ma chi era?, ha confermato con gioia la sua offerta. Poi, la sua vita artistica è una continua derisione del mercato e delle sue leggi, e ciò nonostante vola dove gli pare, anche da Sotheby’s, se serve allo scopo. Perché non in Piazza San Marco?

Tutto ciò sembra chiarire ciò che sta a cuore oggi a un discreto pubblico: e cioè se Banksy sia intellettualmente onesto o se invece ciurli un po’ nel manico. Non ha bisogno di promoter, li ha sempre ridicolizzati, grazie al suo modo di comunicare – street art, certo, ma affinata – si è ricavato un’immagine e un ruolo che stanno in piedi benissimo da soli. Ma, sotto il profilo dell’intellegibilità dei suoi messaggi, dei messaggi prodotti dalle sue sempre intriganti immagini, Banksy è davvero un pericolo per l’”ordine costituito”, può esserlo. Messi uno accanto all’altro, i suoi lavori – compreso l’ultimo, sempre a Venezia, dove ha disegnato nei giorni scorsi un bimbo con salvagente e fiaccola in mano – sono un immenso canto di protesta, un immenso coro di denuncia: Stati e vizi, potere e conformismo, segregazioni e cattiverie, tutto al macero di un tratto, per converso, gentile, anzi gentilissimo, fin dove la gentilezza sfiora lo strazio.

Il canto è quindi direttamente politico, interviene sulle scelte strategiche e non solo di chi può permettersi il lusso di decidere per molti. Niente di male: non è il primo bravo artista che spende la sua arte per questo nobile scopo. Il problema è che lo capiscono tutti, che troppi lo conoscono, che l’apprezzamento popolare è vastissimo. Meno d’accordo alcuni critici sulla densità di quell’arte, ma questo è altro discorso.

Resta il fatto che Banksy alla Biennale sarebbe una bomba atomica, proprio per questo paio di ottime evidenze che lo riguardano.

Conviene farci caso: in questi anni recenti, la critica radicale al sistema, ai sistemi non ha mai trovato accoglienza in tv. Se non come oliva in un cocktail che la riduce a simpatica, tutto sommato inefficace, oliva. A teatro si può, in tv no. La tv serve una rete di massa, il teatro serve un circuito tribale, in confronto. E Banksy in quelle sale trasformerebbe la Biennale, da austera-gioiosa lente sui linguaggi, in una televisione capace di trasmettere segnali a parte grande, troppo, del global, informando e formando pensieri di massa.

Che male c’è? Nessuno, per quanto ci riguarda, per quanto riguarda i poteri oggi sulla cresta dell’onda della storia, invece, si registrerebbe un grave, intollerabile danno ai danni di quell’”ordine costituito”. Eppure, nonostante la ragionevolezza istituzionale, per quel che si conosce della reattività dei gangli della Biennale, il grande Ente sarebbe, crediamo, disposto a far carte false pur di “commettere” questo sacrilegio, ospitare Banksy, sarebbe il suo mestiere.

Intanto, nella Venezia che si sta sciogliendo nell’acido dell’affare istantaneo, le grandi navi schiaffeggiano ancora monumenti e chiese. E Banksy ha detto, ancora una volta, cosa non smentibile.

Diranno che è robaccia politica che con l’arte non ha nulla a che vedere. Correttamente, il potere vuole l’arte che vuole, diversamente da tantissimi, se la può comprare, quindi decide lui. Anche chi è artista e chi no. Poi, detto questo, l’affare è l’affare…

 

 


Lo sguardo delicato di Pasinetti
su una Venezia da attraversare

Come si guarda Venezia? Com è fatta Venezia? Capire come guardare e intuire quale forma abbia Venezia è probabilmente un’impresa impossibile perché la città è allo stesso tempo liquida e sfumata come imponente e definita nei suoi confini e nella sua storia. Non esistono in verità immagini di una Venezia obiettiva, capaci di riferire un’oggettiva visione temporale.

Venezia mischia le carte in continuazione e lascia spesso chi tenta di fermarla solo con se stesso rivelando più che un’immagine urbana - più o meno caratteristica - il sentimento, lo stato d’animo di chi ha realizzato l’immagine. Questo succede chiaramente sempre, ma con Venezia lo specchio è molto più potente e rivelatorio.

Questa è Venezia 1943 (Marsilio) è un volume imponente che tuttavia mostra uno sguardo inedito per delicatezza e apertura, oltre che per l’ambizione catalogatoria del suo autore, Francesco Pasinetti, uno dei padri della cinematografia italiana.

Il volume figlio di un meritorio lavoro di catalogazione a cura dell’Archivio Carlo Montanaro riporta alla memoria la figura eclettica e di inesauribile energia di Francesco Pasinetti che nella sua breve esistenza (stroncato da aneurisma a soli 38 anni) si distinse certamente come studioso e regista cinematografico, ma soprattutto per una visione progettuale della creazione artistica. Francesco Pasinetti rivela un’ambizione e una visione decisamente contemporanea nel pensare la propria produzione e anche se mai riesce a portare del tutto a termine i propri progetti resta un formidabile vettore di idee e visioni.

La testimonianza più forte di Questa è Venezia 1943 è proprio nella capacità di immaginare la città prima ancora che di fotografarla. Una città a tutti gli effetti contemporanea negli scatti di Pasinetti. Una città che proprio per la sua storia si rivela nei movimenti del cielo e dell’acqua come un elemento costante e costantemente attraversatile nel tempo. Una testimonianza non della storicità del luogo che in tal senso è segnata da un’algida decadenza continua, ma della sua presenza quale elemento di possibile e perenne attraversamento. Riflessione pura dell’umano e della sua presenza in un luogo che si fa contemporaneo perché lontano da ogni forma di attualità. Un libro prezioso che gode della cura di Alberto Prandi e di una nota di Giovanni Montanaro, uno sguardo su Venezia che si rivela nella sua bellezza come un ritorno all’intimità e alla storia di chiunque abbia voglia di sfogliarlo e di ritrovandosi in un luogo senza esserci magari mai stato prima.

Francesco Pasinetti

Questa è Venezia 1943

a cura di Carlo Montanaro

Marsilio, 237 pagine - 35,00 euro