Partito Democratico:
un Letta
non fa primavera
Nel Pd ci sono diversi uomini e donne di indubbio valore. Che hanno passione e intelligenza e non pensano che il partito sia un taxi sul quale salire per raggiungere una destinazione personale e poi scendere. Tra questi sicuramente spicca Enrico Letta, che in molte occasioni ha dato prova di equilibrio, di coraggio e di competenza. Soprattutto ha dimostrato di credere nella funzione nazionale del Pd e nella forza di un lavoro di squadra. Il contrario esatto dell’idea di un uomo solo al comando che in fondo è la causa principale della rovina attuale del Partito democratico.
Letta, come si sa - dopo quel vergognoso #enricostaisereno con il quale Matteo Renzi lo ha cacciato da Palazzo Chigi con la complicità di molti di quelli che poi hanno fatto la guerra a Zingaretti - ha cambiato mestiere, si è dimesso dal Parlamento e ora dirige la Scuola di affari internazionali Science Po di Parigi. Da qualche giorno su di lui si è stretta la morsa di un pressing senza sosta per convincerlo a tornare a Roma e prendere in mano un Pd lacerato, indebolito e in preda a una crisi drammatica. Solo Enrico può salvarci, sembrano dire molti di quelli che sono i principali responsabili di questo disastro.
Pro e contro da valutare
Lui ci pensa, valuta, soppesa i pro e i contro di un’impresa che al momento sembra quasi impossibile. Ieri ha fatto sapere, ringraziando per gli attestati di stima, che si prenderà 48 ore per decidere: “Ho il Pd nel cuore e queste sollecitazioni toccano le corde più profonde”, ha scritto su Twitter. Una frase che lascia presagire, insieme a molti altri segnali arrivati in queste ore ai big del partito, che alla vigilia dell’Assemblea nazionale prevista per sabato e domenica Letta scioglierà la riserva e diventerà l’ottavo segretario del Pd. A una condizione: che il congresso si svolga come previsto nel 2023 e non prima, come vorrebbero le truppe che hanno azzoppato Zingaretti.
Bene, e allora? Tutto risolto? Trovata la soluzione alla crisi lacerante del Pd? Nemmeno per sogno. Quello che è accaduto in questi giorni, dopo le dimissioni di Zingaretti, dimostra infatti che il gruppo dirigente di quel partito non ha capito che cosa è successo e quali sono i problemi veri che il gesto del segretario ha portato alla luce in modo drammatico. La discussione infatti si è concentrata esclusivamente sul nome del successore di Zingaretti. Come se bastasse cambiare la targhetta dell’ufficio del capo al Nazareno per ritrovare le magnifiche sorti e progressive del partito. C’è stata una girandola di proposte e controproposte dietro la quale non è apparso nemmeno un tema, un argomento, un’idea su cui rifondare il Pd.
Eppure lo stesso Zingaretti annunciando le dimissioni aveva detto addirittura di vergognarsi di un partito che “parla solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti”. Vittima di uno stillicidio di accuse e di critiche feroci, l’ex segretario aveva reso pubblico quel che covava sotto la cenere dei rancori e della guerra per bande: un partito preda delle faide interne, dominato dalle tribù correntizie, ormai balcanizzato, senza un’idea che non fosse quella di trovare sempre il modo per stare al governo.
Due strade possibili
Come ha scritto Michele Prospero su strisciarossa (LEGGI QUI L'ARTICOLO) il Pd aveva due modi per uscire da questa crisi: decidere di puntare sulla “persistenza del soggetto esistente” e quindi rischiare di sparire, oppure tentare l’azzardo di un processo costituente per “tracciare i contorni di un’altra formazione politica”. La discussione che si è avviata avvalora la prima ipotesi. Perché se non si riflette su se stessi, sulla propria crisi di identità, sull’assenza di un profilo politico-culturale, sulla mortificazione della propria comunità, su un’organizzazione interna che dà tutto il potere ai capicorrente e su una linea politica troppo spesso subalterna che non si sa dove vada a parare, nemmeno il più geniale dei segretari riuscirà mai a fare del Pd un vero partito guida del centrosinistra.
A chi parla il Pd? Chi sono i suoi soggetti sociali di riferimento? Quale idea ha del governo Draghi e come vuole starci dentro? Accettando quasi supinamente tutte le scelte, come spesso ha fatto con Conte, oppure cercando di avere un proprio profilo politico riconoscibile? Garantendo solo la presenza di ministri e sottosegretari oppure portando a Palazzo Chigi le idee forti di una sinistra moderna, cioè il lavoro, l’uguaglianza, la parità di genere, i diritti?
Tutte domande che finora non solo non hanno avuto risposta, ma non sono nemmeno state esplicitate nella sarabanda del dopo-Zingaretti. Ecco allora il punto: se l’elezione di Enrico Letta non sarà accompagnata da un’analisi spietata su ciò che si è e non si dovrebbe essere, su qual è la natura del Pd e su come si possa ricostruire una sinistra larga e plurale che affondi le sue radici nei movimenti che animano la società, il rischio è di tornare alla storia di sempre e di ritrovarsi tra un anno nella stessa situazione di oggi alla disperata ricerca del nono segretario. Tutto lascia presagire che sabato e domenica una discussione vera non ci sarà ma che si cercherà in tutti i modi di raggiungere una tregua e qualche falso unanimismo. E allora è inutile illudersi: con tutto il rispetto, un Letta non fa primavera.