La Russia merita un "diritto al rispetto"?

Giorni fa il capo di stato maggiore della marina tedesca, vice-ammiraglio Achim Kay Schönbach, è stato costretto alle dimissioni con effetto immediato per aver definito una “sciocchezza” l’idea che la Russia invaderà l’Ucraina. Una decisione tanto draconiana presa dalle autorità politiche del paese che viene considerato il più “morbido” verso Mosca, almeno per quanto riguarda i commerci e gli approvvigionamenti energetici, ha stupito molti osservatori, ma forse si spiega con le considerazioni sulle reali intenzioni dei russi che l’alto ufficiale ha aggiunto al suo giudizio. Con la concentrazione di truppe e di mezzi a ridosso della frontiera ucraina – ha detto Schönbach – “probabilmente il Cremlino intende esercitare un po’ di pressione.  Putin sa di poterlo fare perché così può dividere l’Europa”. Quello che il capo del Cremlino “vuole davvero – ha continuato – è rispetto e sarebbe facile dargli il rispetto che vuole e che, probabilmente, merita anche”.

Achim kay Schoenbach

Con queste sue parole Schönbach ha messo in luce come meglio non si potrebbe la vera questione controversa, il vero dilemma da sciogliere nel rapporto tra l’Occidente e la Russia. Dilemma che ora riguarda drammaticamente la crisi ucraina, ma che non si esaurisce certo con essa: esiste un “diritto al rispetto” che Mosca “meriterebbe” e, se sì, come dovrebbe essere garantito?

La NATO non si deve allargare

Per come la vedono i russi – probabilmente tutti i russi, non solo Putin e i suoi accoliti – la questione avrebbe una risposta semplice e immediata: gli Stati Uniti e la NATO non possono pretendere di allargare la loro sfera - di controllo più che di influenza - fino alle immediate vicinanze dei confini della Federazione Russa. Non solo dovrebbero asserire con adeguate garanzie che non ingloberanno l’Ucraina (e un domani, chissà, la Bielorussia o le repubbliche dell’Asia Centrale) dentro la loro alleanza, ma anche che non troveranno il modo per dotare i paesi che la dottrina neoimperialista di Mosca considera l’”estero vicino” di armi e installazioni che possano comunque minacciare il territorio russo.

Per dimostrare la fondatezza di questo “diritto al rispetto” osservatori e commentatori russi invitano ad immaginare che cosa farebbero gli americani se un giorno, per un ipotetico rovesciamento delle alleanze, il Canada o il Messico aderissero a un’alleanza ostile agli Usa o impiantassero armi in grado di colpire Washington e le metropoli nordamericane. In realtà non c’è neppure bisogno di ricorrere a ipotesi di fantapolitici stravolgimenti internazionali: sessant’anni fa il caso si è già dato, con la crisi dei missili a Cuba. È proprio in difesa del “diritto al rispetto” che l’amministrazione Kennedy per imporre ai sovietici il ritiro dei missili che aveva impiantato nell’isola “alle porte di casa” degli Stati Uniti non esitò a minacciare la guerra nucleare. Difficile contestare le analogie: l’Ucraina non è meno alla porta di casa della Russia di quanto Cuba lo fosse degli Stati Uniti.

Sistema di sicurezza collettivo

La diffidenza russa è accentuata dal fatto che gli Usa e la NATO non hanno rispettato i patti assunti liberamente con l’Unione Sovietica di Gorbaciov quando, in cambio della non opposizione di Mosca alla riunificazione della Germania si erano impegnati a mantenere l’est della Germania stessa e gli ex paesi satelliti dell’Impero russo fuori dai dispositivi militari dell’alleanza. C’è chi ragionevolmente ritiene che negli anni ’90 con la spinta della NATO verso est fu persa l’occasione di creare un sistema di sicurezza collettivo sul continente che era stata offerta dal ritorno alla democrazia nell’Europa orientale, dall’ingresso dei paesi ex satelliti dell’Urss nella comunità europea e anche dalla relativa debolezza della Russia che per uscire dalla crisi economica aveva bisogno di buoni rapporti con Bruxelles.

Ma bisogna chiedersi: l’attuale dirigenza di Mosca “merita” (per usare la terminologia dell’ammiraglio tedesco) il “diritto al rispetto” che chiede così perentoriamente? Una cosa è pretendere di non essere sotto il tiro di missili a corto raggio che in cinque minuti arrivano al bersaglio, tutt’altra cosa è pensare che si possa ricreare un sistema di relazioni che nell’”Estero vicino” riproduce i criteri della sovranità limitata di brezneviana memoria. L’Ucraina è un paese sovrano e se la reconquista russa della Crimea era stata alla fine ingoiata da Kiev e da tutta la comunità internazionale dietro il debole, e un po’ ipocrita, paravento delle sanzioni non si può pensare che un tentativo di ripetere il colpo nelle province russofone del Donbass finirebbe nel novero delle cose che hanno un capo solo perché sono state fatte. Là sarebbe guerra vera e quando le guerre vere cominciano nessuno sa dove e come finiscono.

Destabilizzazione

Si deve presumere che anche Putin se ne renda conto ed è questa presupposizione che, verosimilmente, ha spinto Achim Schönbach a definire “sciocca” l’idea dell’invasione russa. L’ammiraglio dovrebbe sapere però che nella storia di cose “sciocche” ne sono successe parecchie e che in molti casi è stato un incidente, un’incomprensione, uno stupido automatismo a precipitare la tragedia. In ogni caso, la pretesa dell’autocrate del Cremlino di mantenere i rapporti di forza del fu impero (russo ancor prima che sovietico) con l’estero vicino sono di per sé un potente fattore di destabilizzazione, soprattutto quando i paesi che ne furono parte sono strutturalmente deboli e governati da elites dittatoriali che esercitano il potere contro il proprio stesso popolo e corrotte. Gli effetti si sono visti in passato in Georgia, più recentemente nel Kazakhstan e potrebbero vedersi in futuro, ben più pericolosamente, in Bielorussia.

Serve insomma una de-escalation della tensione. Con quali strumenti si potrebbe ottenerla? In primo luogo con i negoziati sulle armi. Nonostante il clima pesante di accuse reciproche e di reciproche intransigenze per fortuna i colloqui sulla riduzione bilanciata dei potenziali militari, soprattutto quelli missilistici, starebbero andando avanti. Potrebbero essere estesi anche alle esercitazioni militari che spesso, come è evidente il caso di quelle russe attualmente in atto vicino ai confini con l’Ucraina, sono un chiaro segnale politico, come un tempo le cannoniere davanti alle coste.

Un segnale che potrebbe essere molto positivo è arrivato a questo proposito ieri sera con un flash di agenzia nel quale si diceva che la NATO sarebbe pronta a rispondere alle proposte di negoziati che Mosca ha avanzato ai vertici dell'Alleanza qualche giorno fa, insieme con un'analoga offerta indirizzata separatamente a Washington. Le trattative potrebbero riguardare tanto le "garanzie" che il Cremlino chiederebbe sul non inserimento dell'Ucraina nel dispositivo militare NATO, quanto colloqui su riduzioni bilanciati di sistemi d'arma quanto accordi su un divieto reciproco dsi esercitazioni militari che possano essere percepite come una minaccia dalla parte avversa. Tema, quest'ultimo, davvero decisivo nel momento in cui si fanno sempre più forti le preoccupazioni occidentali per l'ammassamento di truppe e di mezzi russi presso il confine con i distretti ucraini del Donbass. La notizia della risposta della NATO è giunta abbastanza inattesa, giacché fino a ieri era parso che l'intenzione dei vertici dell'Alleanza fosse quella di far cadere nel vuoto le offerte di dialogo, considerate un mero esercizio di propaganda.  Si tratta evidentemente solo di un primo passo, ma che accende qualche speranza.

Oltre alle question i militari e di sicurezza sarà necessario poi affrontare nel verso giusto la questione dei diritti delle minoranze. Bisognerebbe far capire ai russi che non può esistere una sorta di droit de régard sulle minoranze russofone che vivono in altri paesi: la loro diaspora, in Ucraina, nei paesi baltici, in Kazakhstan, in Moldavia o altrove è un prodotto della storia, molto spesso una storia forzata dall’imperialismo dei russi stessi, e come tale va accettata. Alle minoranze vanno accordati i diritti umani e civili e una ragionevole autodeterminazione, non il diritto a ricongiungersi con una Grande Patria. Questo principio è alla base del protocollo che Mosca e Kiev firmarono a Minsk nel settembre del 2014 con la mediazione dell’OSCE. Portò a un cessate-il-fuoco molto precario e non venne rispettato né da una parte né dall’altra. Nella sua conferenza stampa di fine anno il presidente del Consiglio italiano fece riferimento proprio agli accordi di Minsk come perno di una possibile mediazione in cui – parve di capire – Draghi vedeva anche un possibile ruolo dell’Italia. La cosa migliore sarebbe che fosse l’Unione europea a prendere l’iniziativa.

 

 

 

 

 

 


Contro le violazioni
della Polonia

Sono trascorsi due anni da quando il governo e il parlamento in Polonia hanno deciso di cancellare l’indipendenza della magistratura, mettere il bavaglio alla Suprema Corte e interrompere prematuramente il mandato del Consiglio Superiore della Magistratura adottando una raffica di leggi e di decisioni in un crescendo che si è – per ora – concluso con l’adozione di due leggi concernenti il potere giudiziario ora sottoposte alla firma del Presidente della Repubblica.

In più, il Parlamento polacco ha adottato il 15 settembre 2017 una legge che centralizza e sottopone al controllo del governo la distribuzione dei fondi alle organizzazioni della società civile.

Per due anni, il Consiglio ha assistito silenzioso alla progressiva evaporazione di un principio fondamentale dello “stato di diritto” in Polonia con una scandalosa complicità del Parlamento europeo, che si era già mostrato molto reticente nei confronti delle persistenti violazioni dei diritti fondamentali in Ungheria e che si è svegliato dal suo torpore solo il 15 novembre 2017.

Per due anni la Commissione ha tiepidamente dialogato con il governo polacco usando la nota e inefficace minaccia del penultimatum. Le tappe del dialogo fra Bruxelles e Varsavia sono illuminanti.

  1. Le prime decisioni delle autorità polacche contro la magistratura risalgono alla fine del 2015 ma la Commissione ha atteso sette mesi (27 luglio 2016) prima di mandare a Varsavia una prima raccomandazione chiedendo al governo polacco di agire “as a matter of urgency” (primo penultimatum)
  2. Avendo la Polonia ignorato il primo avvertimento di Bruxelles, la Commissione ha inviato dopo cinque mesi (21 dicembre 2016) una seconda raccomandazione intimando a Varsavia di agire entro due mesi (secondo penultimatum).
  3. Trascorsi inutilmente sette mesi, la Commissione ha inviato a Varsavia una terza raccomandazione il 26 luglio 2017 con un’intimazione ad agire entro un mese (terzo penultimatum).
  4. Nel frattempo si sono moltiplicate le denunce del Consiglio d’Europa, della Commissione di Venezia, dell’OSCE, delle Nazioni Unite e di numerose organizzazioni non governative.
  5. Il terzo penultimatum è trascorso invano e, come abbiamo detto più sopra, Camera e Senato polacchi hanno adottato l’8 dicembre le due leggi che cancellano l’indipendenza della magistratura.

A questo punto la Commissione, avendo messo in mora per ben tre volte il governo polacco, avrebbe potuto usare l’arma dell’art. 258 TFUE e trascinare la Polonia di fronte alla Corte di Giustizia di Lussemburgo senza doversi sottomettere alle forche caudine delle maggioranze elevatissime nel Consiglio e nel PE e al voto all’unanimità del Consiglio europeo.

Essa ha preferito invece abbaiare alla luna annunciando con gran fracasso l’uso dell’art. 7 TUE che prevede un tortuoso labirinto solo alla fine del quale sarebbe possibile sospendere i diritti di voto di uno Stato in cui fosse stata constatata la violazione grave e persistente dei valori dell’Unione fra cui lo “stato di diritto”.

Secondo la procedura iscritta nell’art. 7 TUE (molto più complicata di quella immaginata nell’art. 44 del Progetto Spinelli del 1984 che affidava alla Corte il potere di constatare la violazione e al Consiglio europeo a maggioranza semplice con l’accordo del PE la decisione sulla sospensione della partecipazione dello Stato “inadempiente”):

  • Il Consiglio deve constatare a maggioranza superqualificata l’esistenza di un rischio grave di violazione dei valori dell’Unione dopo aver ascoltato lo Stato in questione e aver ottenuto l’approvazione del PE a maggioranza qualificata. In questo caso può indirizzargli - ancora una volta a maggioranza superqualificata – delle raccomandazioni.
  • Se, dopo una verifica “regolare”, lo Stato in questione non si conformasse alle raccomandazioni del Consiglio, il Consiglio europeo – su proposta di un terzo degli Stati membri (9) o della Commissione e con l’approvazione del PE a maggioranza qualificata – può constatare all’unanimità l’esistenza di una violazione grave e persistente chiedendo al Consiglio di decidere a maggioranza superqualificata di sospendere taluni diritti che derivano dall’applicazione dei trattati.

Il governo ungherese ha già annunciato il suo veto e una posizione simile è prevedibile da parte di tutti i paesi che appartengono ormai all’area di un inedito e novello “impero” austro-ungarico: Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Bulgaria dove sono al potere partiti populisti e euroscettici.

Pensando ai due anni trascorsi dall’inizio delle prime violazioni polacche allo stato di diritto è facile immaginare che trascorrerà inutilmente tutto il 2018 sotto le presidenze dei governi bulgaro e austriaco prima che venga affidata al governo rumeno nella primavera del 2019 la patata bollente della questione polacca.

E’ venuto il momento di una forte ed europea mobilitazione della società civile che manifesti la sua indignazione da Varsavia a Budapest, da Vienna a Bratislava, da Praga a Sofia per evitare che le metastasi della democrazia “illiberale” (come è stata definita dal premier ungherese Orban) si diffondano in tutta Europa.


L'Osce e l'Italia
i due pesi del leader

Non è vietato chiedere per le elezioni regionali siciliane – come ha fatto il leader a 5 stelle Luigi Di Maio - l’intervento dell’Osce. Ma sarebbe utile mantenere un'attenzione alle proporzioni e un po’ di senso del ridicolo.

L’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa),  è una agenzia che include 57 stati tra Europa, Asia e Nord America.  Il suo obiettivo è difendere la sicurezza dei cittadini in tutte le forme: si occupa perciò di controllo degli armamenti e di diritti delle minoranze, ma anche di tratta degli schiavi,  di libertà di stampa,  di migranti e di frontiere.

L’Osce interviene come osservatore terzo  a monitorare il voto negli stati. Ma il suo arbitraggio riguarda aree in cui la democrazia è stata ricostruita di recente, o lacerate da conflitti che mettono in dubbio palese la regolarità delle operazioni.  Per capire:  l’organizzazione ha  missioni in Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Serbia, Macedonia, Moldova e Ucraina. Ha un ufficio in Albania, un centro d’osservazione in Turkmenistan, programmi  in Kazakhistan, Kirghizistan, Tagikistan,  un progetto in corso in Uzbekistan. Si è occupata, negli ultimi due anni, del tentativo di colpo di Stato in Turchia e del controcolpo di Erdogan, della gestione della crisi dei migranti e della ricostruzione del dialogo in Ucraina.

Ma l’Italia? In Italia il malaffare è un cancro antico, così come antichi sono i tentativi della mafia e della camorra di  infiltrarsi nelle istituzioni e di sostituirsi ai governi.  Centinaia di migliaia di uomini e donne per decenni hanno dato tempo e impegno a contrastare delinquenti, criminali e collusi, fuori e dentro la politica. Magistrati e  giornalisti ci hanno rimesso la vita.  Una buona Italia combatteva e combatte contro le patologie, da ben prima che nascesse Di Maio o Grillo si inventasse i Cinquestelle.  Le istituzioni hanno retto, e spesso hanno anche vinto.

Perciò intristisce la trovata di buttare la spugna e fare appello all’Ente esterno.  E’ un'idea che trasferisce fuori da noi  il problema, e quindi è in sostanza un’idea propagandistica.  Un tentativo di far credere agli italiani  che lo stato non esiste più, che il marcio è padrone,  che la politica è corrotta ovunque. Tranne, ovviamente, in casa Di Maio.  Brutto giochetto, equiparare l’Italia del degrado all’Ucraina della secessione, o ai massacri balcanici.

Brutto e alla fin fine paradossale, pure. Perché  l’Osce, fra i punti critici della democrazia moderna, cita invece, nei suoi studi e per le sue missioni,  il voto elettronico, il controllo sui clic dei cittadini, la reale affidabilità dei nuovi strumenti di democrazia.  Chi li governa? Chi li protegge? Chi ne rende conto?  Certo i 5 stelle sono un partito e non uno Stato, però la loro democrazia interna qualcosa pure dovrà insegnare. Si può affidare a un'azienda il calcolo del consenso? E chi controlla? E chi rende conto?  Questo campanello ( "L'Osce interverrà per Rousseau", hanno ironizzato dal Foglio) però a Di Maio, eletto con i trentamila voti della piattaforma grillina,  non suona.  Chissà perché.