Iryna Vereshchuk a

Questione di coerenza: siamo pronti a chiudere il rubinetto del gas?

C’è una notizia poco sepolta nel piano di pace in quindici punti che il Financial Times assicura sarebbe la piattaforma su cui ora si discute per mettere fine al tormento ucraino. Si dichiara a disposizione della trattativa una sorta di neutralità del paese invaso dalle truppe russe; quindi, nessun ingresso nella Nato – a detta di Putin, il casus belli – e nessun imbuto per accumulare armamenti offensivi in quel territorio. Una neutralità tuttavia protetta da tre garanti: gli Usa, la Gran Bretagna e la Turchia. Tutti paesi Nato, ma tra quei soggetti non c’è né l’Europa e nemmeno qualche paese dell’Ue. Come non esistesse, come non esistessero. Un punto comunque delicato che secondo il FT potrebbe non piacere a Mosca, dal che si capisce che la confezione della terna sarebbe farina di Zelensky. Che vuol dire? Di sicuro che l’Europa in questa crisi non è riconoscibile come soggetto unitario e come tale non affidabile, ma non solo. Così, tornano alla memoria le parole e l’atteggiamento manifestato l’altra sera a “Otto e mezzo” dalla vicepremier ucraina, la signora Iryna Vereshchuk, coraggiosissima e combattente, di fronte a un parterre rimasto un po’ a bocca aperta per ciò che ha provveduto a far capire quasi senza giri di parole: la prudenza con cui fin qui i paesi europei hanno risposto alla domanda di Kiev affinché si allestisca un corridoio aereo, e si forniscano alla resistenza ucraina nuovi caccia da combattimento, farebbe il gioco di Putin. E cioè, quella che a noi sembra ragionevolezza di fronte alla minaccia dell’allargamento del conflitto che non esclude, anzi contempla secondo l’autocrate russo, il ricorso alle armi nucleari, avrebbe le stimmate della paura. Di conseguenza, la sorte dell’Ucraina sarebbe governata dalla paura di quanti a parole si dicono suoi ferventi alleati morali. Questo perché, sempre consultando le parole della vice-premier, la paura ci impedirebbe di vedere la “verità”, le cose come stanno, la tremenda durezza della sostanzialmente gratuita aggressione russa contro l’Ucraina, contro un paese che si sente europeo, che prima di ogni riconoscimento ufficiale è già europeo e dall’Europa si attendeva una fraterna risposta all’altezza di quella durezza.

Iryna Vereshchuk a "Otto e mezzo"

Ci siamo: noi, l’Atene del mondo contemporaneo, il ventre molle dell’Occidente sazio e benestante dove comunque la ricchezza, come la democrazia, è più spalmata che altrove, custode della più strepitosa opulenza di segni della storia e della storia dell’arte del pianeta, non vogliamo “vedere”, perché non vogliamo perdere quel che abbiamo, e in fondo è vero che se tutto il globo saltasse saremmo quelli che perderebbero di più. E’ questa la molla della nostra ragionevolezza? Quella che ci fa spedire agli ucraini armi tattiche in genere a corto raggio e non strategiche, giusto ciò che serve per difendersi dai carri e dai caccia russi, quella che ci fa accogliere un’onda impressionante di profughi “sfrattati” dalle bombe? Ancora una volta, non solo. Perché, è sacrosanto, mentre spediamo quelle armi ai fratelli ucraini e li accogliamo, paghiamo ogni giorno molti milioni di euro affinché Putin non chiuda i rubinetti del gas con cui facciamo funzionare aziende, riscaldamento domestico e cucine, alle quali teniamo moltissimo. Paghiamo quindi le armi con cui Putin sta mettendo a ferro e fuoco l’Ucraina, convinto, dice, che russi e ucraini siano lo stesso popolo ed è forse per questo che li invade e li bombarda: fanno troppa fatica a capire quanto lui li ami.

Amore tradito

E’ ben noto il meccanismo psicologico che trasforma in ira violenta un amore tradito o mal compreso: è spessissimo il mulinello che muove i dittatori e nelle loro azioni più cruente e crudeli.
Contraddizione insanabile in tempi ragionevolmente brevi, per cui salvo azioni magistrali fin qui non all’orizzonte, viviamo una stupefacente “doppiezza” che offusca un bel po’ la lealtà con cui rifiutiamo l’aggressione russa e la passione che manifestiamo per la resistenza ucraina. Poi, siamo sacerdoti di un senso dell’esistenza che non moltissimi condividono sulla terra, diamo alla vita, alla nostra, alla singola vita, un valore immenso, totale. Abbiamo la nettissima sensazione che senza di noi la vita sarebbe una schifezza, anche quella degli altri. Soprattutto, sembra, noi italiani per moltissimi dei quali “dolce è morire per la patria” non è altro che una colossale presa per i fondelli di potere che funziona con i guerrafondai e con quelli convinti che sia patriottico ammazzare i figli, magari sgarbati, di un’altra patria. Atteggiamenti che non godono del favore del grande pubblico del mondo, troppo spesso legati, secondo questa visione delle cose, ad un tribalismo autolesionista, vestito a festa da una concezione nazionale della distribuzione dei poteri nonché certamente votato alla rapida scomparsa del genere umano dalla faccia della terra. Non ci sfugge per nulla che Putin, quindi, abbia commesso un orrore non rimediabile e che si debba lottare con ogni mezzo contro questa ferocia per farla recedere, ma l’idea che da questa consapevolezza possa discendere la fine ultrarapida del nostro genere ci lascia profondamente perplessi, non ci trova d’accordo. Del resto, non è che Usa, Gran Bretagna e Turchia siano di idea diversa, altrimenti a quest’ora gli F35 della Nato darebbero filo da torcere ai caccia russi, e se il problema fosse - com’è - Putin, qualche missile sarebbe diretto contro il Cremlino. Senza badare alle conseguenze, dal momento che se si tratta di fermare un dittatore all’inizio di un’espansione imperialistica che ci metterà tutti comunque in catene, non puoi star tanto a pensare, devi darci dentro. Ma non si fa, per fortuna e che non si debbano allestire le no-fly zone lo ha deciso la Nato, non Roma, non l’Europa. Non è anche questa una contraddizione evidente ed insanabile? Sì, lo è. La trattativa riposa sempre su una contraddizione. Solo la guerra e lo “sprezzo” per la morte “se ne fregano” – a parole, lo si è visto e sperimentato nel corso dei secoli – della contraddizione, la fanno virilmente saltare.

"Le armi non sono una risposta"

Ma allora? Per quanto riguarda l’Italia, ma non solo, ci dividiamo lungo sotto-fronti pensosi: è giusto inviare armi convenzionali e a breve gittata agli ucraini che provano a respingere chi li sta massacrando? Una parte della buona coscienza del paese sostiene che non sia giusto, mettendo nel conto una veloce resa della resistenza, perché “le armi non sono la risposta e la risposta è la trattativa”, come se si fosse capito che da parte di Putin c’è voglia di trattativa vera, sincera, come se non si sapesse che se giungi alla trattativa a pezzi perché hai perso tutto non sarà, appunto, trattativa ma resa incondizionata. Certo, ci sono, e non sono pochi, gli orfani di Putin, quelli che lo hanno adorato a lungo e che oggi non sono più nelle condizioni di esternare liberamente il loro amore, lo capiscono perfino loro che se la devono mettere via. La scena di Salvini “sputtanato” coram populo da un sindaco di destra polacco che gli mostra la maglietta pro - Putin dal capo della Lega orgogliosamente indossata fino a poco tempo fa, è esemplare per spiegare la loro attuale sofferenza. Moltissimi altri, invece, sostengono che “le armi sì”, ma ancora una volta ragionevolmente…senza esagerare, altrimenti si accende la miccia nucleare e il governo italiano assieme ad altri, questo sta facendo.

Mille fili

Un momento: sono attive le sanzioni, durissime e sacrosante che butteranno sul lastrico il paese più vasto della terra e anche tra i più armati. Non bastano? Dovrebbero, dovranno…ma intanto? Intanto – quasi tutta la storia dell’uomo è un “ma intanto” – restiamo aggrovigliati nei mille fili che il mercato mondiale ha tessuto tra nazioni sempre più svuotate di potere, tra piattaforme continentali sempre più interdipendenti e di conseguenza sempre meno autonome: la terra si sta integrando intimamente e Putin è intervenuto in questo processo lucido, veloce, potente, creatore di nuove vite, di nuovi bisogni, di nuove realtà, con lo stile e lo stridore di un freno a mano vecchio come Sparta. Ecco perché finanziamo con i nostri bisogni primari le armate russe all’attacco dell’Ucraina, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Non è fantastico? Soprattutto noi e la Germania che dal gas del Cremlino dipende più di noi, se possibile. Benissimo: all’opera per tagliare i fili che ci legano a Mosca, ma serve tempo, oppure…. Decidiamo che siamo pronti a spegnere riscaldamenti, cucine e aziende per qualche anno, facciamo due, per essere bravi. Siamo pronti? Pronti il cinquanta per cento degli italiani, il sessanta per cento dei tedeschi, pronta l’Europa a fare la fame, ad ammalarsi finalmente di polmoni, quelli risparmiati dal virus? Perché o siamo pronti ad affrontare tutto questo, oppure saremo costretti a navigare nel mare delle contraddizioni fingendo che sia solo un film, poi si torna a casa e tutti risero. “Intanto”, sappiamo nulla di dove intenda arrivare Putin e nemmeno a cosa stia pensando di strategicamente rilevante l’amministrazione Usa. Normale.


A Kiev i leader di Visegrád, per l'Ucraina o contro l'UE?

Quando le agenzie internazionali hanno diffuso le foto della delegazione di capi dei governi di Polonia, Cechia e Slovenia a Kiev qualcuno a Bruxelles deve aver fatto un salto sulla sedia. Che ci faceva Jarosław Kazcyński insieme con i primi ministri di Varsavia, Mateusz Morawiecki, di Praga, Petr Fiala, e di Lubiana, Janez Janša? Kazcynski, a capo del partito di governo PiS (Diritto e Giustizia), è l’ispiratore della ribellione polacca all’ Unione europea in nome degli interessi e dei “valori” nazionali e la figura forse più nota e più dura e pura del sovranismo anti Ue. Che senso aveva la sua presenza nella missione? Non è passata neppure un’ora dalla diffusione della foto che da Bruxelles è arrivata a Morawiecki l’ingiunzione a precisare che i tre capi di governo “non rappresentano ufficialmente” le istituzioni europee. Ma la frittata era già fatta. Ieri mattina tanto la presidente della Commissione Ursula von der Leyen quanto il presidente del Consiglio Charles Michel avevano preso atto della missione senza nulla obiettare.

Il senso dell'iniziativa

Ma qual è stato, davvero, il senso dell’iniziativa? L’impressione è che con il loro gesto, anche coraggioso, di recarsi nella capitale ucraina sotto bombardamento, gesto che nessun altro leader europeo ha pensato di compiere, i tre leader del gruppo di Visegrád (mancava nella comitiva l’ungherese et pour cause come vedremo) abbiano in realtà voluto compiere una forzatura con una clamorosa manifestazione di appoggio alle richieste di Volodymyr Zelenski per un ben più forte coinvolgimento dell’Unione europea e della NATO nella guerra contro l’invasione di Putin. Non a caso il presidente ucraino, parlando nel primo pomeriggio (in collegamento) a una riunione della Joint Expeditionary Force, organismo che raggruppa i paesi nordici della NATO più Svezia e Finlandia, dopo aver per l’ennesima volta chiesto la no fly zone, aveva pronunciato il più duro atto d’accusa contro l’inerzia dell’alleanza – “non reagiscono neppure quando i missili russi cadono a 25 chilometri dal loro territorio”– e dell’Unione europea, la cui unica mossa di risposta alla criminale aggressione russa  è stata l’adozione di sanzioni “che non bastano assolutamente” e sono, nella loro pochezza, una prova di insensibilità nei confronti “dei bambini uccisi dalle bombe russe”.

Adesione immediata

È probabile che i leader dei tre paesi, nel prossimo futuro, uniscano le loro voci al coro di quanti chiedono che l’Unione compia un “gesto politico” ammettendo l’Ucraina immediatamente, saltando cioè a pie’ pari le lunghe e complesse procedure previste per l’adesione dal Trattato europeo. Una richiesta che aprirebbe un delicato dibattito sulla natura delle istituzioni di Bruxelles e il loro rapporto con gli stati e la loro sovranità. Proprio quello cui mirano le forze che sostengono i tre capi di governo che ieri erano a Kiev. Mancava – s’è detto – l’ungherese Orbán, il quale dall’inizio della guerra si è tenuto piuttosto defilato, probabilmente per non dispiacere troppo all’uomo del Cremlino che considera un po’ il suo mentore in fatto di “democrazia illiberale” e forse anche per certi dissapori con l’Ucraina in merito alle minoranze magiare nella Transcarpazia.

Non pare quindi che, a dispetto del giudizio frettoloso di qualche commentatore, il viaggio dei tre di Visegrád a Kiev possa essere annoverato tra i tentativi di mediazione del conflitto. I quali esistono, invece, rafforzati anche dalla sensazione che il nodo che all’inizio pareva il più complicato, la collocazione internazionale dell’Ucraina e il suo rapporto con la NATO, si sia andato, negli ultimi giorni, allentando. Ieri Zelenski è andato ancora più in là rispetto ai giorni passati nella disponibilità a discuterne affermando di “sapere” che l’Ucraina non è nell’alleanza né ci sarà in futuro.

Il problema è che, ormai, non c’è più solo questo sul piatto. La strategia militare di Putin lascia intendere chiaramente che l’obiettivo finale non è solo quello di costringere l’Ucraina a restare fuori dalla NATO e anche dall’Unione europea. L’annunciato proposito di voler indire un referendum nella città conquistata di Kherson, a maggioranza russofona, lascia intendere che il padre padrone della Russia sarebbe proprio intenzionato a mettere in pratica nell’Ucraina occupata in tutto o in parte quello che va predicando da tempo: il proposito di riunificare tutti i russi che la caduta dell’Unione sovietica ha lasciato fuori dal territorio della Federazione russa.

Israeliani e turchi

Questo sarà il punto caldo del negoziato che – dicevano ieri i protagonisti – avrebbe fatto “passi avanti” nei colloqui tra le due delegazioni che ormai dialogano soltanto a distanza per via telematica, e delle varie ipotesi di mediazione internazionale che continuano a circolare. Tramontata pare definitivamente quella cinese, che probabilmente non c’era mai stata; in stallo, ma con qualche probabilità di riprendere, quella tentata dal primo ministro israeliano Naftali Bennett, ieri è tornata alla ribalta quella turca. Il ministro degli Esteri di Ankara  Mevlüt Çavuşoğlu ha annunciato che oggi sarà a Mosca dove incontrerà il suo collega russo Sergeij Lavrov e non è escluso che possa essere ricevuto da Putin, poi andrà a Leopoli per colloqui con i dirigenti ucraini. Israele e la Turchia, al momento, non applicano sanzioni alla Russia e paiono gli unici due paesi in grado di dialogare con tutte e due le parti in conflitto.