La transizione dolorosa e il diritto di Adriana di essere Andrea

Emanuele Crialese esce nelle sale con L'immensità, film delicato e ampiamente autobiografico, incentrato sulla figura di Adriana, adolescente che affronta il proprio sentirsi ragazzo intrappolato in un corpo di giovane donna. Ma la transizione non è solamente quella della protagonista, raggiunge al contrario tutta la famiglia borghese e agiata della Roma degli anni Settanta che le ruota attorno: il padre Felice, crudele e fedifrago, sposato a Clara adorata nel più classico dei complessi edipici (“uccisione” del padre compreso) ma incapace di reggere il proprio ruolo di madre, i due fratelli minori, inconsapevoli protagonisti delle vicende, obbligati ad assistere alle incomunicabilità famigliari nella loro totale impotenza e fragilità.

Giovanna Cristina Vivinetto

Crialese però racconta con questo film, presentato all'ultima edizione della mostra del Cinema di Venezia, qualcosa che esula dalle proprie vicende private e che al contrario descrive molto bene la nostra contemporaneità: l'incapacità da parte delle generazioni precedenti di lasciare un patrimonio umano a quelle future. Perché in questo piccolo mondo narrato di felicità istantanee, di ricerca di rottura delle convenzioni, a pagare il prezzo più alto sono appunto i bambini lasciati soli, obbligati a diventare adulti prima del tempo e ad assumere loro stessi un ruolo non consono (si lamenterà a un certo punto Adriana della madre ricordandole i compiti che le spettano, ma soprattutto di non poter sopperire a quelle mancanze).

Così anche la scelta del genere bollata dal padre gretto e despotico come poco più di un capriccio assume un contorno totalmente esautorato da un’ipotesi di consapevolezza e di affermazione. Vive l'identità di Adriana (che vuole affermare il diritto di essere Andrea) la stessa precaria esistenza degli operai che con le loro baracche si trovano a pochi metri dall'abitazione della famiglia protagonista, separati appena da un campo di granoturco, possibile simbolo di cambiamento.

Difficile non avvicinare questo film al libro d'esordio di Giovanna Cristina Vivinetto, Dolore Minimo, uscito per Interlinea grazie all'intuizione e alla cura di Franco Buffoni e che ha saputo attraverso la poesia raccontare il dolore fisico, ma soprattutto umano della transizione

Dev'esserci stato in questo corpo
un punto scoperto, indifeso
un angolo lasciato illeso,
un grumo di nervi intoccato.
In quel punto noi ci incontravamo,
rifuggivamo chi non ci capiva
additandoci l'incomprensione del mondo.
Solo lì avevamo il diritto
di amarci senza presupposti,
senza congetture – solo lì
ci conoscevamo davvero.

Dev'esserci stato in questo corpo
un ponte ancora in piedi,
un traliccio telefonico
a recapitarti la mia chiamata.
Dev'esserci un muro senza ombre
di morti, un rifugio dove scappare
sempre – in questo corpo.

Come in ogni guerra la terra
cede, si annullano gli spazi,
i punto si allineano tutti uguali,
saltano le forme, le comunicazioni.
Ciò che resta si raggruma indistinto.

Da quando il corpo ha cominciato
a mutare, ogni punto è una parete
sfondata. Non ci sono più angoli
inviolati a contenerti.

Dal libro trae spunto la serie tivù Prisma

Vivinetto (da questo libro trae spunto la serie “Prisma” attualmente in onda su Amazon Prime Video) come Crialese ci racconta un mondo non pronto ad accettare, a comprendere, proiettato sull'immediato e su interessi istintivi, quasi tribali. Tutto quello che esce dalla norma, che non è possibile incasellare nel già noto e già identificabile, non è solamente da osservare e comprendere ma piuttosto da schiacciare o almeno nascondere.

Questa società ci sottolineano sia Crialese che Vivinetto con i propri film e libri non è pronta a includere, a capire, a sostenere, ad ammirare il coraggio nell'intraprendere un viaggio doloroso di accettazione e cambiamento. Sembriamo così ancorati alle regole da poterle infrangere solo come bambini capricciosi che rompono i giochi allo stesso modo in cui la figura di Clara elabora le avversità quotidiane. Ma il percorso che ognuno di noi dovrebbe fare per trovare “un proprio posto nell'immensità” e un proprio luogo dove essere amati per quello che si è nella propria essenza, quella possibilità recondita e magnifica, sembra per la stragrande maggioranza di noi ancora lontana se non ci si arrende a regole imposte in uno schema assolutistico che preferisce rifugiarsi nella tradizione per non vedersi nel profondo nella propria nudità.

Giovanna Cristina Vivinetto, Dolore Minimo, Interlinea.


Gli influencer non fanno poesia,
i versi veri traducono l'io in "noi"

Il primo dato di questi ultimi mesi non appartiene alla letteratura ma al cinema. Alla mostra di Venezia  abbiamo assistito alla proiezione del documentario nel quale viene raccontata la vita della prima influencer al mondo (secondo la rivista specializzata Forbes), una italiana da 17 milioni di followers divenuta grazie ai social network in dieci anni icona di stile e popolarità: una crasi che porta sempre più persone a pensare che la propria sorte dipenda da qualche post su Instagram al netto (e questo è il nodo) dalla proposta, dal contenuto sostanziale offerto.

Dove va la poesia

Anche in poesia qualcosa di simile sta accadendo perché è innegabile che anche la letteratura risenta, come la politica, come la quotidianità in genere, di questi fenomeni complessivi, e che proprio in questa tendenza risieda parte della fortuna - in termini di condivisione e di vendite - di alcune opere letterarie che fino a qualche tempo fa sarebbero rimaste ai margini dell'universo poetico per approdare più correttamente al vasto mondo della “varia”. A quale scenario stiamo approdando quindi? Proviamo ad affidarci a queste parole:

Chiara Ferragni

«[…] Sul piano della tematica, questo (l'ambiguità di tipo decadente) spiega la presenza di forti residui intellettualistici e soggettivistici, che di per sé non costituiscono certo un elemento negativo, ma lo divengono, quando li si vuol costringere nella camicia di forza della funzionalità sociale della cultura e dell'arte. Sul piano della protesta, questo spiega la frequente genericità dell'indignazione. Sul piano della proposta, questo spiega la forzata povertà delle indicazioni, che ancora una volta non escono dal classico binomio di solidarietà e speranza. Anche il positivo del mondo è ridotto, infatti, ad una pura espressione dei sentimenti: l'etica del buon cuore popolare, vecchia quanto la borghesia, rispunta fuori, anche se travestita di panni più pretenziosi e di motivazioni più generali. […]»1.

Un racconto collettivo

L'approccio della poesia non può insomma limitarsi a una rappresentazione dell'immediato ma deve al contrario ritrovare in particolare in Italia una spinta complessiva: quell'idea, cioè, che le questioni non devono interessare soltanto lo scrivente diventando semplice emanazione empatica di altri scriventi per il breve lasso di tempo necessario all'esplorazione minima dei sentimenti, ma devono al contrario diventare racconto collettivo, identità comune, terreno di analisi e di risoluzione - e non di esclusiva denuncia.

Kate Tempest

E la poesia europea è piena di questi esempi: sarebbe troppo semplice scomodare Armitage o Grünbein, o ricordare il lavoro di Lepori apparso nello scorso numero 94 di Atelier. Ricordiamoci allora che in Inghilterra oggi una intera nuova generazione è segnata da una poetessa, Kate Tempest, che poco più che trentenne non ne tratteggia solo il nichilismo o la rassegnazione ma che cerca soprattutto di tracciare una via d'uscita per non precipitare nel baratro.

La biblioteca delle esperienze

E noi? A mio avviso bisogna che su alcune questioni si ponga centralità, ma ancora una volta il primo approccio è sociologico ancora prima che letterario e passa da una considerazione della critica oggi in netta difficoltà, e non basta come esempio il tentativo fortunatamente rientrato di un noto quotidiano italiano di affidare ai lettori le recensioni letterarie: l'idea di un abbandono delle competenze in favore di un'utopica parità delle analisi ricorda quella casalinga di Voghera coniata da Alberto Arbasino ancora una volta negli anni '60, senza contare che oggi qualsiasi critica mossa agli scritti e alle opere viene recepita dal criticato non come un tentativo per migliorarsi quanto piuttosto come un attacco frontale, personale e privato, un'espressione di rancore, odio, invidia.

Fabio Franzin

Quello che va ricostruita oggi è una idea di comunità, di comunità reale vista come biblioteca di esperienze, di conoscenze, di avanzamenti tecnologici all'interno della letteratura, una “comunità degli animi” come scriveva Pino Corbo sull'Annuario di Poesia 1997 riferendosi all'omonimo libro di Cesare Viviani «che dia voce al disagio quotidiano di esistere e al dolore universale, senza retorica escatologia e populismo universale». Esistono margini in questo senso? Forse dobbiamo essere bravi noi tutti a raccontarli in questo senso, e un libro come Fabrica di Fabio Franzin dovrebbe essere considerato anche dalle nuove generazioni il giusto equilibrio tra vicenda privata, denuncia delle diseguaglianze e proposta di svolta collettiva e umana.

Affrontare la complessità

Perché come ribadisce bene Giusi Verbaro nel libro edito da Rubbettino “Le tracce nel labirinto. Leggere e far leggere la poesia contemporanea” (2019) e curato da Caterina Verbaro «[…] è importante ribadire la valenza sociale della poesia: sia in quanto è sempre più necessario che la società favorisca la diffusione di una cultura poetica, riconoscendo in ciò la funzione benefica della poesia. Frequentare testi poetici significa infatti sviluppare capacità sociali essenziali, come l'empatia, il rispetto, la comprensione per l'altro; significa diventare capaci di affrontare la complessità, di non rimuovere l'ambiguità del reale, di non rinunciare alle sfide. Tutte cose di cui il nostro corpo sociale oggi, e tanto più i giovani, hanno un enorme bisogno.» (p. 26).

Dall'io al noi

E dunque come può essere questa scrittura se permeata da una spinta di rivendicazione personale e personalistica, corporativa e di auto-proclamazione? Attendersi tramite la letteratura quello che altrove accade per gli influencer non è impossibile nel mondo attuale, ma certamente lontano dall'essenza del fare poesia. Perché all'interno di una vita privata, di una vita in versi, lo sforzo deve essere quello di parlare con la voce di tanti, di fare diventare il proprio “io” un “noi”: «la mia colpa sociale è di non ridere, / di non commuovermi al momento giusto. / E intanto muoio, per aspettare a vivere» così scriveva Giudici - e sdoppiandosi raccontava perfettamente la società nella quale viveva.

Chi saprà oggi continuare il proprio percorso poetico in quell'ottica sarà probabilmente in grado di scrivere opere in grado di rimanere; intanto le riviste e la critica dovranno necessariamente continuare il proprio compito di filtraggio e selezione, in maniera laica, concreta, appassionata e rigorosa. Se questo accadrà negli scaffali di poesia troveremo (almeno in parte) le giuste opere, e non altro.