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La morte di Per Olov Enquist,
capace di soggiogare il lettore

Per Olov Enquist è uno scrittore nato in un villaggio nel nord della Svezia, che non ha ricevuto il premio Nobel che pure avrebbe meritato – i latini avevano ragione: nemo propheta… – e che, seppure connazionale di Stieg Larrson, non ha scritto gialli. Per questo quando si dice “Svezia” il suo nome non si accende in automatico nella mente dei lettori italiani.
A meno che l’italiano in questione non abbia consumato anche uno solo dei suoi titoli tradotti da Iperborea: “August Strindberg: una vita”, “La partenza dei musicanti”, “Processo a Hamsun”, “Il medico di Corte”, “Il viaggio di Lewi”, “Il libro di Blanche e Marie”, “Un’altra vita”, “Il libro delle parabole” (usciti invece per Marietti “I serpenti della pioggia” e per Giano “La biblioteca del capitano Nemo”).

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Perché Enquist, morto ottantacinquenne sabato scorso a Vaxholm, era un artista capace di soggiogarti anche con un singolo libro.

Romanziere e drammaturgo

Era un autore poligrafo: romanziere ma anche drammaturgo (nel 1999 al Piccolo la sua pièce “Bildmakarna” andò in scena con la regia di Ingmar Bergman) e giornalista sportivo. In fatto di intelligenza e di etica incarnava quel meglio che il secondo Novecento europeo ha saputo darci. Ed era uno scrittore dalla prosa che, ipnotica e sensuale, procedeva come le acque di un grande fiume.
Amava il romanzo storico, Enquist: “La partenza dei musicanti” ricostruiva la nascita del movimento operaio nella Svezia conservatrice e rigidamente religiosa di inizio ‘900, “Il medico di Corte” la rivoluzione illuminista “octroyée”, calata dall’alto in Danimarca trent’anni prima della Rivoluzione francese, dal giovane re Cristiano VII, indotto a farlo dal suo medico-guru, Struensee.
E amava la materia rovente: come le vite tutt’altro che esemplari di due scandinavi di culto, Strindberg e Hamsun.

Bellezza abbagliante dell'autobiografia

Ma, se ora che è morto, vogliamo conoscerlo davvero, leggiamo “Un’altra vita”: è un’autobiografia di una bellezza abbagliante, uscita in Italia nel 2010, nella quale Enquist si inoltra nel pozzo in cui era sprofondato tra la fine degli anni ’70 e i primi ’90, l’alcolismo. Biografo di altri, lì parlava di sé in terza persona: “Dopo aver scritto cinquanta pagine usando l’Io, ho capito che non mi piaceva. E ho scoperto che, così, era più facile osservare quello strano personaggio che aveva il mio stesso nome” ci raccontava.

Dialogo col padre

Se scrivere dell’alcolismo era un’agnizione faticosa, altrettanto impegno richiedeva affrontare il segreto emotivo che sulla pagina l’autobiografo Per Olov ci consegnava: il dialogo immaginario (alienazione o dono di dio?) che, lui settantaseienne, alto come un gigante, gigante della scrittura, proseguiva da sempre con suo padre, il Capitano Nemo, il Flash Gordon della sua infanzia orfana. «È una conversazione ininterrotta, anche ora in viaggio gli dicevo “Vedrai com’è bella l’Italia, non sai che fantastiche squadre di calcio hanno”. Il solo momento in cui non ho coltivato questo dialogo è stato quando bevevo, perché provavo vergogna» confessava.

Un modo di sentire

Un’altra vita” dimostra che essere uno scrittore grande è un modo di sentire: gli stessi avvenimenti sarebbero stati solo una carrellata, se a viverli e a restituirceli non fosse stato il prisma bergmaniano e ironico, cauto e spietatamente sincero, dell’animo di Enquist. L’alcolismo sarebbe un vizio da divi hollywoodiani, se non ci fosse chi – Per Olov, un grande del Novecento scomparso sabato scorso - è in grado di restituircelo nella profondità, perfino nella creatività del suo degrado.