Sovranisti italiani
a Strasburgo, cronaca
di un flop annunciato

Da Bruxelles arrivano brutte notizie per il governo di casa nostra, per i gialli e per i verdi. Stavolta non si tratta di giudizi e di dati economici ma di numeri puri e semplici: quelli che gli uffici del parlamento europeo hanno diffuso nella seconda “puntata” del sondaggio sulle intenzioni di voto alle elezioni di fine maggio. Ci sono molte ragioni per criticare, nello spirito e nel metodo, quel sondaggio, come ha scritto su strisciarossa Virgilio Dastoli (https://www.strisciarossa.it/europee-linsostenibile-leggerezza-dei-sondaggi/), ma ormai è stato fatto e qualcosa quei numeri ci raccontano. Vediamo che cosa.

  • Le destre sovraniste aumenteranno un po’ rispetto alle posizioni che avevano nel parlamento uscente ma la loro non sarà affatto un’avanzata travolgente, come almeno qui in Italia molti (anche a sinistra) mostrano di pensare. I tre gruppi in cui sono sparpagliati attualmente, Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei - ERC con 74 deputati, Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta - EFDD (44 deputati) e Gruppo Europa delle Nazioni e delle Libertà - ENF (39 deputati) nell’assemblea attuale hanno in tutto 157 deputati sul totale di 751. Nel prossimo parlamento, in cui i seggi saranno solo 705 perché (sempre che nel frattempo ci sia stata la Brexit) mancheranno i britannici, i suddetti tre gruppi secondo il sondaggio dovrebbero averne 144 (46 ERC, 39 EFDD e 59 ENF). Chi sa fare i calcoli a mente si accorgerà che 144 su 705 è un po’ di più di 157 su 751, ma davvero poco…Naturalmente non è affatto detto che i gruppi della destra restino così come sono. Anzi, ci saranno certamente dei rimescolamenti. Per quanto riguarda gli italiani, ora i leghisti di Salvini sono nell’ENF ma vorrebbero riunirsi con i polacchi del partito di Jarosław Kaczyński che attualmente si trovano nell’ERC, mentre i 5Stelle che sono nel EFDD stanno cercando con patetica disperazione alleanze per poter costituire un altro gruppo. Per il momento senza costrutto. La partita è molto complessa e non ci addentriamo nelle ipotesi per non abusare della pazienza dei lettori. Vedremo. Quel che è certo è che anche nell’ipotesi, remotissima, che partiti nazional-sovranisti ispirati al principio “prima i miei” riuscissero a compattarsi tutti in un’unica entità, la “superlega europea” di cui vagheggiò qualche tempo fa Salvini o il Rassemblement européen evocato insieme con Marine Le Pen, questo gruppo sarebbe comunque molto indietro ai 181 deputati che i sondaggi attribuiscono al gruppo popolare e pochissimo avanti ai 135 attribuiti al gruppo socialista. L’ondata sovranista “che cambierà tutto in Europa”, come continua a dire Salvini e, assai meno comprensibilmente, anche Di Maio proprio non ci sarà.
  • Il gruppo popolare (181 deputati previsti dal sondaggio) e quello socialista (135) non avranno più da soli la prevalenza numerica che hanno sempre avuto nel parlamento europeo. Ma c’è un terzo gruppo, quello liberale (ALDE) che con i suoi (stimati) 75 deputati assicurerà comunque una comoda maggioranza. Un’intesa tra i tre gruppi è esistita già nella legislatura attuale e ha portato, per fare solo un esempio, all’elezione di Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione. Non entriamo nel merito delle scelte politiche che una simile maggioranza potrebbe compiere specialmente in materia economica e sociale. La sinistra avrà certamente le sue battaglie da fare. Diciamo soltanto che si tratta di tre formazioni politiche che, pur avendo qualche marginale dissidenza interna (per esempio l’ungherese Orbán nel PPE, il cèco Bubis nell’Alde, i socialisti slovacchi nel PSE), sono chiaramente insediate nello schieramento a favore dell’integrazione europea. Se poi si aggiungono i Verdi (49 deputati previsti dal sondaggio), e le sinistre del GUE (47), nella cui componente più forte, la Linke tedesca, proprio nei giorni scorsi è prevalso l’orientamento filo-integrazione, i rapporti di forza tra europeisti ed euroscettici sono decisamente a favore dei primi. L’euroscetticismo dei sovranisti è l’opinione di una netta minoranza, ancorché chiassosa.
  • I sovranisti sono una minoranza ma, si dice, potrebbero condizionare da destra i moderati del PPE. È un pericolo ben più che ipotetico se si considerano gli eventi politici osservati in diversi paesi. Basterà ricordare le scelte sciagurate della CSU bavarese che nella campagna elettorale per il governo del Land si mise a inseguire gli xenofobi di Alternative für Deutschland sulla propaganda anti-immigrati, o come Forza Italia, che a Strasburgo si è dissociata dal voto di condanna dell’assemblea alla politica di Orbán, non si faccia problemi a condividere le violente pulsioni securitarie della Lega. Ma il sondaggio anche qui ci offre un dato tranquillizzante: non esiste, nemmeno in teoria, una maggioranza possibile tra i moderati del PPE e le forze sovraniste. Non ci sono i numeri perché, se il sondaggio dice il vero, insieme il gruppo popolare e i tre gruppi sovranisti non andrebbero oltre i 325 deputati, ben al di sotto della maggioranza relativa di 353 seggi. E se non ci sono i numeri viene a mancare anche la tentazione.

Le considerazioni fatte fin qui valgono per i risultati che il sondaggio prevede a livello europeo e che è stato assemblato sommando i sondaggi effettuati paese per paese. Un metodo criticabile che, infatti, è stato molto criticato. Va detto che il sondaggio effettuato in Italia spiega, almeno in parte, la diffusa impressione, qui da noi, che le elezioni europee registreranno un’ondata sovranista. La Lega infatti viene accreditata al 33,3%, quasi dieci punti in più dei 5Stelle (24,3), mentre il PD sarebbe al 16,9%, Forza Italia al 9,1, Fratelli d’Italia al 4,4 e tutti gli altri fuori.  Salvini riuscirebbe a far eleggere 28 deputati, che farebbero del suo il partito con più rappresentati nell’aula dopo la CDU/CSU. I Cinquestelle ne porterebbero 21, 14 il PD, 9 FI e 4 FdI. Ma i quarantanove deputati gialloverdi italiani si disperderanno in gruppi che assomiglieranno più a una armata Brancaleone che alla testuggine romana che Luigi Di Maio copiò da Wikipedia. Conteranno molto poco: ecco un buon argomento da usare nella campagna elettorale.

 

 

 


Europee, il bluff di Salvini e l'autogol di Di Maio

E così Matteo Salvini vuole fare il presidente della Commissione europea. Vuole andare a Bruxelles per portare a compimento il lavoro al quale si sta dedicando da mesi in Italia: distruggere l’Europa che esiste per sostituirla con l’Europa delle nazioni sovrane che pensa lui e che magari, chissà, un giorno ci spiegherà che cosa dovrebbe essere e come dovrebbe funzionare.

Intanto, lui e l’amico-nemico Luigi Di Maio si esercitano nella divinazione: “A maggio questi se ne vanno tutti a casa”. Quante volte lo avete sentito dire dal boss leghista, dal pentastellato e dai loro portavoce e portaborse? “Questi”, va da sé, sono il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, “l’ubriacone”, l’odiatissimo commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, il quasi altrettanto odiato commissario al Bilancio Günther Oettinger e tutti i loro colleghi in blocco. Le elezioni di fine maggio “li spazzeranno via” e porteranno al potere una Commissione “nostra” che rivolterà l’Europa come un calzino: basta burocrati, basta disciplina di bilancio, basta arrivi di migranti. A Bruxelles arriviamo noi. E sullo sfondo sembra di sentire la cavalcata delle walkirie.

Ma davvero? Purtroppo (per loro) non andrà proprio così. Si tratta di una fake news, come si dice adesso. Intanto per un motivo banalissimo: a fine maggio si voterà per il parlamento europeo e non per la Commissione. Il parlamento eletto dovrà insediarsi, a luglio, poi eleggere il presidente sulla base delle indicazioni venute dagli elettori con il sistema degli Spitzenkandidaten (candidati alla presidenza della Commissione di partiti e schieramenti) a fine luglio, poi fare le audizioni di tutti e 28 i commissari designati dai governi e queste prenderanno tutto settembre una buona parte di ottobre. Infine bisognerà votare l’esecutivo in blocco. Realisticamente si può pensare che prima degli ultimi giorni di ottobre o i primi di novembre la nuova Commissione non ci sarà. Per dire, Juncker nel 2014 fu eletto il 22 ottobre, mentre per il primo mandato di José Barroso si dovette aspettare addirittura il 22 novembre, grazie anche a Berlusconi che si era intestardito a candidare l’omofobo Rocco Buttiglione come commissario alla Giustizia e alle Libertà pubbliche. Il calendario è già di per sé una pessima notizia per il governo italiano, se sarà ancora quello che c’è adesso: altro che andarsene, molto probabilmente saranno ancora Juncker, Moscovici e compagnia bella a dover giudicare anche la manovra economica dell’anno prossimo. E considerando come sta andando quest’anno non saranno rose e fiori.

Quindi, cari Salvini e Di Maio, per liberarvi di “quelli” dovrete avere pazienza per un altro annetto buono. Ma siamo poi sicuri che mandati a casa loro per voi le cose si metteranno al meglio? Vediamo un po’.

Il presidente della futura Commissione sarà indicato dagli elettori al momento del voto per il Parlamento europeo. Una eventuale candidatura Salvini che possibilità avrebbe? Il sistema elettorale è proporzionale e i partiti sovranisti o più tradizionalmente nazionalisti sono in Europa una minoranza. Rumorosa, e magari pure in crescita, ma sempre una minoranza. Nei paesi della penisola iberica praticamente non esistono, nei paesi nordici non vanno oltre il 16-17%, in Germania sono intorno al 12, e così nei Paesi bassi e in Belgio. Sono forti, e al potere, in Polonia, in Cechia e in Ungheria, dove però Orbán si spaccia per popolare e i popolari europei, finora, hanno finto di crederci. Per essere uno Spitzenkandidat, o come sceglierebbe di definirsi se l’espressione tedesca non gli garba, Matteo Salvini dovrebbe avere un partito. Ora, qualcosa che assomiglia a un partito europeo di estrema destra c’è: è l’ACRE, Alleanza dei Conservatori e Riformisti (sic) in Europa, di cui è presidente il ceco Jan Zahradil e vicepresidente Daniele Capezzone (chi si rivede!). Ne fanno parte, tra gli altri, i polacchi del PiS (Diritto e Giustizia) al potere a Varsavia e i conservatori britannici, ormai in uscita.

Accetterebbe l’ACRE di farsi guidare al voto europeo da un leghista italiano che, oltretutto, milita attualmente in un altro gruppo parlamentare, l’ENF (Gruppo europeo delle Nazioni e delle Libertà), che raccoglie i nazionalsovranisti duri e puri, dal Front National all’austriaca FPÖ ad Alternative für Deutschland e via fascisteggiando? Pare abbastanza difficile. In realtà è proprio l’idea di un’alleanza transnazionale tra partiti di destra sovranisti e nazionalisti che appare irrealizzabile per intuibili ragioni di principio. Se uno predica “prima gli italiani (o i francesi, i tedeschi, i belgi o chi sia sia)” ha poi qualche problema ad allearsi con chi ha altri “prima i miei” da far valere. E non a caso i tentativi di creare un fronte sovranista internazionale sono andati finora tutti a ramengo. Della Lega delle Leghe evocata da Salvini qualche mese fa non si parla più, il “Fronte delle Libertà” lanciato insieme con Marine Le Pen qualche settimana fa a Roma non pare aver raccolto adesioni. Del mago trumpista Steve Bannon che era sbarcato in Europa per insegnare ai sovranisti di qua come si fa si sono perse le tracce; i tedeschi di Alternative für Deutschland, da una parte dei quali era venuto qualche segnale d’interesse (mentre l’altra ala gli italiani e i francesi non li vuole vedere neppure in fotografia) sono stati ridimensionati in Baviera e neppure i Demokraterna svedesi e i Veri Finlandesi sembrano sulla cresta dell’onda.

L’ultima delusione è arrivata dall’Austria: il cancelliere Sebastian Kurz, che guida pure lui un governo in cui ci sono gli estremisti di destra e che Salvini considerava “uno dei nostri”, gli ha mollato due bei ceffoni. Prima al Parlamento europeo ha votato come tutto il PPE (eccetto i berlusconiani) la condanna di Orbán e poi ha pronunciato il giudizio più duro e sprezzante di tutti i suoi colleghi contro i “populisti italiani” che pretendono di mandare alla rovina le finanze europee.

Interessante, questa uscita di Kurz, perché mette in luce un’altra inestricabile contraddizione della politica di Salvini verso l’Europa. Se davvero, come spera lui, le destre dure e pure dovessero conquistare il potere a Bruxelles i cambiamenti che introdurrebbero sarebbe favorevoli all’Italia? A parte qualche frangia, ultraminoritaria, di destra “sociale”, i partiti di quell’area politica in fatto di dottrine economiche sono prevalentemente ultramonetaristi. Forse, se fossero al potere, si metterebbero a sfasciare l’Unione e le sue istituzioni, ma si può star tranquilli sul fatto che, finché l’Unione esiste e pure la sua moneta comune, non propenderebbero affatto a consentire all’Italia di mettere in pericolo i conti e l’euro. La destra al potere, o anche un centro moderato ancora più condizionato dalla destra di quanto lo sia ora tenderebbe a rafforzare l’austerity, a blindare la disciplina di bilancio contro le cicale che abitano il paese della Dolce Vita e portano tutti verso la bancarotta. Chi ha qualche dubbio, non ha da far altro che buttare un occhio sulla stampa popolare (e populista) della Germania e dei paesi nordici. I populismi, come i nazionalismi, non possono che essere nemici gli uni con gli altri. E non è necessario sottolineare quanto sarebbero nemici i populismi degli altri contro il populismo italiano in materia di immigrazione e di distribuzione dei profughi…

Se tutto questo è vero, c’è da chiedersi perché Matteo Salvini, cui il fiuto politico non manca davvero, abbia buttato là quest’idea di candidarsi a Bruxelles. C’è da dubitare seriamente che pensi davvero di farcela. È più probabile che si tratti di una mossa tattica. Come Spitzenkandidat alla presidenza della Commissione Ue l’uomo avrebbe una visibilità ancora più forte di quella che ha. Ed è lecito il sospetto che questo surplus se lo giocherebbe assai più in Italia che in Europa. Una spiegazione, insomma, per Salvini ci sarebbe. Ma Di Maio? Non gli viene il dubbio che quando “quelli” se ne andranno potrebbero arrivare avversari ancora più duri? Chissà se qualcuno è in grado di spiegarglielo.


Salvini-Le Pen, il Fronte diventa piccolo piccolo

La “Lega delle Leghe” non c’è più. È stata sostituita da un ben meno fantasioso “Fronte della libertà”. Lo hanno annunciato a Roma Matteo Salvini e Marine Le Pen in un convegno organizzato dal sindacato di destra UGL sul tema “Crescita economica e prospettive sociali in un’Europa delle Nazioni”. L’Europa “delle nazioni” è quella che verrà quando – ci spiegano Salvini e Le Pen (e Di Maio si accoda) – le elezioni del giugno prossimo avranno spazzato via l’Europa che c’è adesso, con Juncker, Moscovici, la Commissione, i burocrati dei “numerini” da opporre alle maschie ragioni della destra che ha vinto in Italia e vincerà dappertutto per il continente. Anche il Front National non c’è più. Forse anche per sfuggire alle indagini della magistratura che ha messo il naso su certe operazioni finanziarie, il partito di madame Le Pen ha cambiato ragione sociale e ora si chiama Rassemblement Nationale. Tutto nuovo, insomma, e il vento –dicono- soffia in poppa.

Sarà. E però nelle stesse ore in cui il ministro faccio-tutto-io italiano e la giovanna d’arco trombata alle elezioni se la tiravano al convegno, da Berlino arrivavano bruttissimi segnali. Horst Seehofer, il ministro federale dell’Interno nonché capo della CSU alle prese con l’incubo di una batosta alle elezioni regionali di domenica prossima, non mollava di un millimetro sul programma di rimandare in Italia tutte le migliaia di Asylanten che, approdati sulle nostre coste, sono poi passati in Germania alla ricerca di parenti, comunità e lavoro. Non solo, ma con una certa perfidia dal suo ministero facevano notare che il programma è in atto ormai da molti mesi. Da molti mesi cioè i voli charter partono dalla Repubblica federale alla volta dell’Italia, per cui proprio non si capisce che cosa pensino di ottenere i vicecapi del governo italiano, tutti e due giacché Di Maio si è subito associato, con la loro bizzarra minaccia di chiudere gli aeroporti.

Il problema è che i rinvii in Italia avvengono in base al regolamento di Dublino, proprio quello che il governo italiano accettò che non venisse messo in discussione a fine giugno nel vertice di Bruxelles dedicato all’immigrazione, quello che l’ineffabile Conte provò a venderci come una “vittoria italiana”. La “vittoria italiana” consisteva nel fatto che la distribuzione dei profughi sarebbe avvenuta su base volontaria, come chiedevano gli strani alleati che l’Italia salvinesca si era scelta nel gruppo di Visegrád, con il corollario di un’”intesa totale” tra il ministro italiano e il suo collega tedesco.

L’intesa si scoprì poi non solo non era totale, ma non esisteva proprio e Seehofer, tornato in Germania, si mise alacremente al lavoro per rimandare i profughi da dove erano venuti, cioè da noi. Così sperava di tamponare l’emorragia di voti che i sondaggi segnalavano dalla sua CSU agli ultra estremisti di Alternative für Deutschland in vista delle elezioni bavaresi. Cosa che – detto per inciso – non è avvenuta per il noto principio che tra l’originale e le brutte copie gli elettori tendono sempre a scegliere l’originale.

Questo è l’antefatto. Il fatto è che dalla Grande Alleanza che si sarebbe dovuta travasare nella Lega delle Leghe si è sfilata con la CSU proprio la componente che avrebbe dovuto dare più lustro all’operazione: un grande partito storico, membro del governo più importante d’Europa e orientato a erodere dall’interno, fino al boicottaggio, l’odiatissima cancelliera Merkel, simbolo di buonismo verso i profughi e bestia nera di tutti i sovranisti d’Europa.

E non è solo Seehofer a mancare all’appello. Neppure dagli anti-islamisti dell’olandese Geert Wilders, dai nazionalisti fiamminghi, dai demokraterna svedesi, dai “veri finlandesi”, insomma da tutta la variegata galassia del sovranismo nazionalista europeo arrivano più segnali d’interesse per la Grande Alleanza. Almeno per il momento.

Altro che vento in poppa: il progetto langue. E non è poi difficile intuire perché. Le convergenze tra partiti nazionalisti, il cui motto è “prima i nostri (italiani, francesi, olandesi e così via)” sono impossibili per definizione. Non basta odiare l’Unione europea per fondare un’alleanza perché, bene o male, bisogna anche immaginare il “dopo” in cui gli interessi nazionali avranno libero corso ed è ben difficile immaginare questo “dopo” se non come una lotta di tutti contro tutti.

Per ora il “Fronte della libertà” è un asse tra la Lega e il Rassemblement francese, con una incongrua appendice a cinque stelle sul coté italiano. Durerà fino a che i sovranisti italiani non si accorgeranno che i loro interessi divergono da quelli dei francesi. Per esempio in fatto di acquisizioni di aziende, di dazi, semmai dovessero tornare, di politica del petrolio in Libia o altrove.

Se queste sono le premesse, il sogno di spazzare via questa Europa rimarrà un sogno. Sempre che le forze progressiste e della destra moderata, gli europeisti, non si sparino sui piedi. Perché allora diventerebbe un incubo.


Unione, governance
senza democrazia

Si diceva venticinque anni fa: “se l’Unione presentasse domanda di adesione all’Unione la domanda sarebbe respinta perché il suo sistema non rispetta i principi fondamentali dello Stato di diritto o più specificatamente i criteri decisi dal Consiglio europeo di Copenaghen del 1993: la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, l’esistenza di un’economia di mercato e la capacità di assumere gli obblighi derivanti dai trattati”. Da allora in poi e con i Trattati di Maastricht, Amsterdam, Nizza e Lisbona qualche passo in avanti sul piano dello Stato di diritto (formale) è stato fatto: sono stati ampliati i poteri legislativi del Parlamento europeo, l’esecutivo dell’Unione (la Commissione europea) è sottoposto al controllo democratico dell’Assemblea non solo in uscita con il voto di censura ma anche in entrata con l’elezione del Presidente, il metodo degli “Spitzenkandidaten” e il voto di fiducia, la Carta dei diritti fondamentali è diventata giuridicamente vincolante avendo lo stesso valore dei Trattati o – afferma qualche giurista – essendone addirittura superiore perché sovraordinata a essi in ragione dei valori e principi comuni sanciti a monte dei trattati.

Dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona in poi (dicembre 2009) lo Stato di diritto formale è stato progressivamente sostituito da una costituzione materiale resa necessaria – è stato affermato dai governi nazionali – dall’ampiezza della crisi economica e finanziaria e dall’urgenza di salvare l’Unione dal fallimento del suo nucleo essenziale e cioè l’unione monetaria e la moneta unica.

E’ stato progressivamente creato – in buona parte al di fuori o contro i trattati – un sistema di governance (l’espressione fu inventata dalla Commissione trilaterale negli anni ’70 per mettere sotto controllo l’eccesso di democrazia negli Stati nazionali) che riunisce l’Eurogruppo (il Consiglio dei ministri delle finanze della zona Euro) previsto dal Trattato, i Vertici della zona Euro (le riunioni dei capi di Stato e di governo) non previsti dai trattati, la Commissione i cui poteri si sono progressivamente evaporati per l’irrompere sulla scena istituzionale dei governi nazionali con buona pace del metodo comunitario di Monnet, la BCE che ha spesso agito con iniziative border-line nel bene (i quantitative easing) e nel male (le lettere dell’estate 2011 ai governi italiano e spagnolo), la Troika, il Meccanismo – intergovernativo – europeo di stabilità.

Quest’insieme opaco e legibus solutus ha agito non solo per rafforzare la sorveglianza delle politiche finanziarie nazionali ma anche per determinare l’agenda politica dell’Unione e degli Stati membri in tutti gli aspetti delle politiche economiche, fiscali e del welfare.

Al di sopra di tutto e di tutti si è posto il Consiglio europeo nelle molteplici versioni delle riunioni dei capi di Stato e di governo dei 28, nei Vertici a 27 dopo il Brexit, nelle riunioni della zona Euro a 19 ma anche nelle versioni più ristrette di un direttorio a 4 (Francia, Germania, Italia e Spagna), con decisioni che hanno sistematicamente violato le disposizioni dell’art. 15 del Trattato sull’Unione europea che recita “Il Consiglio europeo non esercita funzioni legislative”.

La nuova governance non ha funzionato con efficacia per far uscire l’Unione dalla crisi e per recuperare il consenso dei cittadini ma al contrario le economie di molti paesi membri sono rimaste a lungo stagnanti o hanno fatto dei passi indietro, l’Unione europea nel suo insieme e la suo interno la zona Euro ha perso ulteriormente in competitività e, quel che è più grave, il modello sociale europeo è stato progressivamente devastato aumentando le diseguaglianze fra paesi e all’interno dei paesi membri.

La priorità data alle finanze (e alla riduzione dei debiti pubblici) ha impedito all’Unione di attrezzarsi per far fronte a nuovi problemi epocali: l’aumento dei flussi migratori, il terrorismo, le guerre ai nostri confini, il cambiamento climatico cosicché l’incapacità di far fronte a questi problemi rischia di far fallire il progetto europeo più che la crisi dell’Euro.
Dai governi nazionali, che sono magna pars della nuova governance, non sono venuti segnali significativi della volontà di cambiare rotta né tale volontà è apparsa evidente nel Parlamento europeo e nella Commissione che pure hanno il diritto-dovere di far proposte per riformare l’Unione.

L’attenzione dei media è stata attratta recentemente dalle provocazioni intellettuali di politologi ed economisti come Thomas Piketty in Francia e il suo “trattato di democratizzazione dell’Europa” e Sergio Fabbrini in Italia e il suo progetto di “sdoppiamento dell’Unione”.

Spinelli avrebbe detto: “vogliono fare una frittata senza rompere le uova” perché l’obiettivo fondamentale di Piketty e Fabbrini è quello di superare o evitare lo scoglio del passaggio dall’Europa degli Stati-nazione all’Europa federale per preservare nello stesso tempo la sovranità statale e rafforzare la dimensione sopranazionale.
E’ sintomatico quel che scrive Piketty per giustificare la sua proposta di un’assemblea parlamentare della zona euro composta da deputati nazionali: “piuttosto che contrapporre il “nazionale” all’ “europeo” Il T-dem (il suo Trattato, ndr) poggia sulla legittimità e l’ancoraggio politici dei parlamenti nazionali per costruire il quadro democratico della zona Euro”.
La risposta di Jean-Claude Juncker nel suo discorso sullo “stato dell’Unione” del 13 settembre, in cui respinge la proposta di un parlamento e di un bilancio autonomi della zona Euro proponendo un ministro europeo delle finanze, un Fondo Monetario Europeo e un’unione personale fra Presidente della Commissione e presidente del Consiglio europeo, è inadeguata ed incompleta perché lascia sostanzialmente incontaminato il sistema dell’Unione a 27.

Nel tentativo di fare la frittata senza rompere le uova, Piketty e Fabbrini dimenticano di affrontare due questioni fondamentali: la formazione di un governo federale – con poteri limitati ma reali – che agisca nei settori in cui gli Stati nazionali sono incapaci di agire e il metodo per cambiare l’Unione passando dai negoziati intergovernativi alla scrittura di un nuovo Trattato-costituzione affidata ai rappresentanti dei cittadini.

Se dovessimo citare Habermas, dovremmo dire che occorre superare il “federalismo degli esecutivi” per costruire un federalismo realmente democratico nel metodo e nella sostanza.