Tra false notizie e polemiche
“A ciambra” va agli Oscar
Vale la pena di ritornare sulla notizia del film italiano designato per la corsa all’Oscar, perché mai come quest’anno questo rituale cinematografico ha provocato un pericoloso crocevia di false notizie e autentiche polemiche politiche. Ricordiamo i fatti: la commissione nominata dall’Anica (l’associazione nazionale dei produttori) ha scelto, fra i 14 film che si erano iscritti alla gara, “A ciambra” di Jonas Carpignano. Passato lo scorso maggio alla Quinzaine (prestigiosa sezione collaterale del festival di Cannes) con ottimi riscontri critici e uscito in sala a fine agosto distribuito da Academy Two (con incassi, va detto, modesti), è l’opera seconda di un regista italo-americano 33enne, girata e ambientata in un’autentica comunità rom della Calabria. Un film di impianto “neorealista”, con attori presi dalla vita e uno sguardo potente e non convenzionale su uno spaccato emarginato – e a molti non gradito – della nostra società.

Carte in tavola: qui non si parla della giustezza o meno della designazione. C’erano in lizza registi più noti e consolidati, come Gianni Amelio e Sergio Castellitto, ma la commissione così ha deciso. Ogni discussione è oziosa, così come i pronostici. Qui ragioniamo su due aspetti: la diffusa ignoranza del meccanismo del premio Oscar, sia in fase di designazione sia, poi, di partecipazione alla gara; e la volgarissima affermazione del leader della Lega Matteo Salvini, che si è sentito in dovere di commentare la scelta più o meno così: dopo i migranti di “Fuocoammare” (il documentario di Gianfranco Rosi designato l’anno scorso) i rom, possibile che “il grande cinema italiano” non abbia di meglio di offrire?
Primo aspetto: come si arriva a essere designati per “questo” Oscar, e come funziona poi la competizione.
Parliamo, è bene ricordarlo, dell’Oscar per il “miglior film in lingua straniera”, cioè non girato in inglese, clausola del regolamento che esclude l’ottimo film di Luca Guadagnino “Call Me By Your Name”, così come l’anno prossimo escluderà il nuovo film di Paolo Virzì (in uscita in Italia nel 2018) “The Leisure Seeker”. Conta la lingua, non la nazionalità. Detto questo, ogni paese del mondo candida un suo film a questa gara, scelto con criteri diversi, ma quasi sempre dalle categorie professionali. In Italia, come si diceva, l’Anica nomina una commissione che sceglie tra un numero variabile di film – attenzione! – che si siano ISCRITTI alla corsa. Quando sono stati annunciati i 14 film in lizza, sui social si è scatenata la bagarre, anche fra gli addetti ai lavori: vergogna!, non c’è questo o quell’altro film, non c’è “Sole cuore amore” di Daniele Vicari o il citato film di Guadagnino, ma come cavolo lavorano i selezionatori? Siamo, come vedete, nel regno delle fake news provocate dall’ignoranza. Per partecipare alla selezione un film deve iscriversi, pagando tra l’altro una quota d’iscrizione di 500 euro a fondo perduto. Se un film non è in quella lista – ed è il caso di “Sole cuore amore” – è perché regista e produttori hanno deciso di astenersi, sapendo probabilmente di avere poche chances (e sul discorso-chance torneremo). Sono quindi catalogabili come fake news sia i commenti indignati sugli “esclusi”, sia la definizione di film “candidati” all’Oscar. In realtà, i 14 film sono semplicemente film che si sono iscritti al preliminare di una gara. Il film prescelto dalla commissione – in questo caso “A ciambra”, appunto – è invece quello che l’Italia decide di far partecipare alla gara in questione. La gara in sé ha molti passaggi. Come si vota, in breve, per gli Oscar?
L’Academy of Motion Picture Arts and Science che assegna gli Oscar prevede una doppia votazione. Le cinquine dei candidati, le cosiddette nominations, vengono nominate per categoria: gli attori votano gli attori, i costumisti votano i costumisti e così via. Definite le cinquine, tutti i membri dell’Academy (attualmente sono circa 7.000) votano per tutti. Come si diventa votanti dell’Academy? O vincendo una statuetta (quindi sono membri votanti dell’Academy Morricone, Tornatore, Bertolucci, Salvatores, Benigni, la Loren…) o su invito (di solito “basta”, si fa per dire, una nomination per esserlo). Il premio al film in lingua straniera ha però un meccanismo diverso, che è stato modificato proprio quest’anno (pare dopo la clamorosa esclusione, nel 2017, del film “Elle” di Paul Verhoeven). Nessun membro dell’Academy, da Spielberg in giù, ha tempo e voglia di vedersi un centinaio di film provenienti da paesi (per loro) sconosciuti. Non ci saranno più i gironi in stile Champions League, con i film accorpati secondo criteri spesso ingiusti: tutti i concorrenti saranno sottoposti al cosiddetto Foreign Language Committee, un gruppo ristretto di votanti che selezionerà nove titoli; questi nove film saranno poi proposti a un gruppo eletto di 30 votanti “illustri” (dieci a New York, dieci a Londra, dieci a Los Angeles) che ridurrà il numero a cinque, per la cinquina definitiva (che sarà annunciata, con tutte le altre, il 23 gennaio 2018). Solo a questo punto il premio si omologa agli altri ed è lecito parlare di “candidatura”; e solo a questo punto viene votato da tutti – o comunque da chi ha avuto modo di vedere i film.
Il concetto di “vedere i film” è molto labile, e qui cascano gli asini. Far arrivare i film stranieri ai 7.000 e passa votanti è un lavoro impervio. Occorre che una task-force della produzione si piazzi a Los Angeles da subito; occorre spedire dvd, blu-ray e link dei film a chiunque (organizzare proiezioni è quasi inutile, a meno che non siano accompagnate da un costosissimo “Hollywood party”); occorre organizzare feste, invitare persone, stringere mani, creare alleanze; è indispensabile ingaggiare uffici stampa hollywoodiani esperti nell’organizzazione di lobby, che fanno questo tipo di lavoro a tempo pieno. Insomma, per vincere l’Oscar servono un sacco di soldi. Molti film italiani che si iscrivono alla gara non hanno le forze per la gara stessa: in un mondo ideale, sarebbe stato bellissimo spedire a Hollywood “L’ordine delle cose” di Andrea Segre (iscritto) o il citato “Sole cuore amore” (non iscritto), ma trattandosi di piccole produzioni indipendenti sarebbe stato come mandarli al massacro (qualcosa di simile è avvenuto, due anni fa, con il film postumo di Claudio Caligari “Non essere cattivo”). Quando ha vinto l’Oscar come migliore attore (enormemente più importante di quello del film straniero) Roberto Benigni è stato a Los Angeles per mesi facendosi vedere in tutte le feste e le occasioni mondane che la Mecca del cinema proponeva. Vedendo lui, i giurati si sono pian piano convinti che era il caso di vedere il suo film; la qualità di “La vita è bella” e il tema caro ai molti ebrei che sono membri dell’Academy hanno fatto il resto.
Parlando di “temi”, siamo arrivati al secondo aspetto di cui sopra. L’anno scorso il dramma di Lampedusa, quest’anno le comunità rom della Calabria: e così Salvini si arrabbia! Sarebbe bello ricordare al leader leghista che “il grande cinema italiano” ha quasi sempre parlato degli aspetti più tragici e meno turistici del nostro Paese; spesso vincendo l’Oscar proprio con film del genere, da “La strada” a “La ciociara”. Ma vale la pena di rispondere a Salvini? Probabilmente no. È più interessante notare come, da qualche anno, le commissioni che si succedono nel tempo spediscano alla gara per l’Oscar film lontani dallo stereotipo italiano che spesso a Hollywood funziona. L’anno scorso il documentario sui migranti di Rosi sembrò quasi una risposta indiretta alle politiche razziste del neo-eletto presidente Usa Donald Trump. Tra l’altro, fu proprio in virtù di quel sentore politico e umano che “Fuocoammare” vinse l’Orso d’oro a Berlino nel febbraio del 2016. Simili istanze funzionano in un festival europeo e molto sensibile alla politica come la Berlinale, ma sono meno vincenti in America e in un contesto come l’Oscar. “A ciambra”, come candidatura di bandiera, è molto affascinante; che possa vincere o entrare in cinquina è assai più arduo. Qui, da sempre, si scontrano due scuole di pensiero: candidare un film bello e magari politicamente rappresentativo, o candidare un film che possa “piacere agli americani” e quindi vincere? Quando si ha sotto mano un titolo come “La grande bellezza” la scelta è molto facile, ma non capita spesso. Diciamo che in questo momento storico ogni scelta che possa aiutare gli americani liberal e anti-isolazionisti a sentirsi meno soli è una scelta lodevole. Un film non può cambiare il mondo, ma può certamente far cambiare qualche idea a qualche persona. La corsa agli Oscar è un evento mediaticamente troppo importante per lasciare che si occupi soltanto di cinema.