Dove sei "Cielo in una stanza?"
Il grande rischio della musica sparita
Ho ancora i dischi di Jean Sablon che i miei genitori ascoltavano nel dopoguerra. E “Tico tico”, comprato in Brasile. E la “Rapsodia svedese” diretta da Percy Faith, che ascoltavo ossessivamente quando avevo cinque anni. E “Rock Around the Clock” di Bill Haley and the Comets. Tutti su 78 giri di gommalacca. Molti, pesanti, fragili. Il primo 45 giri fu “Banana Boat”, che naturalmente ho. E poi gli Shadows, Françoise Hardy, Peppino di Capri, Mina, Gino Paoli, Sergio Endrigo, i Beatles, gli Stones e un’infinità di altri su 45 o 33 giri (di vinile), fino alla metà degli anni Ottanta, quando ho cominciato ad ascoltare cd (di policarbonato).
C’è anche una lunga fila di album di sinfonie, opere, musica da camera. E una montagna di cassette, fin dagli anni Sessanta, comprese molte di quelle industriali (prodotte dalle case discografiche), insieme a quelle usate per copiare i miei dischi. Tutto occupa una parete grande di casa mia, insieme alle apparecchiature per ascoltare e registrare. Ma adesso la mia musica (quasi tutta quella, più molto altro) sta nella “libreria” – si dovrebbe dire biblioteca... – di iTunes, sul Mac sul quale scrivo e su un vecchio iPod classic (quello che Apple non fa più, già da prima di abbandonare del tutto il prodotto). Sono circa ventimila file audio, quasi 120 gigabyte. Ho anche parecchi filmati, scaricati dalla rete, che uso nelle lezioni di storia della popular music, al conservatorio e all’università. Eppure mancano tantissime cose che mi interessano e che mi servirebbero. E non solo perché i miei mezzi economici sono limitati o perché non ho tempo. No, proprio perché non le trovo.
Il senso comune dominante, fortemente alimentato da campagne di marketing aperte o nascoste, e consolidato dai media, dice che sul web ci sia tutto. Sarà vero? C’è tantissimo, molto di più di quanto non fosse accessibile quando la musica registrata si poteva comprare su vari supporti fisici: ma non tutto. Nei circa ventisei milioni di file musicali (il gergo le chiama songs, canzoni, ma fra le songs bisogna contare anche l’Adagio della Nona di Mahler o Gesang der Jünglinge di Stockhausen, che canzoni proprio non sono) disponibili per il download su iTunes, o nei circa trenta milioni ascoltabili in streaming su Spotify, ci sono certamente tutti i successi commerciali correnti, e anche moltissime rarità che hanno comunque un pubblico (la cosiddetta “coda lunga”). Ci sono perfino milioni di file che nessuno compra o ascolta: nel 2013 risultava che quattro milioni di songs su Spotify non erano mai state ascoltate nemmeno una volta.
Però ci sono anche canzoni, album, registrazioni di concerti, pezzi sinfonici e da camera, opere, che sulla rete proprio non si trovano, e non solo (come forse ci si potrebbe aspettare) perché provenienti da culture e sottoculture lontane e marginali: no, anche quelli che la critica canonista (del rock, o della musica colta) definirebbe dei “classici”. Per esempio, mancano (o sono quasi introvabili) un bel numero di registrazioni originali di successi popular del passato, che nel processo di rimediatizzazione (da disco analogico a cd, da cd a file audio) sono andate perse, o rovinate, o scartate per ragioni contrattuali o commerciali. Provate a cercare la prima edizione de “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, col curioso arrangiamento di Giampiero Reverberi, o la versione di “Gimme Some Lovin’” dello Spencer Davis Group senza il coretto femminile che risponde, o “I’ve Gotta Get a Message to You” dei Bee Gees nel missaggio che ne fece uno dei maggiori hit del 1968. Ma in molti casi mancano interi album che a loro tempo ottennero successo commerciale e di critica, e che sono evidentemente rimasti impigliati in passaggi da una casa discografica a un’altra, in controversie editoriali, o semplicemente nella distrazione del mercato. Non dimentichiamo che il passaggio dal vinile al cd fu l’occasione di uno sfoltimento brutale dei cataloghi discografici, del quale ancora oggi restano le conseguenze.
Ma, qualcuno dirà, sono passati trent’anni, e gradualmente le lacune si riempiono: piccole e grandi etichette ripescano vecchi master e li rimettono in circolazione, e quell’album che non è mai passato in digitale forse domani si troverà (come, spesso clandestinamente, si fa su YouTube). Ma c’è qualcosa che non lascia tranquilli. A me a volte capita che un programma che uso durante le mie lezioni per mostrare video, se non trova un collegamento alla rete e dunque non può verificare se ho la licenza, si blocca. E ogni volta che apro iTunes non posso dimenticare che non solo la mia libreria potrebbe essere cancellata da un errore di memoria, ma che moltissimi dei miei file possono essere eseguiti solo sui miei cinque device registrati (il Mac, l’iPod e altri congegni di famiglia). Quei dischi di Sablon, e “Tico tico”, e “Banana Boat”, li posso sentire dovunque ci sia un giradischi che funziona. Qualcuno, invece, tiene in mano i fili – che quotidianamente pago – del mio accesso alla musica, e un giorno, per qualunque ragione, potrebbe staccare la spina.