Le tre “D” che spiegano il flop di Trump e della resistibile ascesa della sua destra
Molti, letti i sondaggi della vigilia, avevano pronosticato un vero e proprio “red tsunami”, uno tsunami rosso. Altri, più inclini alla prudenza, s’erano preparati – chi con ostentata euforia, chi in uno stato di palese depressione e chi con il più o meno affettato aplomb del professionista della notizia - all’arrivo d’una più modesta, ma egualmente devastante, “red wave”, un’onda rossa come rossa è la colonna nella quale vengono tradizionalmente contati i voti repubblicani. L’uno (il tsunami) e l’altra (l’onda) in ovvia e tenebrosa contrapposizione al “profondo blu”, o al “blu notte”, anzi, peggio, all’ “incubo blu” – blu come la colonna dei voti democratici - destinato a durare, per il partito del presidente in carica, ben oltre l’alba del classico “day after”. Quel che però, ben prima del sorger del sole, s’è presentato di fronte a chiunque sapesse far di conto, è stato, in realtà, un molto sbiadito “ripple”, una quasi impercettibile increspatura della superficie dell’oceano. O, volendo ripetere la beffarda metafora usata martedì notte da Steven Colbert, conduttore d’uno dei più popolari “night show” televisivi americani, una sorta di “pink trickle”, un tutt’altro che travolgente rivoletto rosa.
I risultati definitivi – gli Usa non sono il Brasile e devono fare i conti con un sistema elettorale obsoleto e balcanizzato, tanto straordinariamente lento, macchinoso ed iniquo, quanto, per molte e deplorevoli ragioni, assolutamente immutabile – ancora non si conoscono. Né si conosceranno, probabilmente, prima di dicembre, quando si terrà il ballottaggio per uno dei due seggi senatoriali della Georgia. Ma questo già si può dire. A dispetto d’una storia elettorale (il cosiddetto “ciclo politico”) che, quasi immancabilmente e spesso catastroficamente, ha visto il partito del presidente perdere seggi e maggioranza nel “midterm”, e nonostante il convergere, come in una tipica “tempesta perfetta”, d’altri e molto negativi fattori (i postumi della pandemia, una forte inflazione, l’impopolarità del presidente in carica), il Partito Repubblicano ha fatto registrare un’avanzata che, per le sue striminzite dimensioni, straordinariamente assomiglia, specie se confrontata con la baldanzosa arroganza delle attese e dei pronostici, ad una nient’affatto strategica ritirata.
La realtà dei numeri
Venendo alla proverbialmente fredda realtà dei numeri. Mentre ancora si vanno contando i voti in molti distretti, i repubblicani mantengono una concreta possibilità di superare la soglia di quei 218 seggi che garantirebbero loro la maggioranza della House of Representatives. Ma se davvero così fosse si tratterebbe comunque d’una risicatissima e molto difficilmente gestibile maggioranza, per misurare la quale basterebbero, e avanzerebbero, le dita delle due mani. Una vera e propria delusione, se si pensa che il G.O.P. aveva preventivato (e spesso precocemente celebrato) la conquista di non meno di 30-40 nuovi seggi (e c’era chi s’era allegramente spinto fino a 60, in contrapposizione agli appena 5 necessari per strappare ai democratici la maggioranza e, conseguentemente la poltrona di Speaker alla molto demonizzata Nancy Pelosi). Quanto al Senato, assai probabile è che le cose restino esattamente come sono oggi: 50 a 50, con la vicepresidente Kamala Harris pronta, con il suo voto, a spostare verso il color blu l’ago della bilancia.
Qualche cifra per meglio inquadrare le molto miserande proporzioni della “vittoria” del G.O.P.. Nel 1994, presidente Bill Clinton, il Partito Repubblicano di Newt Gingrich (personaggio che ha avuto un ruolo fondamentale nell’involuzione anti-democratica del partito. e che, non per caso, è di questi tempi riapparso al fianco di Trump) aveva strappato ai democratici, in circostanze politiche molto meno favorevoli, ben 54 seggi alla Camera e 9 senatori. Nel 2010, presidente Barak Obama, i repubblicani avevano conquistato 64 seggi alla Camera e 12 al Senato. Il tutto per poi perdere nettamente – rispettivamente nel 1996 e nel 2012 – la successiva corsa presidenziale. Ogni elezione ha, ovviamente, la sua unica ed irripetibile storia. Ma dovessero decidere d’usare questo midterm come comparativo preludio dei risultati delle presidenziali del 2024, i repubblicani potrebbero, paradossalmente, risparmiarsi la fatica di nominare un proprio candidato.
Che cosa è accaduto? Quali sono le forze che hanno bloccato, riducendola ad un rigagnolo rosa, la pressoché universalmente prevista “ondata rossa” repubblicana? Negli ultimi anni – non solo negli USA – era stata la crescita di una nuova destra antidemocratica, alimentata da nuovi ed antichi rancori, a sfuggire sistematicamente ai radar delle inchieste pre-elettorali. Stavolta è accaduto l’esatto contrario. A passare inosservate – o, se osservate, come di fatto è sfuggevolmente avvenuto, a non essere afferrate nella loro sostanza – sono state quelle che Joe Scarborough, commentatore televisivo ed ex deputato ultra-conservatore diventato un “never-Trumper”, un nemico giurato del “partito del culto di Trump”, ha molto opportunamente definito le “ tre D”. D come Dobbs. D come “deniers” e, infine, D come Donald.
La questione dell'aborto
Dobbs sta, ovviamente, per “Dobbs vs Jackson”, la sentenza della Corte Suprema che, al culmine d’una truffaldina nomina di ben tre giudici ultra-conservatori durante la presidenza di Trump (su questo tema StrisciaRossa ha pubblicato ben più d’un articolo) ha mesi fa derubato le donne di quel diritto costituzionale all’aborto che quasi mezzo secolo fa era stato stabilito dalla Roe vs Wade. La scorsa estate, nelle settimane che avevano fatto seguito a quella sentenza o, per meglio dire, a quel furto che altri furti di libertà andava annunciando, i sondaggi avevano registrato, sull’onda dell’indignazione femminile, uno spostamento abbastanza significativo verso il partito democratico, una crescente spinta anti “onda rossa”. Crescente, ma effimera. In meno d’un paio di mesi quella sotterranea rabbia femminile era parsa – sempre stando ai sondaggi – svanire fino ad essere pressoché interamente assorbita dalla “paura di tutte le paure”: l’inflazione, l’idea, condivisa da più del 75 per cento dell’elettorato, che, a causa dell’inflazione, il paese stesse andando, da un punto di vista economico “nella direzione sbagliata”. “It’s the economy, stupid”, sono andati nelle ultime settimane ripetendo, riecheggiando James Carville, celebre consigliere di Bill Clinton, analisti di ogni tendenza. E l’economia – almeno in termini di percezione popolare - condannava, senza appello, Joe Biden ed il suo partito a una storica sconfitta.
Si sbagliavano quegli analisti. La D di Dobbs – che poi è anche la D di donna – era ancora lì, forte e presente, come testimoniato dall’inequivocabile risultato di tutti i referendum che, nel gran calderone del “midterm”, in Michigan , Kentucky, Vermont, California e Montana, difendevano il diritto all’aborto dall’incedere della epidemia di nuove leggi statali che, sull’onda della Dobbs vs Jackson, tendevano a rendere impossibile, anche in caso di stupro o di grave pericolo per la vita della madre, ogni forma di interruzione della maternità. Interessante dettaglio. Nel 13esimo distretto del North Carolina, Bob Hines, candidato repubblicano (e trumpiano assoluto) pur dato per superfavorito è stato molto solennemente battuto da Willey Nickel, candidata democratica. Al centro della campagna di Hines c’era una molto interessante e rivelatrice proposta: che l’aborto fosse proibito con due sole eccezioni, l’incesto e lo stupro. Nel qual caso sarebbe toccata ad un “community-level review process” – di fatto una sorta di tribunale popolare – la decisione di procedere o meno (con l’ovvia convinzione che il “meno” sarebbe stato la maggioranza delle volte) alla interruzione della gravidanza.
Il divorzio tra il GOP e la democrazia
Le altre due D – quella di “deniers” e quella di Donald, sono a loro volta, le due facce della stessa orripilante medaglia. Quella dell’ormai irreversibile divorzio tra Partito Repubblicano e democrazia. Quella della negazione, sulla base d’una frode mai esistita, della legittimità della vittoria di Joe Biden nelle presidenziali di due anni fa. Quella dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio dello scorso anno. Quella che nega la validità di qualunque elezione che dei “deniers” non preveda la vittoria. Perché la vittoria di qualunque forza che non sia quella dei “deniers” e di Donald Trump, gran capo del culto, sarebbe una vittoria dell’anti-America, d’una tenebrosa e non-umana realtà – giusto ieri Trump è tornato a definire “un animale” Nancy Pelosi – che corrompe l’infanzia e distrugge la Nazione.
Nelle ultime settimane di campagna Joe Biden e molti altri dirigenti e candidati democratici erano andati sottolineando la natura antidemocratica – o “semi-fascista” come l’ha definita Biden – dei MAGA-Republicans. Ed il fatto che proprio la democrazia era per questo – e per la prima volta nella storia degli Stati Uniti d’America - la vera posta in palio delle elezioni di metà mandato. Una tesi, questa, subito passata al vaglio dei media e delle inchieste d’opinione. Il risultato? Una vittoria per cappotto, ancora una volta, dell’inflazione e di tutti i temi economici. Questo “midterm”, era la pressoché unanime conclusione dei sondaggi – o, più correttamente, della interpretazione dei numeri esposti dai sondaggi – si sarebbe vinto e perduto laddove l’inflazione più da vicino e più dolorosamente toccava le tasche dei votanti: nelle stazioni di benzina.
Errore, ancora una volta. Queste elezioni hanno dimostrato – in attesa di analisi statisticamente più dettagliate ed approfondite – come la democrazia ed i suoi problemi siano ben presenti nella mente degli elettori. E questo con risultati che risaltano, qua e là, con la luminosità tipica degli atti di divina giustizia. Si prenda il caso di Lauren Boebert, republicana del Colorado e, fino a ieri, una delle più lucenti, visibili e loquaci stelle del firmamento trumpiano. Fu lei, lo scorso Natale, giusto all’indomani d’una strage scolastica compiuta da un alunno che proprio per Natale aveva ricevuto in regalo una pistola automatica, a diffondere in rete una “Christmas Card” nella quale si presentava con tutta la sua bella famigliola armata fino ai denti (bambini compresi e stiamo parlando di armi da guerra). Il tutto con un simpatico messaggio per Santa Klaus: “Please bring ammo..” Per favore, portaci in regalo nuove munizioni. E fu sempre lei, Lauren Boebert, che mesi fa coraggiosamente – perché coraggio è quel che ci vuole per sfidare il ridicolo - denunciò la scandalosa presenza di vaschette di sabbia nei bagni delle scuole superiori dello Stato, destinate a soddisfare le esigenze igieniche degli studenti trans. Trans-felini, nel caso specifico. Orbene: sebbene i conteggi siano ancora in corso, assai probabile è che questa campionessa di trumpismo applicato, data per sicura vincitrice, finisca per perdere il suo seggio nella House of Representatives, a vantaggio del democratico Adam Frish.
De Santis è l'uomo del futuro?
E adesso, che accadrà? Giusto il giorno prima delle elezioni Donald Trump aveva regalato ai suoi seguaci ed al mondo una sorta di pre-annuncio cum gaudio magno. Gioite, aveva detto, perché probabile, molto probabile è che io, già nei prossimi giorni, renda pubblica la mia decisione di ricandidarmi alla presidenza. E si può tranquillamente escludere che gli assai poco confortanti risultati del voto di metà mandato, lo inducano ora a cambiare direzione. Dopotutto la negazione della democrazia e dei suoi esiti era e resta la vera specialità della casa. Soprattutto se si considera il fatto che, per quanto in dimensioni molto meno ampie del previsto, queste elezioni hanno pur sempre imbottito il Congresso con la presenza di “deniers puri” (almeno 200), vera carne da cannone del trumpismo. Tutti eletti e pronti alla battaglia.
Il che sottolinea il vero, esistenziale problema del partito repubblicano. Che senza Trump, ormai non esiste più, perché di Trump è diventato il culto. E che con Trump rischia nel contempo – come dimostrato anche da questo midterm - di perdere ogni elezione. Domanda: è Donald Trump insostituibile? Da tempo i media vanno – a parziale negazione di questo assioma - sottolineando la progressiva ascesa di Ron De Santis, governatore della Florida, che ieri, pur in un contesto molto deprimente per il G.O.P., ha stravinto la corsa per la rielezione. Più trumpista di Trump nei suoi rapporti con la democrazia, De Santis ha oggi, rispetto a Trump, un grande vantaggio: quello della leggerezza. O, più esattamente, quello di non portar sulle spalle la zavorra folcloristica - in termini di immagine più che di sostanza - del prototipo. È lui il futuro del Partito Repubblicano? È lui il trumpismo del dopo-Trump? Molti sembrano crederlo. E Trump, colta l’antifona, già ha cominciato ad attaccarlo: “So su di lui più cose di quante ne sappia sua moglie”, ha fatto sapere ieri con l’eleganza che lo contraddistingue…È il G.O.P. sulle soglie d’una guerra di religione?
Vedremo. Intanto questo “midterm” una cosa chiara ce l’ha detta. La democrazia Usa resta malata. Molto malata. Ma, se dio vuole, ancora non è morta. E, almeno per qualche giorno, vale la pena celebrarla.
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