Nilde Iotti, il coraggio di una comunista
che credeva nella forza delle donne
Livia Turco si è commossa nell’intervento che ha concluso il convegno su Nilde Iotti, per i 100 anni dalla nascita, organizzato dalla Fondazione che porta il nome della Presidente della Camera insieme alla Fondazione Gramsci.
È una commozione che ha a che fare con il ricordo di uno sguardo, forte e materno, che Nilde riservava alle giovani compagne, con le quali ha sempre “ricercato il rapporto”. “La invitavamo alla Commissione femminile e lei, presidente della Camera, veniva, prendeva appunti”. Ma se è la fisicità del ricordo a far tremare la voce, la nostalgia è riservata ad un modo di essere, “alla grande civiltà delle relazioni nel PCI”. Lei, Livia, e Massimo D’Alema, nel rievocarne la figura hanno ricordato, fra l’altro, che Nilde Iotti era molto forte e ferma nelle sue convinzioni di riformista, sul rinnovamento delle istituzioni, sul rapporto con i socialisti di Craxi, sulla strategia del PCI. D’Alema: “Non era d’accordo sulla elezione di Natta a segretario del PCI, pur avendone stima. Avrebbe preferito Luciano Lama”. Né Livia Turco né D’Alema, allora giovani e legati alla segreteria di Enrico Berlinguer, erano d’accordo con lei, eppure ricordano l’affabilità di quei rapporti che non erano guastati dalle divisioni anche strategiche, dalla tranquillità con cui la Presidente si esprimeva in “evidente contrasto con le posizioni prevalenti nel partito”.
Fenomenologia di una leadership
In più, per Livia Turco, c’è la sottolineatura di quella che lei chiama una questione di “leadership”. “Non c’è leadership – dice – se non c’è autonomia e libertà”. “E non c’è leadership femminile se non si riconosce la genealogia femminile. Abbiamo avuto grandi madri nelle 21 madri costituenti, che fecero come e con Nilde gioco di squadra. Abbiamo avuto grandi madri partigiane e grandi madri nel partito, Adriana Seroni, Giglia Tedesco, Lina Fibbi, Marisa Rodano, le compagne dell’Udi”. La ricostruzione della storia femminile è, per la ex ministra al welfare e alla salute, un compito politico. Parafrasando il tragico slogan afro-americano: “Women’s lives matter”.
Livia Turco sottolinea l’attualità di Nilde Iotti in particolare su due punti: l’elaborazione sulla famiglia che è servita nella battaglia a contrastare il decreto Pillon, l’orrore che avrebbe provato, lei che lo ha riformato, di fronte al populismo che riduce il Parlamento a poltrone. E raccoglie l’eredità della Presidente intorno a tre nuclei: 1) Lo sforzo di innovare la cultura politica del PCI sul tema cruciale della famiglia, superando l’economicismo per proporre una visione fondata sui sentimenti (cita in particolare l’intervento ad un Comitato centrale del PCI nel 1970. 2) La pratica popolare della politica, intesa come formazione, cultura, competenza che le classi popolari devono conquistare e ottenere. Intesa anche come vicinanza delle istituzioni alla vita reale delle persone. 3) Il legame costante con le donne, dalle prime battaglie con le mondine, le tabacchine, nella riforma dei Patti agrari fino a quelle degli anni novanta.
Non sono formali gli interventi di Valto Spini (che cita i ricordi di Giorgio Frasca Polara), sul lavoro alla bicamerale: riduzione dei parlamentari, differenziazione dei compiti di Senato e Camera (Senato delle regioni), né quello di Pierferdinando Casini, né tanto meno quello inviato da Rosa Russo Iervolino.
La storia d'amore con Togliatti
Cecilia D’Elia affronta, attraverso il citatissimo libro di Luisa Lama, “Nilde Iotti, una storia politica al femminile”, i politicamente durissimi primi anni dell’amore con Togliatti, quando in una lettera del 1948 confessa “la barriera di imbarazzo fra i miei compagni e me”, quando deve fronteggiare resistenze, ostilità, maldicenze. “La sua biografia – dice D’Elia – è un programma politico. Difende il suo amore, difende il suo lavoro, lavora agli articoli della Costituzione e poi, trenta anni dopo, alle leggi che inverano l’uguaglianza e la solidarietà proclamati alla costituente”.
D’Elia ricorda una intervista rilasciata dopo la vittoria del referendum sul divorzio nel 1974: “Io non sono femminista, però è vero che nel rapporto uomo-donna, all’interno della famiglia ci sono tante cose che la donna deve subire, perché altrimenti pagherà un prezzo troppo alto … Quando la moglie è stata solo moglie e madre, quando alla fine della vita si accorge di avere rinunciato a sé stessa, l’amarezza si fa cruda”. Si deve riconoscere, sottolinea D’Elia, che il ruolo politico di Nilde Iotti prese slancio dopo la morte di Togliatti.
Anche Massimo D’Alema sottolinea “l’anticonformismo coraggioso e la sofferenza personale causata dal perbenismo che pervadeva anche il Partito comunista”. La ricorda ricoverata negli ultimi mesi di vita quando, andando lui a trovarla, lo faceva attendere, per truccarsi, per mettere un foulard e presentarsi dopo aver curato “il fascino femminile che ha sempre coltivato”.
L'anno in cui nacque il divorzio
e l'onda lunga dei diritti figli del '68
Primo dicembre 1970, entra in vigore la legge sul divorzio. Ma vorrei risalire a due anni prima, al dicembre del 1968, quando fu abrogato il reato di adulterio. La parola è abbastanza desueta ormai ma quando la usiamo, la usiamo indifferentemente al maschile e al femminile, commettendo un errore di prospettiva storica poiché a quel tempo l’adulterio era reato solo femminile, sebbene punibile fosse anche il correo su denuncia del marito. Lui, il marito, poteva invece tradire la moglie. Questo era un comportamento socialmente e giuridicamente accettato. Solo nel caso che il marito si trasferisse more uxorio a vivere con un’altra donna, tale comportamento, pur non essendo reato, poteva motivare la separazione. Separazioni rare e eccezionali.
Questa era l’Italia giuridica che l’onda del 1968, quale che sia il significato che si attribuisce a quell’anno, travolse. Un’Italia che discriminava per legge le donne, comminando fino ad un anno di carcere per le adultere. Quale che fosse l’entità della condanna, inoltre, era come apporre sul loro corpo una lettera scarlatta, non – forse – nelle grandi città e nei ceti di élite ma certamente nelle piccole comunità, nel chiuso di paesi e quartieri proletari. L’abrogazione fu motivata per violazione dell’articolo 29 della Costituzione, che stabilisce l’eguaglianza dei coniugi.
I dibattiti all'ora di cena
Quando fu approvata la legge Fortuna-Baslini sul divorzio avevo 16 anni e la possibilità del divorzio mi pareva la cosa più naturale del mondo, quattro anni dopo partecipai alla campagna divorzista, un po’ con il PCI un po’ con i radicali, ma non potei votare, il voto era ancora a 21 anni.
Meno male, penso ogni tanto, che i comunisti avevano mogli e figlie, perché mia madre ed io potemmo rintuzzare le preoccupazioni di mio padre relative ai rapporti con il mondo cattolico. Fu mio padre Paolo a condurre le trattative con la DC per evitare il referendum che poi, a causa dell’oltranzismo cattolico, si tenne il 12 e 13 maggio 1974. Ma credo che il convincimento fermo delle donne e delle ragazze comuniste, espresso più intorno alla tavola apparecchiata per la cena che non in pubbliche assemblee (come invece fu per l’aborto), fu importante al fine del mantenimento dei principi della laicità dello stato rispetto alla preoccupazione di non dividere il paese.
Un decennio che ha cambiato l'Italia
Poco più di un decennio, dunque, che ha cambiato l’Italia: 1968-1981, dall’abolizione del reato di adulterio alla legge sull’aborto, passando per l’approvazione del nuovo diritto di famiglia (1975), per il referendum sull’aborto (1981) e per l’abrogazione del delitto d’onore (1981!). O meglio, poco più di un decennio che ha avvicinato l’Italia legale all’Italia reale. Un’Italia – c’è da aggiungere – popolare, come dimostrano le significative vittorie ai referendum alle quali contribuì la defezione degli elettorati DC e MSI. Si dimostrò allora che le leggi sui diritti civili non sono un lusso per le élite ma entrano a regolare rapporti e drammi che prima si consumavano nel silenzio nelle case dei lavoratori.
Un analogo processo si è sviluppato in anni più recenti per i diritti LGBT e per le coppie di fatto, ancora una volta il Vaticano, che tanta pressione ha esercitato con i family day ai tempi di Bertone e di Ruini, deve riconoscere una società più complicata nelle relazioni fra le persone di quella rappresentata nei dogmi.
Ora però il pensiero va alle manifestazioni delle donne polacche in difesa della legge sull’aborto. Al ruolo delle donne in Bielorussia nella rivolta contro Lukashenko. Sono linee di demarcazione importanti, che ci riguardano da vicino, perché l’aggressione è mondiale e quelle donne sono sulla prima linea.
Una spectre globale sovranista coordina ovunque l’attacco ai diritti in nome di una società maschilista e machista frustrata. L’aggressività delle destre prende di mira, nuovamente, il corpo delle donne, i loro diritti, la loro autodeterminazione, rispolvera l’omofobia e trasforma in proposta politica le più viete e sgangherate chiacchiere da osteria. La risposta dovrebbe essere in una visione più umana e solidale, più attenta alle sofferenze delle persone e alle disuguaglianze sociali.
La memoria corta di Emma Bonino
sulla legge 194 e sul ruolo della sinistra
Domenica mattina mi è capitato di vedere, en passant, una trasmissione di Rai Storia già mandata in onda nel 2016 in occasione del 70esimo della Repubblica. La serie fu di molte puntate e quella in questione era la n. 12 dedicata alle conquiste e ai diritti delle donne. Rai Storia è un canale pregevole, una vera perla della Tv pubblica, per serietà di approfondimenti e documentazione. Cose di cui l’evanescente memoria storica nazionale ha estremo bisogno, viste le baggianate, l’incultura e persino le superstizioni che circolano interpretate dai figuri che popolano la nostra classe politica. Anche la puntata sulle donne era pregevole. Ospite d’onore in studio Emma Bonino che ha raccontato la sua esperienza personale di giovane radicale nel partito di Marco Pannella, Adele Faccio, Roberto Cicciomessere, Adelaide Aglietta e tanti altri che sono seguiti.
Il ruolo della sinistra
Venuti a discutere della legge sull’aborto, la Bonino ha ricordato correttamente che quando essa fu votata il 29 maggio 1978 – Moro era morto assassinato pochi giorni prima – i 4 radicali eletti alla Camera, compresa lei, fecero ostruzionismo contro la legge 194. Volevano, ha detto, segnalarne i limiti e le insufficienze, perché tali le consideravano loro che erano per l’aborto libero. L’ostruzionismo, secondo lei, fu del tutto propagandistico, essi sapevano bene che la legge sarebbe passata perché in ballo, ha detto, c’era il loro referendum abrogativo delle norme repressive in materia allora vigenti che poteva scompigliare il “compromesso storico” di Berlinguer.
E questo non lo volevano né la Dc né il Pci. Il fatto principale, però, è che a sostegno della 194 c’erano tutte le forze di sinistra che, grazie all’avanzata elettorale del Pci del ‘76, aveva alla Camera numeri più consistenti che andavano oltre il 50%. E poi perché la Dc era ancora quella di Zaccagnini, stretta, come ha ricordato a suo modo anche la Bonino, nella maggioranza di unità nazionale figlia del compromesso storico di Berlinguer. Perciò, non avrebbe fatto le barricate, anche se votò contro. Infatti, bastava che i democristiani facessero l’ostruzionismo magari affiancando i radicali che le cose si sarebbero messe male. Infine, e non per ultimo, a dare l’impronta culturale alla Legge sull’interruzione della gravidanza 194 fu il Pci con Paolo Bufalini. Egli partì dal fatto oggettivo che occorreva una legge che mettesse fine alla piaga dell’aborto clandestino particolarmente penoso e pericoloso per le donne del popolo. Inoltre, nel trattare la delicata materia della vita rifuggì da ogni estremismo "radical chic".
La Dc, in seguito, fu trascinata in un nuovo referendum proposto dal Movimento per la vita di Carlo Casini che si svolse il 17 maggio 1981. Al governo c’era Forlani con un centro-sinistra e l’astensione del Pli. Lo perse malamente: i No furono il 68%. La Bonino ha detto che non aveva dubbi che il referendum sarebbe stato vinto. Si è ben guardata dal dire, però, che contro la 194 anche i radicali presentarono, contemporaneamente, un referendum abrogativo di parti essenziali della Legge che l’avrebbero stravolta in senso deregolatorio. Certo con buone intenzioni, di cui, com’è noto, è lastricata la via dell’inferno. Lo persero nettamente: i No furono l’88%.
La memoria corta
E’ vero, in una democrazia partecipata, e quella dominata dai grandi partiti di massa della prima Repubblica lo era con tutti i suoi limiti, non tutto si racchiude nelle aule parlamentari. Ma certo in quelle aule c’è la sovranità popolare. E lì, quando si votò la legge sul divorzio nel dicembre 1970, i radicali non c’erano e quando ci furono, si agitarono un bel po’ contro la 194, in seguito sempre insidiata dagli integralisti cattolici che non l’hanno mai digerita. C'erano altri, i tanto vituperati comunisti, socialisti, repubblicani, liberali e anche una parte della Dc (che rischiarono a viso aperto il dissenso nel loro partito). All’epoca i tentativi di convergenza fra Pci e Dc furono spregiativamente derisi, anche da Pannella e soci, come “la Repubblica conciliare”. Probabilmente perché non dava spazio alle mosche cocchiere che, pur svolgendo una loro funzione di stimolo positivo - cosa che avvenne sicuramente nella promozione nel paese della battaglia per il diritto al divorzio - non stavano, però, alla stanga del carro popolare e parlamentare su cui viaggiavano i diritti e le conquiste civili. Lì c’erano i cavalli della sinistra, laica e cattolica, liberale e progressista. In seguito, a mettere i radicali a quella stanga sono stati la smemoratezza storica, il pressappochismo intellettuale e la vulgata massmediologica dei mediocri e degli ignoranti.
Loro, i radicali, poi, alla stanga hanno creduto di esserci sempre stati.
Storia di Nilde: l'omaggio della Rai
ad una donna dalla vita straordinaria
Encomiabile la scelta di Rai1 di dedicare una serata a Nilde Jotti in occasione dei venti anni dalla morte. E felice è stata la scelta di alternare lo sceneggiato con interviste a giornalisti, storici, politici e con brani di filmati d’epoca: la figura di Nilde si è nitidamente stagliata negli anni del secondo Novecento italiano, facendoci ripercorrere i momenti salienti della storia del PCI e del nostro Paese. Anna Foglietta poi, con una recitazione essenziale e antiretorica, ci ha restituito la figura di una donna sensibile, eppure forte e determinata, quale Nilde è stata.
Il taglio dato alla docufiction è stato pure interessante perché l’elezione a Presidente della Camera ha fatto da cornice al racconto, con la ripresa delle votazioni all’inizio e le ultime immagini degli incontri di Nilde con i leader internazionali, sottolineando il significato politico di aver scelto per la prima volta una donna per la terza carica dello Stato, senza soffermarsi ulteriormente sui tredici anni in cui lei ha diretto i lavori della Camera, anche se durante quegli anni ha pure dato prova di competenza e autorevolezza, mostrandoli dunque come il coronamento di un percorso politico e personale difficile e articolato.
Poche immagini della Nilde staffetta partigiana - per documentare il suo impegno nella Resistenza - rinviano a quello snodo che per lei ha significato una scelta di vita con l’adesione al PCI che vede come avanguardia della lotta antifascista, colpita in particolare dall’esecuzione dei sette fratelli Cervi contadini della zona di Cavriago, dove Nilde si era rifugiata con la madre dopo l’otto settembre. All’Assemblea costituente inizia la sua battaglia per l’affermazione dei diritti delle donne, che sarà poi la linea rossa lungo la quale si snoderà la sua vita politica. Membro della Commissione dei 75, affronta le questioni della famiglia, battendosi per la parità giuridica e morale dei coniugi, la parità dei figli nati fuori del matrimonio con i figli legittimi ed esprimendosi contraria all’indissolubilità del matrimonio. Fin da allora Nilde Jotti vede la questione dell’emancipazione femminile come una questione di interesse nazionale, fondamentale per il processo di sviluppo e di democratizzazione del Paese: all’indomani della guerra e ancora per molti anni a seguire, le donne italiane vivono una condizione di subordinazione nella famiglia e nella società, stabilita dalle leggi, dalla morale prevalente e dai pregiudizi.
La relazione di Nilde con Togliatti si svolge in questo contesto, come il filmato documenta chiaramente. Molto toccante, nella sua stringatezza, l’episodio che fa rivivere la sua disperazione di fronte al rifiuto di farle vedere Togliatti in ospedale dopo l’attentato del 1948, perché la possibilità di visita è riservata alla moglie. Con poche pennellate intense è tracciato il loro legame che pure emerge come un rapporto fondato su sentimenti autentici e profondi. Di fronte alle critiche dell’apparato del PCI per una relazione che mette in discussione la moralità dei comunisti, Nilde oppone la sua limpida determinazione di voler vivere pienamente la sua vita, noncurante di chiacchiere e pettegolezzi. Eppure, fino alla morte di Togliatti dovrà subire un certo ostracismo dal suo partito, continuando a lavorare nell’UDI e legando sempre più il suo nome alle battaglie per l’emancipazione femminile. La sua vita politica prende il volo da quel 21 agosto 1964, per lei così tragico. La questione del divorzio, nella fase di approvazione della legge e in quella successiva della vittoria del referendum, la riforma del diritto di famiglia e l’approvazione della legge sull’aborto, che giunge dopo discussioni tormentate nel PCI a confronto con radicali, socialisti e movimenti femministi, la vedono in prima linea a difendere sempre con grande chiarezza, anche all’interno del suo partito, i diritti delle donne. Ha ormai acquisito autorevolezza e prestigio, che le vengono riconosciuti non solo dai comunisti ma anche dagli avversari e che le varranno diversi riconoscimenti, fino a portarla nel 1979 a sedere sullo scranno più alto della Camera.
Coraggio e determinazione delineano la figura di Nilde Jotti, così come rilevano nelle interviste coloro che l’hanno conosciuta. Ma poi ci sono anche le sue immagini, che ci restituisce in modo convincente Anna Foglietta, con quegli abiti sempre appropriati, di un’eleganza mai austera, ma semplice e raffinata e che contribuiscono a farcela ricordare con vero rimpianto.
In ricordo di Nilde Iotti, prima donna presidente della Camera
“Qui alla presidenza della Camera sono stata chiamata ripetutamente dalla crescente fiducia dei colleghi, e qui resto per rispettarne la volontà”. Il biglietto manoscritto di Nilde Iotti fu recapitato per motociclista al Quirinale una sera dell’autunno del 1991. Poco prima era trapelata l’indiscrezione che Francesco Cossiga – nel pieno della sua stagione picconatrice – intendeva offrire da un momento all’altro a Nilde il seggio di senatrice a vita. Riferii la voce (più tardi confermata) alla presidente, che non prese tempo e vergò quel biglietto. Ma non ci fu “notizia”. La discrezione innata e la delicatezza della contingenza giunsero al punto che Nilde pregò chi sapeva (solo tre persone, il suo piccolo gabinetto) di non far parola del suo rifiuto, dettato non certo da orgoglio personale, dacché la nomina avrebbe comunque siglato una straordinaria vita dedicata al Paese. E nessuno fiaterà per anni, sino al 19 novembre 1999, all’indomani delle dimissioni di Iotti da deputata, quindi appena due settimane prima della sua scomparsa, vittima di una somma di mali. Allora, senza neppure interpellarla, mi considerai sciolto dal vincolo e, a suo onore, rivelai la vicenda sull’Unità, il giornale da cui mi sarei allontanato di lì a pochi mesi. Nessuno smentì.
Il gran rifiuto

Considero tuttora questa storia uno degli atti più forti e fieri compiuto da Nilde Iotti nei tredici anni al vertice di Montecitorio, la prima donna comunista nella triade delle più alte cariche istituzionali della Repubblica. Anche e soprattutto perché questo episodio aveva una retrostoria, altrettanto significativa del personaggio, della sua forza serena, della sua determinazione.
L’antefatto seguì di poco il successo del referendum sulla preferenza unica, giugno 1991. Mancava appena un anno alla conclusione naturale della decima legislatura, la terza della presidenza Iotti. Il segretario del Psi Bettino Craxi aveva approfittato di quel voto per teorizzare – lui, contrariamente al presidente del Consiglio, Giulio Andreotti – una pretesa delegittimazione del Parlamento, l’oramai famoso “parco buoi” (copyright Craxi), eletto con il vecchio sistema plurinominale. Sarebbe stata la fine anticipata della legislatura.
Iotti non ebbe dubbi: anticipò il dubbioso presidente del Senato Giovanni Spadolini e si espose pubblicamente con un “no” intransigente allo scioglimento delle Camere. Un “no” dettato non per blandire l’interesse corporativo dei deputati (e dei senatori) ma per affermare il principio che la sorte e l’autorità di un’istituzione suprema come il Parlamento non possono, non debbono, esser piegate all’interesse contingente dell’una o dell’altra parte politica.
Promoveatur ut amoveatur
Vinse la partita, Nilde, anche contro il trasparente sostegno di Cossiga alla tesi di Bettino Craxi: e la vinse non da sola, certo, ma rafforzata dal rilevante suo peso istituzionale e dalla sua forte influenza politica. Ecco, di lì a qualche settimana l’indiscrezione sull’intenzione di Cossiga di nominare Iotti senatrice a vita. Un gesto di considerazione alta o, come qualcuno riterrà con perfidia pari all’intensità delle polemiche e delle tensioni tra i Palazzi, un promoveatur ut amoveatur? Ecco il senso e la ragione del biglietto vergato e spedito senza che i suoi collaboratori avessero neppure il tempo di farne una fotocopia indispensabile, anzi preziosa, per l’archivio.
Credo che in questi due lampi di memoria sia racchiusa buona parte del senso e dell’autorevolezza della vicenda politica di Iotti presidente, la cui prima elezione al vertice della Camera si ricorda esattamente in questi giorni: il 20 giugno di quarant’anni fa, nel 1979.
Già, ella aveva perfetta contezza dell’importanza della decisione, presa da Enrico Berlinguer allora segretario del Pci, di designare una donna al vertice del Montecitorio, un’esponente di primissimo piano delle battaglie delle donne per la loro emancipazione: Nilde non fu mai una femminista ma lottò sempre per la reale parità, con un coraggio da tigre (basti pensare alla sua dura lotta, anche in seno al partito, per convincere che prima le leggi e poi i referendum su divorzio e aborto sarebbero stati vincenti). Ma ella aveva altrettante perfetta contezza dell’arduo cimento che l’attendeva: essere la presidente comunista di un’assemblea che teneva il Pci all’opposizione.
Proprio quest’ultimo passaggio più tardi le costò, mise persino a rischio il suo ruolo. Ma tenne sempre duro, malgrado i borbottii, le riserve, i giudizi non propriamente sereni che talora le giunsero quando parve che la sua conduzione dei lavori della Camera fosse troppo – come dire? – indipendente e rispettosa di principi per lei essenziali.
Il costo del lavoro
Questo accadde soprattutto nel passaggio più difficile di quei tredici anni: lo scontro (tra il febbraio e il maggio del 1984) sul costo del lavoro, la dinamica salariale, il meccanismo della scala mobile, le famose “20mila lire” tolte con il congelamento dei tre punti di contingenza. Momento difficile per la concomitanza di due fattori: la rottura tra il presidente del Consiglio Craxi da un lato e l’opposizione di sinistra e la Cgil dall’altro; e, in parallelo, una pesante frattura all’interno del Pci che coinvolse il segretario Berlinguer, Nilde Iotti e Giorgio Napolitano, allora presidente dei deputati comunisti. Su una materia sino ad allora delegata al negoziato e all’accordo tra le parti sociali, Bettino Craxi volle intervenire con un decreto legge immediatamente esecutivo salvo naturalmente la conversione in legge da parte delle Camere.
Craxi e quel braccio di ferro
E se, ad un gesto di decisionismo così estremo e alla sfida così aperta alla Cgil, il Parlamento reagì bocciando quel decreto nel segreto dell’urna, il leader socialista ripresentò lo stesso identico decreto (più tardi la Corte costituzionale, proprio di fronte allo sfacciato abuso craxiano della decretazione d’urgenza, emanò una salutare sentenza che vietava la pratica dei decreti-fotocopia), e vi pose addirittura la fiducia che si traduceva nella mannaia di tutti gli emendamenti.
Racconterà Giorgio Napolitano che “Iotti arbitra difficili accordi tra i gruppi di maggioranza e di opposizione per permettere a questi ultimi di dispiegare le loro proteste e il loro dissenso ma, insieme, per evitare che decada anche il secondo decreto: per garantire cioè – punto cardine della sua concezione – il diritto-dovere della maggioranza di legiferare”.
“La leadership del Pci (cioè in primo luogo Berlinguer, ndr) preme – annoterà ancora Napolitano con una precisione e una schiettezza impressionanti – perché l’iter del provvedimento non sia contenuto nei modi e nei tempi concertati nella conferenza dei capigruppo, con l’adesione anche del capogruppo comunista (cioè dello stesso Napolitano che scrive in terza persona, ndr), il quale è solidale con la Iotti dinanzi ad una pressione che ne mette a repentaglio la presidenza. Ella non cede, supera la prova, conduce la Camera al voto di conversione del decreto il 18 maggio 1984”.
“La lezione è (o dovrebbe essere) chiara per sempre e per tutti”, ne conclude Giorgio Napolitano rivendicando con trasparenti accenti polemici la coerenza sua e di Nilde: “L’opposizione può condurre la sua battaglia nei modi più duri, può ricorrere all’ostruzionismo ma per rappresentare al Paese le sue ragioni, la sua protesta, e per suscitare una riflessione, un ripensamento nella maggioranza, ma non per impedire che si giunga alla decisione, che ci si conti, che si legiferi, altrimenti si colpisce il ruolo e la credibilità del Parlamento, si minano la basi delle istituzioni democratiche”.
Torno, per concludere, ad un episodio simbolico della donna che sempre si batté per i diritti delle donne, e lo aveva fatto sin dalla Costituente: epica era stata la sua battaglia per imporre la parità di genere anche in magistratura, sino alla Cassazione, contro un futuro capo dello Stato, Giovanni Leone, che sosteneva esser le donne ammissibili “al massimo” nei tribunali dei minorenni.
I tempi del divorzio
Era l’estate del 1987, un anno prima della scadenza naturale della legislatura per la rottura dell’alleanza di centro-sinistra. Il precipitare degli eventi rischiava di compromettere una piccola ma preziosa riforma cui Nilde, e non solo lei, teneva moltissimo.
Gli è che la legge del 1970 prevedeva almeno cinque anni di separazione legale per ottenere il divorzio. Lunga trattativa con il centrodestra e accordo di compromesso per una riduzione da cinque a tre anni della separazione (Iotti avrebbe voluto un anno soltanto, ma a ciò si giunse solo dopo la sua morte). Approvata dal Senato, la leggina era ferma in commissione alla Camera, ma da un momento all’altro il capo dello Stato avrebbe sancito la fine della legislatura e il provvedimento sarebbe finito in malora.
Allora Iotti convocò d’imperio la commissione, ottenne l’unanimità dei gruppi perché questa deliberasse in sede legislativa (cioè “saltando” il momento della discussione e del voto in assemblea) e strappò sul filo di lana, il “sì” finale e definitivo.
Ne fu tanto, tanto felice, lei che nel 1975 aveva redatto e fatto approvare la riforma profonda del diritto di famiglia. Sono passati anni, stagioni, epoche. Ora ricordiamo i quarant’anni della sua prima elezione a presidente. Nella notte tra il 3 e il 4 del prossimo dicembre saranno vent’anni dalla sua sofferta scomparsa in un’appartata clinica tra il Lazio e l’Abruzzo...
Così la democrazia muore e vince Casaleggio
Sono sinceramente stupito dalla reazione alle parole di Casaleggio jr sull’ipotesi di un futuro senza Parlamento. Non sto dicendo che io mi auguri un simile futuro, ma trovo che, dopo un lungo parlare di crisi della democrazia, poi nessuno abbia fatto o detto nulla sulle origini di questa crisi e su come avanzare delle soluzioni. La risposta di Casaleggio (tutto il potere alla rete, come se questa fosse uno strumento elettorale neutro, una specie di urna sempre aperta) è ingannevole e sbagliata. Ma se non c’è quella “giusta” e neppure una discussione fondata per avanzare proposte e correzioni alla crisi della democrazia la risposta sbagliata diventa l’unica e, a lungo andare, quella vincente.
Il Parlamento è stato (tra non pochi difetti e manchevolezze) il luogo in cui nei decenni successivi alla nascita della Repubblica si è svolto il confronto di posizioni, la mediazione, lo scontro o la pax consociativa (un terreno molto amato dalle opposizioni, meno dalle maggioranze che si dedicavano soprattutto alla gestione del governo). Anche se – diciamocelo – non è mai stato il luogo reale della decisione politiche che passava all’interno dei partiti e nelle loro correnti e nelle relazioni tra le forze politiche che componevano le maggioranze. Le leggi di origine parlamentare sono poche, memorabili forse solo quella del divorzio e quella sull’aborto. Non a caso due leggi sui diritti civili, temi quasi sempre fuori dagli accordi di governo.
Se il dibattito sulla crisi della democrazia oggi ci appare così evidente e drammatico viene da chiedersi quando inizia questa crisi? Difficile mettere una data ma io la collocherei a cavallo tra la fine degli anni Settanta e il primo lustro degli Ottanta. E non penso soltanto all’apparire e al tramontare dell’idea del compromesso storico e delle sue declinazioni politiche (cosa c’è apparentemente di più parlamentare dell’idea di un governo delle astensioni? Eppure mai come in quel caso era un governo frutto di ferrei accordi tra i partiti stabiliti fuori dal parlamento). E non penso neppure alla drammatica stagione del terrorismo politico e della strategia della tensione, che pure segnò profondamente il nostro paese.
Credo invece che le radici vadano cercate più nel profondo, nella concezione stessa della democrazia che si affermò e fu poi rovesciata in quegli anni. Penso al crescere, per iniziativa della sinistra politica ma anche sindacale (su Strisciarossa Marco Calamai ha ricordato la straordinaria esperienza dei Consigli di Zona voluti dalla Flm fuori dalle fabbriche) di un fenomeno che segna quell’epoca e che è quasi dimenticato: la partecipazione.
Partecipazione non era solo una parola buona per le canzoni di Giorgio Gaber, era una metodologia complessa, macchinosa, qualche volta farraginosa ma straordinariamente coinvolgente. La nascita dei consigli di fabbrica (strumento partecipativo generalista in cui tutti gli operai votavano fuori dagli steccati della rappresentanza sindacale), quella degli organi collegiali della scuola per i quali votavano docenti, genitori e studenti, forme molto diverse e nuove di partecipazione fuori dai confini professionali erano organismi oggi quasi dimenticati. Ricordate Medicina Democratica, Psichiatria Democratica, il Coordinamento dei Genitori Democratici, e allora persino Magistratura Democratica nell’impostazione di alcuni suoi fondatori come Luigi Ferrajoli aveva una idea partecipata del diritto e non era solo una componente della rappresentanza dei magistrati. A questo si univa il sorgere di alcuni movimenti partecipativi sui temi della differenza sessuale e dell’ambiente che per dimensioni e radicalità si distanziavano da quelli che sugli stessi temi li avevano preceduti. È difficile ricordare oggi come quella spinta alla partecipazione avesse fatto nascere una rete di comitati di quartiere, di associazioni su single issue.
Questi anni tra il 1973 e il 1979 rappresentano un modello di democrazia che sembrava destinato a segnare il futuro della forma politica italiana ma che al giro di boa degli anni Ottanta arretra, insieme alla sconfitta politico elettorale del Pci berlingueriano, per lasciare spazio alla domanda di una democrazia che decide al posto di quella che appariva una democrazia che discute e nella quale la partecipazione imponeva livelli sempre crescenti di ascolto e in cui la mediazione poteva apparire inazione. I momenti partecipativi apparivano (e forse erano diventati) sempre meno un elemento dinamico nella politica e sempre più soggetti che esercitavano solo il loro potere di veto. Dentro un grande fenomeno positivo e di crescita della consapevolezza sociale e politica cominciano a emergere i fenomeni che oggi chiameremmo “not in my backyard”.
Per andare agli anni Ottanta (quelli che a sinistra vennero chiamati del riflusso) quella domanda di decisione trovò in Craxi il suo interprete. Nei suoi anni di governo si pose il tema della “grande riforma” e quello del presidenzialismo come forma più adatta ad una democrazia decidente. In un’epoca ancora di grande passione politica le forme partecipative lentamente persero mordente. Con Craxi si impose (senza avere risposte) il tema delle riforme istituzionali e oggi – sono passati quasi 35 anni – l’Italia è ancora alle prese con quelle. Eppure in questo tema – nel nesso rappresentanza, decisione, divisione dei poteri, controllo, check and balance, peso del governo, centralismo verso federalismo – e nella sua mancata soluzione è contenuta la crisi della politica e quella, ancora più allarmante, della capacità di tenuta della democrazia.
Nel mondo oggi, rispetto a trentacinque anni fa, la democrazia ha fatto grandi passi in avanti, i paesi dove ci sono elezioni sostanzialmente libere sono cresciuti, il totalitarismo novecentesco non esiste più, neppure in Cina dove la democrazia non c’è ma elementi di libertà sono contraddittoriamente emersi. Eppure la democrazia ci appare come indebolita, in qualche caso degradata fino a sembrare un bonapartismo in cui il voto non ha un possibile ricambio o alternative realisticamente capaci di affermarsi. Si vota in Russia o in Turchia, si vota persino in Egitto o in Algeria (basta che non vincano i partiti islamici) ma elezioni e parlamenti non sono garanzia di democrazia.
E nei paesi di lunga o di giovane democrazia la risposta a questa crisi si esprime sempre più spesso con l’affermazione di partiti per i quali possiamo usare una gamma di aggettivi che va da ultranazionalisti a super conservatori, fino a sovranisti per arrivare alla parola più abusata di tutte che è “populisti” (sotto la quale i giornali mettono Maduro come i 5 Stelle, la sindaca di Città del Messico come l’ex sindaco di Londra, i separatisti catalani come i loro nemici di Podemos). Una parola “specchietto” che non ci ha aiutato a capire cosa succedeva e che ha invece favorito forze che la usano per indicare un nesso tra loro e il popolo. Più li chiamiamo populisti più vanno avanti nei sondaggi e più tendono a cementarsi, pur essendo forze con una costituency sociale e valoriale distinta e lontana. Popolo contro élite, gente comune contro casta. Se il discrimine diventa questo, voi, voi italiani dal reddito medio attorno ai 25.000 euro lordi, voi con un lavoro faticoso e spesso poco soddisfacente, voi che avete sempre pensato di pagare più tasse di quanti servizi vi vengono dati in cambio, da che parte vi mettereste?
La cosa più curiosa è che per l’attuale maggioranza di governo la crisi della politica c’è e non c’è. Ognuno ha la sua ricetta miracolosa. Casaleggio sogna l’estinzione del Parlamento e l’avvento della “democrazia della rete” in cui si vota sempre e su tutto (poi ovviamente le leggi su cui si vota qualcuno dovrà pure scriverle e spiegarle senza nessun dovere di prova e nessuna verifica, applicarle…). Salvini invece ogni tanto parla del passaggio ad un sistema presidenziale e a una legge elettorale che taglia i nodi gordiani con la spada. Ma la questione non è nel contratto di governo e il match è rimandato.
Siamo noi, noi sinistra o quello che siamo a non avere neppure una ricetta. La crisi della democrazia è direttamente proporzionale all’incapacità di avere un pensiero, una proposta e neppure una analisi seria di quali sono le questioni e gli errori, le timidezze e i conservatorismi, o le furbizie e le superficialità che hanno prodotto questo deficit politico, culminato nella lacerante ferita del referendum istituzionale di due anni fa.
In mancanza di alternative, se va avanti così, quella di Casaleggio sarà una profezia che si auto-avvera. Con un Parlamento vuoto che non ha nulla da discutere e anche quando ce l’ha preferisce stare a casa o in barca a vela. Con un governo che lavora per decreti ci mette un mese a scriverli e li porta in parlamento il 30 luglio fissando il voto al 2 agosto e poi tutti in ferie. Con una opposizione che strilla perché ha poco o nulla da dire.
Le donne e il più grande furto della storia
Articolo 37. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
Pensare che nel mondo il 49,6% delle donne non lavori mi sembra una profonda ingiustizia, e condivido il pensiero di Anuradha Seth, economista delle Nazioni Unite, secondo il quale il fatto che le donne guadagnino il 23% in meno degli uomini sia il “più grande furto della Storia”.
Quando tutti parlano di noi ma pochi se ne occupano davvero. Ho avuto la fortuna di conoscere tante donne molto diverse fra loro. Con lavori diversi, biografie diverse. Incontrate in città diverse. Mi è piaciuto ascoltarle identificarmi nelle loro parole, nelle loro difficoltà, nelle battaglie silenziose che fanno ogni giorno. Ancora.
E poi una parola le ha accomunate tutte. Quella parola è “colpa”. Evoluta poi in “senso di colpa”. Che è più profondo e che normalmente fa stare peggio. E sebbene sappiamo di saper essere molte “cose”, sappiamo anche o, meglio, abbiamo deciso che molto di ciò che ci capita passa esclusivamente attraverso di noi.
La sfida delle nostre madri è stata la conquista dei diritti come il divorzio o l’aborto. La conquista della libertà di scegliere. Scegliere di studiare, di lavorare o di occuparsi dei figli, scegliere di conservare una propria identità e autonomia. Scegliere di scegliere. Ma dovendo rinunciare alle proprie caratteristiche femminili. Sono dovute entrare in uno spirito competitivo che ha eliminato tutto quello che invece doveva essere valorizzato. Sono state costrette a volte a sostituire i colleghi maschi. Mai ad affiancarli portando tutte loro stesse.
La sfida della mia generazione è ancora più pesante. I diritti ci sono, alcuni sono stati aggirati. Ma vanno mantenuti senza rinunciare alle proprie caratteristiche che dovrebbero essere un valore. Ovunque.
Elena, un lavoro bellissimo
Conosco Elena, 44 anni, albanese a un convegno sui diritti delle colf e delle badanti organizzato dalla Camera dei Deputati. Si avvicina perché ci vede parlare con alcuni deputati di diritti e tutele.
“Anche noi vorremmo tanto essere riconosciute!” dice con voce squillante. Le chiedo in cosa non si senta rappresentata o che tipo di diritto si veda negare, di base il contratto colf e badanti è forse uno dei più tutelati.
“Ma io non faccio la colf né la badante. Sono un’interprete e traduttrice, iscritta all’Albo dei Periti del Tribunale di Roma da ventitré anni” mi dice sorridendo.
Inutile nascondere il mio stupore e la curiosità di capire perché allora sia venuta al convegno e capisco che era solo un tentativo di intraprendere un dialogo con le istituzioni per raccontare chi fossero e rendere nota la loro situazione.
La loro principale attività è assistere l’imputato o il detenuto in udienza se straniero, tradurre i documenti ma soprattutto tradurre le intercettazioni telefoniche, che sono diventate un nuovo strumento che affianca le indagini.
“Abbiamo una grande responsabilità” mi dice. “Non meno della Polizia giudiziaria perché non si tratta di una semplice traduzione ma è necessario anche dover interpretare”. Le chiedo di fare degli esempi perché è un mondo che non conosco.
“Riporto il caso dei trafficanti di droga: nessuno di loro parla tranquillamente al telefono mentre noi dobbiamo tradurre alla perfezione. Non vengono mai fatti i nomi ma, per esempio, conoscendosi fin da bambini tra loro ricorrono alla fisiognomica per darsi dei nomignoli. Ed è qui che interviene il lavoro dell’interprete”.
Mi racconta che due fratelli, durante le conversazioni telefoniche, parlavano fra loro al contrario.
“Non riconoscevo la mia lingua nelle loro parole però il suono mi sembrava familiare. Così ho provato a trascrivere quello che si scambiavano da un lato all’altro della linea telefonica e mi sono accorta che leggendola da destra a sinistra le parole assumevano un significato”.
Se c’è un arresto in direttissima, come interpreti devono essere reperibili e precipitarsi sul posto perché non possono andare in carcere.
“Nonostante tutto questo, io non prendo lo stipendio da giugno 2017 perché non sono ancora arrivati i nuovi finanziamenti. Il tribunale invece ha ritardi nei pagamenti dal 2014 e questo perché la prima richiesta di rimborso possiamo farla solo alla fine del procedimento penale e il tutto può anche durare uno o due anni”.
Resto basita dal fatto che gli interpreti non possano ritirare la loro disponibilità né di notte né di giorno. “Di notte” mi spiega Elena “può capitare che quando la polizia giudiziaria esca noi dobbiamo rimanere in sede, in attesa dell’interrogatorio. Bisogna tenere conto di una cosa: l’imputato ha diritto di chiedere la trascrizione di ciò che è stato dichiarato. Nel mio caso hanno addirittura chiesto il nome di chi avesse fatto la traduzione. In queste situazioni siamo nelle mani degli avvocati che tendenzialmente tutelano il nostro lavoro”.
Capisco che un lavoro come questo è una missione e che può anche fare paura. “La paura non mi impedisce di lavorare. Quando la tua competenza contribuisce alla lotta alla prostituzione, alle indagini sugli omicidi, a fare arrestare i latitanti e a bloccare i traffici di droga, tutto il resto viene meno”.
È orgogliosa di poter lavorare per il nostro Paese, dare una mano per migliorarlo. A espellere ciò che lo imbruttisce. “Anche il crimine evolve” mi dice. “E c’è ancora molto da fare. Per me è un lavoro bellissimo. Devi arrivare prima degli altri. Mettere insieme i pezzi”….
(Il brano pubblicato è tratto dal libro “Femminile plurale” di Giorgia D’Errico, per gentile concessione di Round Robin Editrice)
di Giorgia D'Errico