Socialismo, lotte operaie, viaggi.
Il dialogo scritto con mio padre Vittorio
Parlerò di mio padre Vittorio a partire, oltre che dai ricordi diretti, anche dalle tante lettere che mi ha scritto quando ero in Africa e di cui leggerò dei pezzi per me significativi anche oggi. Nei miei periodi di permanenza in Africa, il primo dalla fine del 1977 al 1982 e il secondo dal 1985 al 1992, abbiamo intrattenuto una vera e propria corrispondenza “d’altri tempi”. Le comunicazioni telefoniche erano molto difficili, in particolare nel primo periodo, e, quando possibili, erano dedicate soprattutto a scambi di informazioni. Visti i nostri caratteri, a volte erano telefonate un po’ ansiose, in cui per timore che la linea si interrompesse, le domande e risposte si accavallavano non facilitando la comprensione reciproca.
Uno scambio profondo e aperto
La scrittura permetteva invece uno scambio più profondo e forse anche più aperto dovuto alla distanza fisica, scambio che toccava molti argomenti, sia di carattere personale sia più generali, con discussioni a volte anche un po’ accese. Quando all’inizio degli anni ’90 sono tornata a vivere in Europa, a Bruxelles, Vittorio mi ha chiesto spesso di continuare a scriverci, ma ormai i tempi erano cambiati, c’era un telefono a disposizione, ci si vedeva molto più spesso e sicuramente c’erano meno cose interessanti da raccontare.
Nei primi anni di mia permanenza in Africa, mentre scoprivo il Mozambico, che cercava di costruire, come noi pensavamo, un socialismo dal volto umano, lui viveva una vita abbastanza turbolenta, in seguito alla separazione da mia madre. Era anche un periodo di intense riflessioni, sia personali sia politiche. Erano tra l’altro gli anni in cui aveva deciso di smettere di fare politica e in una lettera del dicembre 1980 mi diceva che avrebbe ricominciato a farla solo nell’estate dell’83.
Per lui era anche una fase di vagabondaggio (che ogni tanto lui chiama “esili”), ma anche di innumerevoli attività. Ha vissuto tra Formia e Gaeta, e poi a Modena e a Torino per dei corsi di insegnamento, a Londra per fare ricerca e scrivere il suo libro forse più caro, La Gerusalemme rimandata.
Libertà e felicità
C’è un passaggio in una sua lettera del maggio 1982, che ben rappresenta questo suo stato: "Nella prima metà di maggio ho passato un periodo di felicità. Mi sentivo libero. Prima o poi avrei dovuto decidere del mio futuro". Poi menziona varie ipotesi, tra cui continuare l’insegnamento a Torino o andare nella facoltà di Economia a Napoli, e alla fine decide per Torino. Tra le possibilità c’era pure quella di andare finalmente in pensione a Roma andando al mattino al Gianicolo col cane (Anna mi presterebbe Otto). La sensazione di essere libero, di poter decidere senza alcun vincolo di lavoro o di famiglia, l’idea che ho la tessera ferroviaria su tutta la rete e dispongo di un orario ferroviario sempre con me e posso andare ovunque e fermarmi ovunque senza dover rendere conto a nessuno, mi dava una sensazione di felicità molto eccitata.
I viaggi in treno ci hanno molto unito, da quando ero bambina e lui era deputato e mi accompagnava a Torino in vagone letto per le vacanze estive in montagna dai nonni. Successivamente, nella prima metà degli anni ’70, c’erano i nostri viaggi per Modena, spesso insieme ad altri studenti e professori pendolari, a volte interrotti da annunci di bombe (la maggior parte delle volte per fortuna falsi). E ancora, nella sua ultima estate a Pescasseroli, mentre eravamo seduti in giardino, avvicina la sua testa alla mia e mi dice con complicità: "Sai cosa facciamo adesso? Andiamo alla stazione, prendiamo il treno e andiamo a trovare Renzo", mio fratello che era Roma, ammalato, e che lui desiderava ardentemente di vedere.
Lotte operaie e socialismo
Nella nostra corrispondenza non poteva mancare il tema del socialismo, anche se i nostri punti di osservazione erano molto diversi. Nel dicembre del 1980 Vittorio fa una riflessione interessante, e mi sembra anche anticipatrice dei dibattiti degli anni successivi, sui temi di cui si occupava particolarmente in quel momento, cioè lotte operaie e socialismo, temi su cui anche io mi ponevo alcune domande dal lontano Mozambico.
La mia ricerca sull’Inghilterra, il corso che ho fatto a Modena sul movimento operaio comparato fra la Comune di Parigi e la sconfitta del 1920 in quattro grandi paesi europei, la riflessione sul mio così lungo passato mi portano ogni giorno di più a vedere nella lotta di classe la leva della storia e la fondatrice di cultura, ma al tempo stesso a vedere il fallimento, o persino l’inesistenza, del socialismo, lasciando aperto il problema se si tratta di rifondare teoricamente, in una o più generazioni, il socialismo, oppure se bisogna passare ad altro, alle conquiste democratiche e civili e alla continua lotta di classe come resistenza della democrazia contro il potere e l’autorità.
Un uomo eurocentrico
Ogni tanto mio padre aveva la sensazione di non essere abbastanza presente con me, anche sotto il profilo logistico. Scherzavamo spesso sul suo essere “eurocentrico” rispetto a mia madre, che mi veniva a trovare e mi dava molti consigli soprattutto sulla pianificazione socialista, di cui era una studiosa. In realtà anche mio padre seguiva bene la situazione dei paesi e delle regioni in cui vivevo. In particolare, quando ero in Mozambico, mi ricordava spesso cosa significasse vivere in un paese dove c’era comunque una guerra, anche se all’inizio non veramente “guerreggiata”, cioè soprattutto sotto forma di guerriglia. Era la mia prima esperienza di situazione di guerra, che avevo vissuto solo di riflesso attraverso i frequenti racconti di mio fratello Renzo, che aveva passato sei mesi sotto le bombe americane ad Hanoi nel 1972. Vittorio mi aiutava a tenerne conto, mi indicava come in questo contesto particolare dovevo affrontare lavoro e vita. In una lettera del 9 novembre 1979 scrive: "l’Africa australe è su un fronte di guerra locale e internazionale, guerra prevalentemente strisciante ma proprio per questo coinvolgente in modo contraddittorio le situazioni sociali interne. [….] Tra il bisogno di libertà e quello di disciplina c’è una contraddizione con la quale bisogna vivere e lavorare senza pensare di poterla superare".
E poi mi dava dei consigli concreti su come secondo lui affrontare meglio la questione.
Successivamente, la guerra delle Falkland è stata un’occasione per affrontare le diverse posizioni e le contraddizioni nella sinistra, in particolare per quanto riguarda l’approccio a volte semplicistico sui rapporti tra il Nord e il Sud del mondo. Nella lettera del maggio 1982 dice: "La guerra nel sudatlantico mi crea molti problemi. I miei contemporanei, cioè i vecchi antifascisti (e io stesso) sono segnati dall’esperienza di Monaco 1938 e in genere da tutti quegli anni. Se, per amore di pace, lasci fare una conquista a un fascista sanguinario avrai presto milioni di morti, gli aggressori bisogna bacchettarli sulle dita subito, poi una volta cacciati i fascisti, discutere le giuste rivendicazioni. Ma i più giovani mi oppongono il rapporto Nord-Sud. Io credo di capirne l’importanza, ma mi pare impossibile risolvere dentro la geografia politica le questioni sociali e politiche di democrazia, autoritarismo, fascismo. I cattolici irlandesi e gli operai polacchi sono nord o sud? E Galtieri rappresenta veramente il sud?".
L'attualità dei ragionamenti
Rileggendo le lettere, ma anche altri scritti di Vittorio, si resta a volte colpiti dall’attualità dei suoi ragionamenti, per esempio quando parla del dialogo con i giovani e del fatto che «non si riesce a sollecitare con la tua memoria i problemi di chi ti ascolta» (Del disordine e della libertà, 1995, dialogo con Renzo). E ancora, in una lettera del 3 aprile 1990, cioè di 30 anni fa, Vittorio affronta il problema della migrazione: "Tutti siamo passionali (come tutti siamo razzisti). L’importante è controllare le passioni e quindi anche combattere il razzismo. L’Italia adesso è agitata da questo problema. La nostra cultura secolare è di emigrazione, adesso siamo tutti impreparati all’immigrazione e la si vede come un’ondata smisurata. Una certa ondata c’è, forse alimentata dalla facilità (geografica e burocratica) almeno finora dell’Italia, forse dal dirottamento degli aiuti all’est europeo. Lo scatenamento razzista ha caratteri violenti, spesso omicidi. Certo ci sono i razzisti ‘doc’ come ci sono gli antirazzisti ‘doc’, in mezzo ai quali siamo tutti razzisti col dovere di vincere il rifiuto del ‘diverso’ che rompe i nostri equilibri psicologici e vitali. Ci sono obblighi sociali (di accoglienza e di assistenza). E ci sono anche obblighi culturali ed educativi".
Con il mio ritorno in Europa, la nostra intensa corrispondenza si è interrotta, ma non le sue domande, cui ero sottoposta a ogni mio arrivo da Bruxelles. Domande sul mio lavoro, sui miei viaggi. Mi faceva molto piacere sentire il suo interesse per il Rwanda, discutere con lui di Srebrenica e parlare di Europa. Essendoci io dentro, a volte criticavo forse esageratamente l’Unione europea, ma lui richiamava la mia attenzione sull’importanza politica della costruzione europea e seguiva anche molto da vicino gli aspetti economici di questa integrazione. Spesso, riprendendo la nostra esperienza dei primi anni ’70 di lettura dei classici dell’economia, leggevamo insieme articoli economici o parti di libri di economisti interessanti.
Con lui si parlava di tutto e a volte, appena arrivata, mi chiedeva cose tipo "ma secondo te il pane è più buono oggi o, come dice Natalia, era migliore il pane nero e duro del passato?; secondo te le donne stanno meglio adesso o stavano meglio prima? secondo te è più importante l’uguaglianza o la libertà?". In genere ci trovavamo abbastanza d’accordo sulle risposte, che spesso erano un po’ controcorrente. Ma la domanda che forse stupisce chi non gli viveva accanto e che invece ci univa molto è quella che mi faceva per telefono prima di cena: "Tu stasera cosa mangi, perché noi mangiamo...".
Bettina Foa, economista, è stata funzionaria dell’Unione Europea.
Questo testo è tratto dal numero 1 del 2020 della Rivista storica del socialismo che dedica la sua sezione Saggi alla figura di Vittorio Foa.