Può Aristotele sconfiggere Zuckerberg? Il copyright a Strasburgo

Una cosa è certa, dopo il voto di Strasburgo sul diritto d’autore ai tempi dei cosiddetti aggregatori: domani o dopodomani non cambierà nulla. Perché si vedano gli effetti della decisione dei deputati europei ci vorranno forse anni. E forse molte delle conseguenze oggi salutate o temute a seconda dei punti di vista non arriveranno mai. Il voto apre infatti un lungo processo che dovrà concludersi con l’introduzione nelle legislazioni nazionali dei 27 di modifiche armoniche alle normative sul diritto d’autore. Tempi lunghissimi. Domani, 14 settembre 2018, diventano efficaci, ad esempio, nuove norme sulla detenzione di armi la cui riforma venne approvata nel 2015. Nel frattempo molto potrebbe cambiare, ma soprattutto l’orizzonte tecnologico fra tre anni potrebbe essere molto diverso da quello odierno rendendo inefficaci almeno alcune delle previsioni del documento parlamentare.

Un breve riassunto per i distratti: la norma vuole regolare da una parte il rapporto tra i creatori di contenuti intellettuali e i cosiddetti aggregatori (Google, Facebook ma anche WhatsApp e Twitter). Secondo il Digital News Report 2017 del Reuters Institute for The Study of Journalism, in Italia ormai le persone che usano i siti online e i social media per informarsi sono quantitativamente alla pari con quelle che si informano tramite la televisione e il sorpasso è ormai alle porte. Parliamo di quasi il 72 per cento della popolazione, con Facebook che domina con il 51% di penetrazione (in leggero calo). Percentuali più basse ma non troppo distanti da quelle di altri Paesi.

Dall’altra, la direttiva vuole dare ai fornitori di accesso Internet la responsabilità di controllare che contenuti coperti da copyright vengano pubblicati e, nel caso, rimuoverli.

Questa seconda misura è quella più pericolosa. Equivale grosso modo ad affidare allo stampatore il controllo sulla liceità dei contenuti di un giornale. Il tutto dovrebbe necessariamente essere affidato a sistemi automatizzati considerando la quantità di informazioni che transitano sulla rete. Un altro algoritmo si incaricherebbe dunque di portare ordine nell’universo delle informazioni. È chiaro che non funzionerà, per lo meno non con l’attuale stato dell’arte. Conosciamo tutti storie di opere immortali censurate ad esempio da Facebook perché ritenute oscene. E la pratica ha ampiamente dimostrato come, scontato un breve effetto iniziale di annuncio, alla fine non funzioni.

Credo vada invece valutata e correttamente implementata la prima parte, quella della remunerazione dei produttori di contenuti. Non solo per l’evidente impatto economico che alcune scelte piuttosto che altre hanno sulla vita (e la morte) delle iniziative editoriali e di informazione letteralmente messe al servizio dei golem della Silicon Valley, anche per un aspetto meno discusso ma forse altrettanto rilevante: la modalità di “consumo” dell’informazione.

Chi si informa usando Google News o Facebook o Twitter vede gli snippet, le sintesi degli articoli proposte dagli aggregatori. Non legge più non dico gli approfondimenti ma neppure le notizie complete. Alimentando alla fine un fenomeno che sta uccidendo le nostre democrazie, le fake news. Se l’informazione si riduce a due o tre righe è impossibile anche solo sospettare se si tratti di una bufala oppure no. Viene introiettata e digerita così com’è e ripetuta. È il fenomeno del pappagallo. Se lo sento ripetere solo “ciao” posso pensare che parli. Ma non è vero.

Resta il problema dell’efficacia di norme che impiegano anni per essere definite e ancor più per tradursi in azioni concrete al tempo di una tecnologia che modella la realtà e la cambia a ritmi insostenibili. Anche questo è un grave, gigantesco problema che hanno tutte le società democratiche e ci costringe a riflettere sulla persistenza di un modello politico sociale nato ai tempi e con i tempi delle carrozze ma fondato sulle agorà. Può Aristotele sconfiggere Zuckerberg? Forse è giunto il momento di chiedercelo seriamente e concretamente.