Forcing di Berlino e Commissione: accordo sul Fondo entro luglio
Non sarà facile, dicono tutti. Ma neppure impossibile. Anzi, durante il Consiglio europeo che si sta tenendo in queste ore a Bruxelles (l’ultimo, salvo sviluppi catastrofici, in videoconferenza), le prospettive del Recovery Fund, o Next Generation EU, o piano Marshall europeo, insomma i 730 miliardi che l’Unione europea metterà a disposizione per la ripresa dalla pandemia, si sono andate colorando d’un cauto ottimismo.
Per vari motivi e sotto vari aspetti. Il primo è un dato di fatto: tra dieci giorni la presidenza del Consiglio dei ministri UE passerà alla Germania. Molti aspettano questo evento come l’arrivo al galoppo del Settimo Cavalleggeri nei film western. Angela Merkel ha investito troppo, insieme con Emmanuel Macron, nel Grande Progetto per non fare il possibile e l’impossibile per portarlo in porto. E chi comanda a Berlino e ha pure l’appoggio di Parigi, non c’è dubbio, può molto. Per la cancelliera c’è una ragione in più: poiché ha deciso di non ricandidarsi alla guida del suo paese, questa sarà la sua ultima battaglia, quella da vincere per passare alla storia. O, se volete, da non perdere per non compromettere una onorevole carriera. Da giorni i media tedeschi si affannano a indovinare la strategia che Frau Merkel adotterà per raggiungere l’obiettivo. Alla fine lei stessa ci ha messo il sugello con una certa spericolatezza: avremo l’intesa prima della pausa estiva, ha assicurato. Che è come dire nel prossimo Consiglio europeo di luglio, o nei prossimi Consigli se, come si comincia a dire, nel prossimo mese se ne faranno addirittura due, quello ordinario e uno straordinario.

Pressioni sul fronte dei "frugali"
Intanto il fronte dei nemici del piano, quelli che un immeritato neologismo politico ha ribattezzato paesi “frugali”, mostra qualche incrinatura. La prima ministra danese Mette Frederiksen ha fatto sapere che mantiene le proprie riserve sul rapporto tra prestiti (loans) e donazioni a fondo perduto (grants) ma in Consiglio non porrà il veto sul NGEU. Sul governo di Stoccolma guidato dal socialdemocratico Kjell Stefan Löfvell e su quello di Helsinki capitanato dalla giovane Sanna Marin, che ha già fatto molto per modificare il corso conservatore e neoliberista dei governi precedenti, è in atto da parte di altri partiti della sinistra europea (compreso il PD) e del gruppo del PSE al parlamento europeo una discreta moral suasion perché si associno alla scelta di Copenaghen.
Ossi duri restano i governi di Vienna e di Amsterdam. Ma anche nei loro confronti qualche buon argomento può essere trovato. Per quanto riguarda il premier olandese Mark Rutte e il suo coriaceo ministro delle Finanze Wopke Hoekstra un incentivo che potrebbe essere fatto balenare, secondo voci raccolte a Bruxelles, sarebbe il mantenimento dei cosiddetti “rebates”. Si tratta di sostanziosi sconti sui contributi di alcuni stati al bilancio comunitario che vennero inventati negli anni ’80 a favore dei paesi che avendo un settore agricolo povero, ricevevano in proporzione molto meno dei paesi con agricolture ricche. Il campione di questi paesi fu all’epoca la Gran Bretagna, quando la signora Thatcher arrivava ai vertici al grido di “I want my money back”. Ora che non c’è più il Regno Unito, i rebates sono ancora in vigore per Germania, Svezia e, appunto, Paesi Bassi, i quali, oltre a varie facilitazioni, versano alle casse dell’Unione solo lo 0,15% dell’introito dell’IVA contro lo 0,3% di tutti gli altri. La Commissione e tutti i partner insistono da tempo perché questo privilegio, che non ha più ragione di esistere, venga eliminato. Ora, come merce di scambio per un mutamento di atteggiamento sul NGEU, si potrebbe decidere di soprassedere e mantenerlo. Lo 0,15% dell’IVA sarebbe una bella somma sulla quale gli olandesi (e anche gli svedesi) potrebbero fare qualche pensierino.
Altri capitoli su cui ci sarebbe da trattare, e a livello di funzionari si sta già negoziando, sono la fissazione di un equilibrio più favorevole ai prestiti nel rapporto con le contribuzioni a fondo perduto. È un punto sul quale gli italiani, gli spagnoli e probabilmente anche i francesi sarebbero intenzionati a tener duro. Per i 173 miliardi che toccherebbero all’Italia, come è noto, il rapporto loans-grants indicato nella proposta della Commissione è circa 93 a 80 e l’obiettivo del governo di Roma, più volte ribadito dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Economia è che resti quanto meno in questa proporzione. Ma nel caso dell’Italia un piccolo riaggiustamento a favore dei loans potrebbe essere più che compensato dalla (ancora) eventuale adesione al meccanismo del MES. Capitolo di politica interna, questo, che deve essere sbrigato tutto a Roma.

Un'altra modifica che potrebbe essere indicata per ammorbidire i “frugali” è la scadenza dei prestiti del NGEU, che potrebbe essere anticipata. Trattandosi di prestiti a tassi quasi irrisori, non si tratterebbe di aggravi insopportabili, anche se appare un po’ troppo gravosa l’ipotesi, di cui s’è parlato, di una scadenza entro il prossimo esercizio di bilancio pluriennale, e cioè prima del 2027.
I margini della trattativa
Questi, nelle grandi linee, sono i margini dentro i quali la presidenza tedesca e la Commissione dovranno menare le danze negoziali nelle prossime settimane perché si arrivi a una soluzione, come ha detto Frau Merkel, “prima della pausa estiva”. L’urgenza è dettata anche dal fatto che l’accordo, una volta che sarà stato raggiunto, dovrà essere discusso e ratificato dai parlamenti nazionali. Esercizio, questo, non privo di rischi e che comunque richiederà un bel po’ di tempo. Fare presto, insomma, e concludere il processo entro il termine della presidenza tedesca. È ovvio che in ballo non ci sono solo i desiderata pro domo sua della cancelliera di Berlino. Per l’Italia, e anche per gli altri, a cominciare dalla Spagna, è essenziale che l’accordo e l’entrata in funzione del meccanismo del Fondo sia questione di settimane e non di mesi. I soldi dovrebbero assolutamente arrivare, siano grants o siano loans, prima dell’autunno-inverno, quando si manifesteranno in tutta la loro virulenza gli effetti sociali della lunga stasi produttiva dei mesi scorsi.
C’è poi il capitolo del bilancio comunitario, che dovrà essere potentemente rinforzato perché farà da garanzia all’emissione di obbligazioni europee con cui sarà finanziato il NGEU. Anche qui è in atto, stavolta da parte della Commissione e del Parlamento europeo, una moral suasion sugli stati membri perché accettino una radicale riforma delle risorse proprie. Proprio ieri i presidenti di tutti i gruppi europeisti dell’assemblea di Strasburgo (PPE, PSE, Liberali, Sinistra e Verdi) hanno indirizzato ai capi di stato e di governo riuniti nel Consiglio una lettera in cui li invitano a porre subito all’ordine del giorno del vertice la decisione sull’adozione di nuove risorse proprie, l’unico strumento – scrivono i leader parlamentari - con il quale l’Unione può affrontare l’immane compito di risollevare l’economia del continente e consolidare il consenso dell’opinione pubblica sugli obiettivi del green deal, il grande programma di risanamento e di rinnovamento ambientale che non dovrà essere sacrificato alle esigenze di spesa della ripresa post-epidemia, ma anzi indicare un nuovo modello di sviluppo per la ripresa economica.
Risorse proprie
L’esecutivo comunitario e la prossima presidenza tedesca hanno un’arma abbastanza efficiente per ottenere un passo avanti importante. Poiché tutti gli stati, volenti o nolenti (alcuni molto nolenti), sono convinti ormai che un forte incremento del bilancio è inevitabile, si tratta di far capire loro che se l’aumento avvenisse con i criteri attuali, l’aumento dei contributi nazionali si riverserebbe inevitabilmente su un aumento dell’imposizione fiscale sui cittadini. Cosa economicamente pessima e politicamente pericolosissima, perché darebbe fiato e argomenti alla platea dei sovranisti e degli euroscettici di tutte le scuole di pensiero. È necessario perciò reperire tutte le possibili fonti da cui l’Unione può ricavare risorse senza gravare sui contributi diretti. Alcune sono individuate da tempo, come la lotta all’elusione fiscale delle grandi multinazionali del web, l’imposizione di una carbon tax sulle merci in relazione all’anidride carbonica immessa nell’atmosfera producendole, l’estensione oltre i dieci paesi che già l’hanno adottata della tassa sulle grandi transazioni finanziarie (Tobin tax) e un suo eventuale aumento, un’imposta sull’uso della plastica e altri materiali dannosi per l’ambiente. L’individuazione di queste risorse e la loro messa a frutto è il compito che impegnerà la presidenza tedesca e le due successive, quella portoghese e quella slovena nel nuovo meccanismo di coordinamento “tripresidenziale” che comincerà a funzionare dal 1° luglio di quest’anno.