La lunga marcia
dell’ambientalismo
e l'ultimo difficile bivio

Viviamo in società dominate da un’ideologia securitaria, piazziamo videocamere anche in panetteria, ci dotiamo di sistemi d’arma sempre più letali, temiamo immigrazioni incontrollate. Oppure ci rassicuriamo - appunto - con favole scientiste come “vivremo tutti fino a centocinquant’anni” però ci arrabbiamo se un medico ragionevole osa dirci che nel suo campo non esistono certezze ma probabilità più o meno alte di cavarcela. Ci culliamo nell’ansia del prevedere e crediamo negli “spiriti animali” della tecnologia che tutto risolve, basta lasciarla fare. Ma impariamo a fatica l’arte antica del prevenire, così trascurando ancora in troppi una semplice realtà: i maggiori pericoli per la nostra sicurezza vengono da una distribuzione ineguale delle risorse, dall’utilizzo di fonti energetiche non rinnovabili, da concentramenti urbani folli, ingovernabili (mente e corpo ti lanciano segnali di disagio? Sotto con gli psicofarmaci, tra antidepressivi e anestetici e si torna a far festa), da sistemi di produzione alimentare incommentabili, con ricadute pessime per la salute della razza umana, nonostante la formidabile, lunga marcia vincente della medicina.

Cerchiamo sicurezza senza annoverare la salute

È una notevole allucinazione schizofrenica: cerchiamo sicurezza senza annoverare la salute e la sopravvivenza dei viventi tra i suoi canoni di base, come invece sarebbe logico; ci inchiniamo ai prodigi della scienza ma ce ne dilettiamo con un ascolto selettivo: sì alle notizie di scorribande spaziali, no ai moniti sul clima e su una emergenza che è in agenda fin dai primi anni del secondo dopoguerra. Filo-scientifici a corrente alternata, allarmati e negazionisti in un colpo solo, no-covid in strada e malati esigenti in ospedale. Nonostante alluvioni, siccità che scompaginano intere nazioni, incremento delle malattie polmonari e cardiache. C’è però un bicchiere mezzo pieno. Ampi raggi di luce, accanto a tutto questo, stanno giungendo da una presa di coscienza dai tratti nuovi, misurata, praticata, con milioni di cittadini attivi e robusti comparti istituzionali del cosiddetto primo mondo e non solo, in marcia verso una massa benevolmente critica.

“Siamo realisti, chiediamo l’impossibile” è stato uno slogan guevariano gettonassimo nel ’68, le ragazze e i ragazzi che scendono in piazza in queste settimane, studiano e ragionano e chiedono rappresentanza politica, proprio in quanto generazione. E con realismo autentico non chiedono l’impossibile, chiedono un futuro, una buona, concreta possibilità di esistere fra cinquant’anni. Proprio nel ’68, era nato il Club di Roma, fondato, tra gli altri, da Aurelio Peccei, che aveva commissionato al Mit di Boston un “Rapporto sui limiti dello sviluppo”. Risonanza tra i partiti? Ai tempi scarsissima, pure nel Pci, che dal vertice alla base faceva muro mettendo in primo piano la difesa del posto di lavoro, nonostante la battaglia per la salute fisio-psichica in fabbrica avesse grandi combattenti, qualcuno ricorda Mario Proto e il suo “Mal di fabbrica”?

L'antica previsione sul rapido esaurimento delle risorse

Quel primo Rapporto del Club di Roma dava scadenze allarmanti e preconizzava un rapido esaurimento delle risorse, i suoi successivi aggiornamenti hanno preso atto dell’indubbio progresso scientifico-industriale, della maggiore attenzione su scala globale al consumo di energie fossili. Peccato che il modello di sviluppo, nelle sue strutture di base, non sia stato sufficientemente ri-orientato, tanto che è ormai accettata nella comunità scientifica e nei governi una sentenza implacabile: il pianeta che ci ospita non è un serbatoio infinito di risorse, dalla terra coltivabile all’acqua dolce. Stiamo andando in riserva. Di qui le scadenze per contenere drasticamente la produzione di anidride carbonica e provare a mitigare la pazza corsa della nostra razza predona. E i progetti più che ambiziosi, necessari, calati in ricerche inimmaginabili solo dieci anni fa. Per fare un esempio, Eni, con Enea, Cnr e Mit sta lavorando a biocarburanti dai residui alimentari, al riciclo chimico e non solo meccanico della plastica (con vantaggi considerevoli sull’inquinamento), allo sfruttamento dell’energia marina, fino alla fusione a confinamento magnetico, una fusione (non fissione) nucleare controllata e sicura che, dicono in Eni, sfrutta i principi base dell’energia solare. Un colpo deciso all’anidride carbonica. Sarebbe interessante che ne parlassero i leader dei vari partiti, che la fusione controllata divenisse argomento di pubblica discussione, per capire e controllare.

Sostenibilità+digitalizzazione

I giovani avvertono che siamo in perfetto orario per una rivoluzione in viaggio sul doppio binario di innovazione (sostenibilità + digitalizzazione) e conservazione pura e semplice e indispensabile del mondo su cui pascoliamo. È come se fosse in atto un riallineamento globale che va oltre i soggetti partitici e focalizza il problema dei problemi. Finalmente una ragione di impegno solidissima, in nome di nuovi saperi condivisi, che consegna a plateale inadeguatezza politici e mosse politiche letteralmente ignoranti e senza respiro. Più gente ne diventerà consapevole, più crescerà l’insofferenza, maggiore sarà la probabilità di farcela. Le funeste profezie di Malthus sulla sovrappopolazione sono state confutate dalla rivoluzione industriale, da un geometrico aumento della produttività. Anche ora serve una rivoluzione, il cui primo paradigma è: basta con l’io, ci si salva solo col noi. Più facile adottarlo in sistemi aperti che in regimi coercitivi, dove il flusso delle notizie e delle conoscenze non è libero (e in effetti qualche problemino l’abbiamo pure in Occidente, vedi le fake news che negano dati e allarmi sul clima). Ma prima o poi, si spera ancora in tempo, pure Russia e Cina dovranno stare seriamente al gioco. Un’occasione a breve per verificare lo stato dell’arte e le volontà politiche la darà il vertice Onu sul clima di Glasgow, a novembre.

Rachel Carson

La lunga marcia di Rachel Carson

Condivisione, nuove premure per tutti i viventi, un nuovo sentimento della terra che abitiamo. Considerando la lunga marcia dell’ambientalismo, che è poi l’umanesimo aggiornato al XXI secolo, non si può non riandare a una figura-cardine come la biologa statunitense Rachel Carson (1907-1964), pioniera dell’ecologismo e autrice di due libri capitali, “Il mare intorno a noi” del ’51 (Einaudi, poi meritoriamente ripubblicato da PianoB) e “Primavera silenziosa” del ’62 (Feltrinelli). Scriveva in quest’ultimo: “Su zone sempre più vaste del suolo statunitense, la primavera non è ormai più preannunziata dagli uccelli, e le ore del primo mattino, risonanti una volta del loro bellissimo canto, appaiono stranamente silenziose”. La causa? Il ddt, micidiale “livella” per ogni vivente, non solo per i parassiti. La denuncia poetica di Rachel ebbe un impatto grande, nel ’72 il ddt venne eliminato dagli Usa. “Il mare intorno a noi” è un viaggio nell’altro mondo, quello marino, nostra antica culla, a noi così collegata che fra la composizione chimica dell’acqua di mare e il plasma sanguigno esiste una perfetta analogia.

Scioglimento delle calotte polari, distruzione della barriera corallina, scossoni al miracoloso equilibrio che tiene insieme oceani e terre emerse. Rachel, sessanta-settanta anni fa vedeva chiaro: “Ci troviamo oggi a un bivio: ma le due strade che ci si presentano non sono ambedue egualmente agevoli (…). La via percorsa finora ci sembra facile, in apparenza: si tratta di una bellissima autostrada sulla quale possiamo procedere ad elevata velocità ma che conduce a un disastro. L’altra strada - che raramente decidiamo di imboccare - offre l’ultima e unica probabilità di raggiungere una meta che ci consenta di conservare l’integrità della terra. Una scienziata preveggente ci ha regalato pagine che sembrano un dolente e amorevole “De Rerum Natura”. Da Lucrezio a Rachel Carson identica è la lezione: non cercate responsabilità negli Dei, ma nella natura, di cui facciamo parte. Non siamo lo scopo ultimo delle volontà divine. Semmai un “incidente” che rischia adesso di punirsi da solo, senza intervento alcuno dell’immenso cielo.


Quando i ricchi chiedono troppo

L’attrazione irresistibile esercitata dalla crescita economica nella sua moderna forma istituzionalizzata ha funzionato da sostituto di qualità superiore rispetto alla ridistribuzione. Mentre oggi le masse non potrebbero mai avvicinarsi al livello attuale di ricchezza dei benestanti, neppure ricorrendo all’esproprio generale, esse invece potranno arrivare con pazienza allo stesso obiettivo, o quasi, in un futuro non troppo lontano - sostiene la visione convenzionale - grazie alla magia della crescita complessiva. Senonché, una volta che questa crescita abbia portato i consumi di massa al punto in cui causano problemi di congestione nel senso più ampio, a quel punto la chiave del benessere personale torna ad essere l’abilità di stare davanti a tutti gli altri. La crescita generale aumenta quindi la congestione, evidente al massimo grado nella sua manifestazione fisica, negli ingorghi di traffico.

La caratteristica strutturale in questione consiste nel fatto che, quando il livello del consumo medio aumenta, una porzione crescente del consumo stesso assume un aspetto sociale oltre che individuale. In altre parole, la soddisfazione che gli individui ricavano dai beni e dai servizi dipende in misura crescente non solo dal loro consumo personale ma anche dal consumo di altri. Per un uomo affamato, la soddisfazione ricavata da un pasto abbondante non è condizionata da quel che mangiano altre persone né, se la fame è abbastanza grande, da qualsiasi altra cosa esse facciano. Il suo pasto è un affare interamente individuale. In termini tecnici, è un puro bene privato. All’estremo opposto, la qualità dell’aria che il cittadino respira oggi nel centro della città dipende quasi esclusivamente dal contributo che i suoi concittadini danno alla battaglia contro l’inquinamento, o direttamente attraverso la spesa pubblica o indirettamente attraverso la normativa pubblica. L’aria pulita in una metropoli è un prodotto sociale. In termini tecnici, è pressoché un puro bene sociale.

I limiti, a un certo punto, ci sono sempre stati, ma solo da poco tempo si sono fatti invadenti. Questo, in sostanza, è il risultato di quanto ottenuto in passato da una crescita materiale non soggetta a limiti sociali. In questo senso, la preoccupazione sui limiti dello sviluppo espressa dal Club di Roma è mal collocata: mette al primo posto i limiti fisici e trascura la presenza immediata, anche se meno apocalittica, dei limiti sociali allo sviluppo. Considerare il progresso economico totale come un ingrandimento del progresso individuale equivale a far sorgere aspettative che non potranno essere soddisfatte mai. Il principio dell’interesse personale è incompleto come strumento di organizzazione sociale. Esso opera con efficacia solo in tandem con qualche principio sociale che lo sostenga: questa caratteristica fondamentale del liberalismo economico, che fu assunta in gran parte per scontata da Adam Smith e John Stuart Mill, è stata persa di vista dai suoi protagonisti moderni. Mentre si è sempre più accettata la necessità di modificare il laissez faire nelle politiche pubbliche, la necessità di condizionare il comportamento interessato degli individui è stata sempre più trascurata. Si è fatto il tentativo di costruire una sempre più esplicita organizzazione sociale senza il sostegno di una moralità sociale. Il risultato è stato un logoramento strutturale sia del meccanismo di mercato sia del meccanismo politico destinato a regolarlo e a integrarlo. Persino nelle condizioni più propizie per la società di mercato, certe cose devono essere tenute fuori del mercato. I più importanti articoli che non devono essere messi in vendita sono gli elementi centrali del tessuto costituzionale, come le decisioni giudiziarie e politiche.

Occorre operare un adeguamento di grande portata nello spazio legittimo per l’azione economica individuale. La libertà economica individuale deve ancora essere adeguata alla richiesta della partecipazione di maggioranza. Le disponibilità tradizionali, legate per le circostanza storiche a una condizione elitaria, ora costituiscono un sovraccarico. In questo senso le aspettative eccessive nell’economia moderna sono le tradizionali aspettative di chi occupa i gradini più elevati. Sono questi infatti che hanno posto dei livelli irraggiungibili. Sono i ricchi che chiedono troppo.

Occorre operare un adeguamento di grande portata nello spazio legittimo per l’azione economica individuale. La libertà economica individuale deve ancora essere adeguata alla richiesta della partecipazione di maggioranza. Le disponibilità tradizionali, legate per le circostanza storiche a una condizione elitaria, ora costituiscono un sovraccarico. In questo senso le aspettative eccessive nell’economia moderna sono le tradizionali aspettative di chi occupa i gradini più elevati. Sono questi infatti che hanno posto dei livelli irraggiungibili. Sono i ricchi che chiedono troppo.

(Fred Hirsch, “I limiti sociali allo sviluppo”, 1976)