I misteri e i veleni del caso Schwazer
Giustizia è fatta, anzi proprio no

Giustizia è fatta, anzi no. Alex Schwazer, il marciatore azzurro già oro olimpico nella 50 chilometri e squalificato per otto anni per doping dai giudici dello sport, è nuovamente sulla graticola nonostante la sentenza del tribunale di Bolzano che lo ha assolto mandando su tutte le furie gli organismi sportivi che lo avevano condannato e che ora respingono la decisione. Schwazer ha già festeggiato e con lui il suo tecnico, il maestro di sport Alessandro Donati, uomo che non ha mai nascosto scarsissima fiducia nel sistema sportivo sia in fatto di doping che di giustizia. Poche ore per gioire e programmare il ritorno alle gare mentre la federatletica mondiale già studiava la replica arrivata secondo scontate formule: noi impeccabili, prove inoppugnabili, illecita interferenza a casa nostra.

Schiaffi alla giustizia italiana

Insomma schiaffi alla giustizia italiana che contesta l’affidabilità delle analisi di sangue e urine dell’atleta fatte durante un controllo a sorpresa e anzi parla dì incompatibilità tra quei campioni passati da molte mani e quelli fatti fare dal medesimo tribunale. Si fa così strada la teoria sempre opinata da Donati di un misto tra sciatteria e complotto motivato dall’odio del sistema sportivo per lo stesso Donati e chi come Alex Schwazer non lo subisce e anzi contrattacca. E’ storia vecchia, persino simile a tante a cominciare dagli agguati a Diego Armando Maradona o a qualche ciclista di punta del passato per dare una lustrata alla vetrina pubblica dello sport fingendo di fare pulizia all’interno. E Donati è sempre stato in prima linea nel denunciare le storture e le complicità in fatto di doping dentro non solo la federatletica nazionale ma anche quella mondiale.

Sin qui quel che è certo che il danno per Schwazer è già consumato al di là della tenacia inossidabile che lo ha convinto, insieme alla propria innocenza a continuare ad allenarsi e sperare di tornare a gareggiare. Speranza riaccesa dal tribunale italiano e respinta a stretto giro dallo sport tra cui spicca tuttavia il silenzio del Comitato olimpico italiano, organismo in bilico tra due giudici ma che ha appena incassato dagli organismi internazionali un certo sostegno alla voglia di autonomia economica pur dovendo ricorrere a finanziamenti pubblici per la propria attività non sempre specchiata.

Come andrà a finire non è affatto chiaro. Donati e Schwazer continueranno a lottare, è sicuro. Ma il potere infastidito dello sport internazionale terrà il punto: niente gare e nessuna accettazione di giudizi esterni. E così la riabilitazione resterà molto virtuale mentre il risarcimento, morale o economico che sia, richiederà altre battaglie di logoramento. Un’altra storia di spreco di talenti, quello di un tecnico votato alla purezza del risultato e alla guerra al doping, quello di un campione forse usato per vanificare tutto questo.


I Giochi rinviati, il virus batte la religione
delle Olimpiadi

L’Olimpiade è una religione. I Giochi olimpici –iniziati timidamente nel 776 a.C.- furono dedicati a Zeus, il padre degli dei, ed imponevano la “tregua olimpica” per poter raggiungere in pace Olimpia. Anche il ritmo sacro dei quattro anni divenne la misura del calendario per tutti i greci. Alla fine furono aboliti dall’imperatore Teodosio (393 d.C.) su pressione del vescovo di Milano, Ambrosio, forse perché erano l’ultimo baluardo “pagano” dopo che il cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero romano.

Fu il barone francese Pierre de Coubertin, alla fine dell’800, a far rinascere i Giochi olimpici come una nuova Religione, laica e pagana, cosmopolita e nazionale, riservata ai “gentiluomini”, con la rigorosa esclusione –all’inizio- di donne e lavoratori. Pierre de Coubertin inventò anche uno slogan/comandamento strepitoso e a suo modo religioso: “l’importante è partecipare, non vincere”.

Propaganda e fair play

La Religione dei Giochi moderni è carica di riti, sfilate, premiazioni, “divinizzazione” dei vincitori, ma è anche Religione umanista e di pace, perché lo sport, sublimazione della guerra, dovrebbe garantire la pacifica competizione tra popoli e nazioni, con il ritmo lento e sacrale dei quattro anni a scandire l’eccezionalità olimpica.

E’ una Religione fondata sul fair play, ma esposta - come sapevano Ludwig Feuerbach e Karl Marx - al rischio dell’alienazione per produrre risultati, al servizio di pubblico, sponsor e televisioni globali. E’ anche propaganda, “oppio dei popoli”, che affascina e distrae, come dimostra l’Olimpiade di Berlino nel 1936, grazie alla stupenda narrazione cinematografica di Leni Riefenstahl.

La Religione olimpica, come tutte le religioni, si è sempre compromessa con la politica, come hanno dimostrato le stragi di studenti a Città del Messico nel ’68 e degli atleti israeliani a Monaco nel ’72, e poi i troppi boicottaggi, come quelli di Mosca nel 1980 e di Los Angeles nel 1984.

Solo le guerre avevano fermato la sacralità dei Giochi olimpici, nel 1916, nel 1940, programmate proprio a Tokyo, e nel 1944.

Adesso la “guerra” al coronavirus ha fatto vacillare i Gran sacerdoti del CIO, che hanno preso una decisione senza precedenti: spostare la XXXII Olimpiade al 2021. Inevitabile e doloroso, visto che un’Olimpiade senza pubblico è impensabile e non si può mettere a rischio la salute di atleti, tecnici, giudici e dirigenti. Doloroso soprattutto per gli atleti, dediti a una programmazione millimetrica della loro immensa fatica, che dovranno –probabilmente - sottoporsi di nuovo alla qualificazione olimpica, con il rischio di disperdere l’occasione della vita per “partecipare” al sogno di tutti gli sportivi. Un’Olimpiade in un anno dispari sembra un’eresia, ma -con un pizzico di opportunismo- faremo finta che si tratti di Tokyo 2020, medaglie comprese. Così, il più grande spettacolo del mondo deve continuare senza far arrabbiare le divinità del business, delle televisioni e del pubblico mondiale in crisi di astinenza. E alla fine, forse, #andràtuttobene.


Lo sport italiano
tra faide e pasticci
penalizza giovani e scuole

In gioco ci sono i molti milioni che lo stato passa al CONI, il vecchio da allora, gestito dai medesimi personaggi pescati nei palazzi dello sport e delle federazioni. Oltre quattrocento milioni sono quei quattrini che il comitato olimpico distribuiva tra se stesso e tutta una galassia di gruppi e discipline sportive più o meno conosciuti. Una storia procedente senza traumi da quando il CONI perse l’autonomia economica in seguito al tracollo del Totocalcio e al rifiuto di passare a gestire l’Enalotto.

Ora però una nuova divisione, voluta dall’ex sottosegretario Giancarlo Giorgetti, Lega,, sta scatenando risse interne ed esterne al palazzo perché sostituendo la spa CONI servizi in “Sport & Salute” ha innescato un cambio radicale nel sistema di controllo: prima, al di là delle etichette, la distribuzione di quei soldi era nelle stesse mani, ora e per la gran parte in nuove direttamente scelte dal ministero dello sport, istituzione sempre più presente laddove sino a qualche anno fa si faceva fatica a riconoscerne l’esistenza.

Il Comitato olimpico guidato da Giovanni Malago’, si è sentito tradito e si è appellato al Cio di cui è membro insieme a Franco Carraro e Mario Pescante, ambedue di Forza Italia, per tentare una retromarcia su quella decisione varata dal parlamento italiano prima del ribaltone da gialloaverde a giallorosso. Autonomia minacciata, spirito olimpico umiliato, ridimensionamento inaccettabile, tradizione cancellata e “sistema che funziona” messo in pericolo dall’avventurosa iniziativa di quel Giorgetti bocconiano e leghista si ma ormai fuori gioco.

In fondo nulla è cambiato dal punto di vista economico e sostanziale: il comitato olimpico resta tale e quale, la società di servizi con il suo migliaio di dipendenti cambia nome e referenti, i beneficiari ultimi, federazioni sportive e enti affiliati non verrebbero toccati da tale riforma. E allora perché tanto scaldarsi? Perché fermarsi alla perdita di potere quando nessuno mette in discussione il “sistema sport” italiano che invece dovrebbe essere l’oggetto di una radicale riforma possibilmente legata al rinnovo del sistema scolastico e rivolta all’inclusione di più larghe fasce di adolescenti e praticanti?

La tempistica del CONI di Malago’ ha altri presupposti e altri obiettivi: ci sono le Olimpiadi di Milano e Cortina da mettere in cantiere, quelle estive da riprogrammare e eventualmente candidare, c’è da lasciare il segno su un ambiente difficile, governato da presidenti che guardano ai loro sport gestiti da decenni come a un regno incontrastato e solo apparentemente effimero ma fatto di favori, affari, concessioni quando non clientele: insomma un sistema perfettamente collocato nel Belpaese e ben in linea con l’idea diffusa della privatizzazione di quel che dovrebbe essere pubblico. Altrove e a seconda delle stagioni, si rispolverano concetti come “conflitto di interessi” o doppi e “tripli incarichi”. Nello sport nazionale è regola, spesso ammirata anche dall’estero dove si guarda con ammirazione a certi grandi successi degli azzurri sul campo, negli stadi e nelle piscine.
Difficile tuttavia che il nuovo governo cambi rotta: una volta messe le mani su nomine e gestione, indietro non si torna anche se la riforma varata nel luglio scorso manca di svariati decreti attuativi che potrebbero addolcirne l’impatto e magari portare al palazzo, sceso in campo anche per difendere la dotazione di biglietti omaggio dello stadio olimpico di Roma (ma questo è un vecchio vizio del Coni sin dall’epoca di Giulio Onesti)’ una diversa percentuale di quel pacco di milioni di euro.


La guerra fredda dell'antidoping
Che ha già perso la partita

Anche San Marino adesso fa la voce grossa con la Russia. Insieme ad altri 28 paesi, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa.

La guerra fredda, ultima edizione, passa anche attraverso il doping nello sport. Una settimana fa il New York Times ha fatto uscire la notizia che la Wada, l’agenzia mondiale antidoping, ritiene che difficilmente si potranno inchiodare gli atleti russi, pizzicati a barare e a gareggiare con una farmacia a disposizione. Non ci sono prove sufficienti per 95 su 96 di essi. Nonostante il rapporto di Richard McLaren, l’avvocato canadese, grande accusatore dei ragazzi di Putin, e le rivelazioni di Grigory Rodchenkov, ex capo del laboratorio antidoping di Mosca, rifugiatosi a Los Angeles (due suoi collaboratori sono morti in circostanze che fanno pensare). Indagini e accuse, via via annacquate e boicottate, hanno svelato però la pratica, da parte dei russi, di un doping di Stato: pianificato, organizzato e praticato con attività consolidate e scenari degni di una spy story scritta da John Le Carré.

E’ presto per dire, come è stato fatto con alcuni frettolosi titoli, se lo scandalo esploso alla vigilia delle ultime Olimpiadi, Rio 2016, e che portò alla clamorosa esclusione dell’atletica leggera russa dai Giochi, finirà in una bolla di sapone. A dicembre dello stesso anno, si parlò di un bubbone che coinvolgeva 1115 atleti di oltre trenta discipline sportive. C’è da esaminare, quindi, ancora un bel po’ di materiale. Nel frattempo, molte nazioni hanno messo le mani avanti, fingendo di fare le verginelle: non vogliamo la Russia alle prossime Olimpiadi invernali in Corea del Sud (febbraio 2018).

L’antidoping continua a perdere la partita, nonostante squalifiche pesanti e ripetute in tanti sport che hanno coinvolto anche personaggi di primo piano. Fa cilecca perché il fenomeno delle provette, del sangue riciclato o potenziato, di altre alchimie, è un business incontrollabile, un mostro alimentato dalle mafie internazionali, dalle lobby farmaceutiche, dalla corruzione degli apparati sportivi internazionali. Dalla voracità di chi pratica lo sport ai più alti livelli agonistici: i premi in denaro sono lì per essere presi e ingrossare il conto in banca.
Non stiamo certo invocando il serto d’alloro per i vincitori. Ma il doping è una Piovra che non smette di infilare i suoi tentacoli ovunque. Se negli anni, lentamente, a piccoli passi è cresciuta la capacità di colpire i dopati e gli apparati che li sostengono (fino ad un certo punto, perché è facile punire l’atleta, più difficile mettere le mani addosso a chi lo induce a farsi di tutto: per scarsa volontà politica di inchiodare chi sta più in alto), bisogna riconoscere che l’industria del doping è andata avanti ugualmente, i fatturati sono cresciuti, i bari si sono moltiplicati e molti altri l’hanno fatta franca. Con gli sponsor che brindano. Fino ad alimentare il partito degli antiproibizionisti: legalizziamo il doping, permettiamo a chi deve fare una Olimpiade o un campionato qualsiasi di assumere tutti i farmaci che il medico-stregone gli consiglia per migliorare la propria prestazione. Così finisce questo festival dell’ipocrisia. Liberi tutti. Scacciate via i cattivi pensieri, smettetela con questo moralismo borghese e continuate ad applaudire la grande impresa, l’exploit, il record dei record. Forse un giorno, si arriverà a questo. Una deregulation come per tante altre cose di questo nostro mondo.

Non si riesce ad annientare la cultura del doping perché fino a quando esisteranno organismi di controllo che sono emanazione dello sport stesso, sarà difficile trovare una linea retta, di rigore e trasparenza. Occorrerebbe, forse, un organismo terzo, scientifico e giuridico, esterno al mondo sportivo e alle sue gerarchie. Non si vuole fare questo. Sono in ballo troppi interessi. La stessa agenzia antidoping (la Wada, che è emanazione del Cio, il Comitato internazionale olimpico) ha dato spesso l’impressione di arrivare in ritardo sui casi più eclatanti. E che alla fine scoprisse l’acqua calda.

Non solo: Cio, Wada e le singole federazioni internazionali procedono ognuno per conto proprio, a volte ignorandosi tra di loro, a volte pestandosi i piedi, a volte facendo l’uno il contrario dell’altro. Tant’è che ci sono alcuni sport (ciclismo e atletica, innanzitutto) che sono particolarmente tenuti sotto controllo, mentre altri (calcio e tennis, tanto per dire) godono di un regime quasi privilegiato, di una sorveglianza più blanda.

Il doping c’è sempre stato. Forse anche Filippide s’era fatto qualche “bomba” a Maratona. Lo sport spettacolo dei tempi moderni richiede divi e performances fuori da ogni regola. Non deve fermarsi mai, fino allo sfinimento.

Non bisogna sparare nel mucchio perché ci sono molti giovani e meno giovani nello sport di vertice che si guadagnano la pagnotta in maniera onesta e senza aiuti extra. Tutti portano come esempio positivo l’uomo più veloce del mondo: Usain Bolt. (Ma le mani sul fuoco in questi casi è meglio non metterle). Però basta leggere attentamente certe cronache per restare sbigottiti.
Nella primavera dello scorso anno si è avuta notizia dei risultati dell’indagine retrospettiva del Cio sui “casi sospetti” dei Giochi di Pechino 2008 e Londra 2012. Gli esperti sono andati a riesaminare le provette congelate durante le due manifestazioni. Ebbene, 32 sono stati i casi di positività riscontrata a Pechino su 454 (il 7,2%) e 23 su 265 a Londra 2012 (il 9%). Vicini quindi al 10%. Tanti, se si tiene conto che quella indagine non comprende la ricerca dell’Epo (diffusissima anche nelle sue varianti più sofisticate) ma soltanto gli steroidi e la trasformazione dei metaboliti.
Nella guerra fredda del doping sono entrati in scena anche i servizi segreti russi (che avrebbero sostituito a Sochi, durante le Olimpiadi invernali del 2014, le provette dei loro atleti), poi gli hacker che si sono introdotti nel database della Wada, divulgando informazioni riservate su alcuni atleti di vertice statunitensi. Lo stesso Rodchenkov, prima complice del sistema, poi accusatore, ha detto agli americani che per “coprire” gli intrugli che egli stesso dava a ragazzi e ragazze, faceva bere loro del Chivas e del Dry Martini.
Chissà quali retroscena tra Cremlino e Casa Bianca nascondono queste vicende. Il doping di Stato è stato praticato ed è praticato da tutte le maggiori potenze (vogliamo parlare della Cina?). Modestamente lo abbiamo praticato anche noi, ad esempio nell’atletica leggera, quando fioccavano le medaglie e Sandro Donati, il grande accusatore, veniva messo all’indice. Con Coni e federazioni benedicenti.

Rassegniamoci: non ci sarà mai uno sport pulito. Alla prossima puntata.