Quella tenerezza da sognatore anarchico che cantava graffi indelebili. Così era Claudio Lolli
A Bologna, nel 77, non si dormiva. Quell’anno era una specie di alba non matura, persistente, che tuttavia si offriva come tappeto quotidiano, lungo un numero indefinito di ore, su cui giocare un milione di cose. E quel tempo chiuso tra buio, neon e riflessi gialli nelle pozzanghere era il fondale in cui si muoveva tutto ciò che diceva di no al “normale accadere delle cose”, in altre parole alla volontà di un sistema che pareva inattaccabile e capace di ogni nefandezza pur di non farsi fregare.
Nel Sessantotto si dormiva, sulla sabbia, nelle aule occupate, nei sottoscala degli amici. Nel Settantasette no, si provò a tirar diritto, dopo aver sgretolato la graziosità della cornice con cui si era sistemato il ricordo del Sessantotto. Una cornice di eroi e di gesta ingenue e per questo romantiche che il Settantasette rifiutava senza rancore. E anche il linguaggio poetico legato a quei tempi inasprì le sue parole, le spogliò dei merletti, smise di cercare l’acuto, vagò con dolce acidità, umanissima e nuova, nelle serate in osteria come a casa con i compagni e gli amici, nelle notti senza fine tra una piazza e una scala, un tappeto e un divano sfondato.
Bologna, poi, era speciale, lo è sempre, ma allora il rosso tramonto dolomitico dei suoi mattoni parve la culla perfetta per quell’alba estenuata, mai andata fino in fondo. Fantastico ancora che in quell’anno non si avesse alcuna idea di verso dove fosse il caso di partire, muoversi, il sol dell’avvenire pareva di cartone e non scaldava il cuore. Ci si guardava attorno, si sperimentò l’ebbrezza dell’esser senza famiglia, con misurata crudezza e insieme convinti d’esser alla fondazione di una nuova mitologia contemporanea, anti-mitologica per vocazione e niente citazionista, finalmente, perché non gliene frega nulla di far bella figura.
E’ qui che nasce la lingua di Claudio Lolli, seduto su questo muretto bolognese, tra le quattro e le cinque del mattino, “l’angoscia e un po’ di vino”, musica acida accanto alle chiappe di Andrea Pazienza, di Francesco Guccini, e di tanti altri scorbutici di genio. Ma nemmeno scorbutici, no. Beh sì, un po’sì. Ma non antipatici, questo è sicuro. E soprattutto uniti da una sorta di inter-bolognese della tenerezza, anche questo è interessante: Andrea toglieva la pelle con le sue storie, spesso le finivi e avevi la sensazione di aver fatto la doccia sotto una sparasabbia, ma era capace di mostrare tenerezze infinite, e questo vuol dire che dedicava alle cose uno sguardo implacabile ma anche, in fondo, ricco d’amore per l’umanità e i suoi destini.
Quanto somiglia Pazienza a Lolli in questa disposizione dell’anima, quanto tutti e due sono fratelli in umanità e poesia di quel tenerissimo orso di Guccini. Lolli era un maestro in questo trecking così organizzato: si tratta di entrare nel tormentoso gioco della vita senza risparmiarsi riuscendo tuttavia ad uscirne, nel caso, ancora morbido nel cuore. Che poi è il gioco dei giochi. Guccini prende la palla e la butta fuori campo, carambola giusto per tornare e finire dritta nel canestro: cavalca l’epica, la produce, ha quel senso che hanno i cantori della storia e del futuro, i medium del Grande Pendolo.
Lolli è uno che si fa tutto il campo, gran camminatore di una poesia discreta, niente intimista ma moderatamente socievole. Presente, partigiana, mentre si sposta con leggerezza nei grandi fuochi che ardono sulla terra e attorno a noi. E racconta, seguendo la vitalità e l’ingegneria di un albero, con composizioni di parole, grappoli di parole che incendiano scenari sostituiti un istante dopo da altri fondali, in una sequenza ritmica di immagini e contesti che saltano dal privato al pubblico, al grande pubblico. Gli viene facile. È un poeta naturale, non nasce sulle ali della tecnica, benché non la disdegni. E’ più figlio di Prévert che di Borges, ecco.
Ma è la gentilezza non remissiva che attraversa tutta la sua opera a fare di Claudio Lolli uno dei migliori testimoni della qualità della cultura del mondo poetico, cantautoriale, intellettuale, politico, che stiamo disgraziatamente lasciando alle spalle. Lo stile morbido e insieme graffiante e forte con cui ha attraversato l’intera sua vita racconta la sua storia, di sicuro, ma anche quella di altri suoi geniali compagni di strada non solo bolognesi, pur suonando come un inno alla indiscutibile singolarità del suo “io”.
Nell’intervista (qui) frutto di una ennesima chiacchierata telefonica con lui, Claudio fa un’affermazione importante: gli piace essere un morbido che dice cose atroci. C’è riuscito. Grande scuola, una delle sue gambe affonda nella storia del cantautorato politico italiano, e quell’oscillazione tra tenerezza – d’animo – e atrocità dei racconti, è stata messa a punto proprio da un decano di quella misconosciuta fucina di arte: Fausto Amodei, l’amarissimo che fa benissimo, un vero maestro, sul campo.
Compagno Claudio Lolli, sì. Parlar con lui era stare in famiglia. Niente di esclusivo, anzi: solo molto domestico. Compagno anarchico, devo dire. Con la gioiosità mai spenta del poeta anarchico, con la abrasiva capacità di svolgere aspre letture del mondo senza ammorbidente e senza filtri, con la ragionevolezza accarezzata dal senso profondo del bene collettivo di un sognatore anarchico. Claudio era una persona, lo giuro, felice, e questa sua felicità la racconto con enorme soddisfazione.
Ci lascia Claudio Lolli, zingaro felice e impenitente che cercava amore e sinistra.