Da Gino Strada a Enrico Berlinguer: la sottile linea rossa di due storie

Ma che cosa c’entra Gino Strada con Enrico Berlinguer? Quali elementi possono mai collegare la missione umanitaria del fondatore di Emergency alla battaglia politica del segretario del Pci? Qualcuno forse storcerà il naso difronte a questo parallelo, che in apparenza sembra alquanto azzardato ma che in realtà non lo è affatto. Questa suggestione – chiamiamola così – mi è venuta leggendo il bel libro di Strada “Una persona alla volta”, curato dalla moglie Simonetta Gola (Feltrinelli, 16 euro). Non si tratta della semplice autobiografia postuma di un uomo che, con il suo impegno sempre in prima linea, ha segnato la storia del fronte anti-guerra degli ultimi trent’anni. Credo che questo libro abbia un altro significato, molto più forte: è un potente j’accuse contro i signori della guerra, contro le ingiustizie, contro le disuguaglianze che minano il nostro mondo, contro il profitto dei produttori di armi, contro l’indifferenza, contro l’incapacità della politica. Contro quel sistema - fatto di interessi, finanza, potere – che rischia di distruggere quella idea di comunità che è una delle radici della storia di Gino Strada.

Scorrendo queste pagine, in un viaggio drammatico sempre dentro il conflitto tra la vita e la morte, tra il bene e il male, troppo spesso mi è venuto in mente Berlinguer. Mi sono chiesto perché ho sentito che tra loro potesse esserci un legame. Quale filo può collegare le loro storie? Non credo che Strada e Berlinguer si siano mai incontrati personalmente. Quando Berlinguer diventa segretario del Pci, nel 1972, Strada è uno studente della Statale di Milano, fa parte del Movimento studentesco con il quale i comunisti hanno avuto un rapporto diretto anche se a tratti molto conflittuale. Quando Berlinguer muore, nell’84, Strada si è appena specializzato e non ha ancora iniziato la sua lunga marcia professionale. Tra i due però, secondo me, ci sono alcuni tratti in comune. Credo siano sostanzialmente tre e tengono insieme le idee, le visioni del mondo, le utopie e l’umanità di due personaggi così diversi.

 

Primo: niente spazio per la guerra

Tutti e due hanno una visione del mondo nella quale non c’è posto per la guerra. Scrive Strada: “Non sono un pacifista, sono contro la guerra”. Anche Berlinguer non si è mai definito un pacifista ma si è battuto fino alla fine per il disarmo. A un certo punto nel libro Strada si chiede: “Immaginare un mondo senza guerra è un’utopia? Utopia è il nome dei desideri, dei progetti, delle idee che possono diventare realtà”. Molti anni prima, nel 1984, Berlinguer disse in un’intervista sul futuro rilasciata all’Unità: “Credo che sia sempre più forte il bisogno di reinvestire la politica di pensieri lunghi, di progetti. Il disarmo totale può essere considerato una utopia? Io dico di no perché credo che esso sia una necessità”.

Sentite quale assonanza di pensiero c’è tra queste affermazioni. Sia Strada che Berlinguer sapevano che l’accusa di essere degli utopisti era usata strumentalmente contro di loro. Erano infatti convinti che solo l’utopia consenta di raggiungere risultati reali, concreti. Erano animati tutti e due, certo in modi diversi, da un’idea della politica che significa fare, impegnarsi per gli altri, battersi per il cambiamento. Dice Berlinguer in un altro articolo: “Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita”.
Ora, anche in questa frase io ritrovo tutto l’impegno, l’ostinazione, il coraggio di Strada che ha riempito la propria vita mettendosi al servizio dell’uomo. E proprio per questo all’inizio della sua carriera, come racconta nel libro, rinuncia a un lavoro bene retribuito in un ospedale americano. “Che senso ha – si chiede – lavorare in un Paese dove per essere curati devi tirare fuori la carta di credito?”.

Secondo: un'idea forte della comunità

Sia in Strada che in Berlinguer è centrale la convinzione che solo un forte spirito di comunità possa aiutare a cambiare il mondo. Per Strada questa idea nasce da una città operaia come Sesto San Giovanni, passa per un padre che lavora in fabbrica alla Breda, incontra l’antifascismo che entra nel sangue e poi la sinistra che segue nelle battaglie del ‘68 con il Movimento studentesco. Per arrivare infine alla sua grande passione: la chirurgia che serve a salvare vite, a ridare speranza. A fare per risolvere i problemi. Scrive nel libro: “Ho scritto queste pagine perché queste sono le mie radici: la politica, l’antifascismo, la passione per la medicina”. Da Sesto quello spirito di comunità si allargherà a tutti gli uomini e le donne che hanno lavorato con lui negli ospedali nelle diverse zone di guerra dove ha agito.

Anche Berlinguer conosce questo spirito di comunità grazie al Pci, alle battaglie per la dignità dei lavoratori nella sua Sardegna dove inizia l’attività politica. E a quella comunità di uomini e di donne, che credono in un mondo più giusto nel quale si abbia da ciascuno secondo le sue capacità e si dia a ciascuno secondo i suoi bisogni come diceva Marx, dedicherà tutta la vita. Fino a quell’ultimo comizio di Padova che ci ha lasciato l’immagine tragica di un uomo che muore sul campo. Strada muore ancora giovane, anche lui sul campo, dopo una lunga attività usurante. “Sono un paziente mio malgrado – scrive dopo aver scoperto i propri malanni – per i tanti problemi che ho sempre trascurato e che mi hanno presentato il conto con l’aggravante di anni di interessi”.
Sia l’uno che l’altro vivono quindi dentro le loro comunità – quella della militanza politica nel Pci Berlinguer, quella della militanza medica in Emergency Strada – e proprio per questo non sentiranno mai il bisogno di parlare agli altri usando l’”io” che invece domina oggi nel nostro mondo prigioniero dell’individualismo spinto. Sia Berlinguer che Strada parlano al plurale, dicono “noi” perché sentono di appartenere a una comunità, senza la quale non sarebbero diventati Strada e Berlinguer.

Terzo: il senso di una sconfitta

Un altro elemento, purtroppo, avvicina Strada e Berlinguer: è la sconfitta. Sono due uomini che, in modi diversi, escono sconfitti. Vivono una certa solitudine, nonostante l’affetto e il sostegno che ricevono. Sono due uomini sconfitti perché il mondo che loro volevano cambiare è andato da un’altra parte, molto lontano dalle loro idee e dalle loro speranze.

Per Strada la sconfitta riguarda la prosecuzione delle guerre nel mondo e la sanità ridotta a un affare privato. Oggi, nel momento in cui assistiamo a un’altra assurda guerra alle porte dell’Europa, sentiamo che la sua battaglia strenua contro le bombe che uccidono i civili e mutilano i bambini con degli aggeggi infernali che somigliano a giocattoli, subisce uno scacco. Ugualmente la sanità intesa come bene pubblico viene sacrificata sull’altare del profitto e degli interessi privati, come ha dimostrato la pandemia. Allo stesso modo Berlinguer è un leader solo, anche lui esce sconfitto nella sua battaglia per un mondo più giusto e senza guerre e contro la degenerazione dei partiti che “hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni” a cominciare dalla sanità, come disse in una famosa intervista rilasciata a Eugenio Scalfari nel 1981. Viene fermato da un coacervo di forze interne e internazionali che impediscono – anche uccidendo, come accade, tra i molti altri, anche ad Aldo Moro che era l’interlocutore principale della strategia berlingueriana - che il Pci vada al governo in condizioni di normalità e si avveri il sogno di un paese libero e di un mondo in cui i blocchi armati contrapposti non esistano più.

Sono questi i tre motivi – certo arbitrari, come arbitrari sono spesso i nostri ragionamenti - per i quali la lettura di questo volume mi ha portato da Gino Strada a Enrico Berlinguer. Qualche giorno fa, durante una presentazione del libro sulla soglia di Vald’O a San Quirico d’Orcia – uno splendido luogo di incontro e di cultura animato da Antonio Cipriani e Valentina Montisci – uno dei partecipanti mi ha quasi rimproverato perché ho parlato di Strada e di Berlinguer come di due grandi sconfitti. “E quindi, secondo lei – mi ha chiesto – non c’è più speranza?”.

Essendo cresciuto leggendo le pagine di Antonio Gramsci che invitava, difronte al pessimismo dell’intelligenza, a usare l’ottimismo della volontà, non dirò che non c’è più speranza. La speranza c’è e nasce proprio delle idee di questi due grandi sconfitti. Credo infatti che, nonostante abbiano perso le loro battaglie, restino due uomini importanti che ci lasciano una grande eredità di intuizioni, di passioni, di utopie. Con le loro belle storie ci spronano a batterci affinché un altro mondo, meno cattivo e meno ingiusto di quello in cui viviamo, sia possibile. E ci dicono pure – e non è un fatto secondario in una fase di grande disorientamento – che, a dispetto della sua eterna vocazione a frantumarsi in mille pezzi, la sinistra se vuole può trovare la sua unità anche quando sembra così diversa, come nel caso di Gino Strada e Enrico Berlinguer. Basterebbe, come loro, avere la pazienza e l’umiltà di cercare ancora, avendo come bussola il bene comune e non quello personale. Su questa strada vedrete che alla fine saranno di più le cose che uniscono di quelle che dividono.

 


Quell'urgenza di riscoprire il pensiero
di Gorrieri e dei cattolici di sinistra

Gli affanni della sinistra cominciano qui, dai molti spread di ricchezza, di opportunità, di diritti, di aspettative, di mobilità sociale, di sostenibilità ambientale, che non si riescono a colmare. E sui quali la sinistra ha dato non di rado l’impressione di essersi arresa. Forse merita maggiore attenzione ciò che da tempo scrive Mario Tronti: la stessa idea progressista, declinata come fede indiscussa nella modernità, ha contribuito a disarmare la cultura e lo spirito critico nel campo della sinistra. Il Progresso si sta alleando con il dominio dell’economia e del profitto, esalta l’individuo e trascura la comunità, promette opportunità inedite e straordinarie, certo, ma crea anche paure e nuove, gravi iniquità. L’aspirazione alla giustizia, alla libertà eguale, alla coesione della società, alla pace non sono esaurite, anzi hanno persino accumulato ragioni più corpose, eppure le classi dirigenti faticano a esserne interpreti credibili. Lo stesso centrosinistra è sembrato espressione dei ceti più abbienti. Faticando a parlare la lingua di chi è più povero, di chi è più ai margini, di chi si sente più solo. E nei ceti più svantaggiati si guarda con speranza chi promette di forzare la gabbia delle compatibilità. Anche se queste forzature appaiono spesso irrazionali, improbabili, rischiose. Insomma, ciò che viene chiamato, forse impropriamente, populismo non riesce a nascondere i propri caratteri regressivi, eppure intercetta una domanda di politica – cioè un desiderio di cambiamento reale – a cui le forze democratiche rischiano di rispondere con una involontaria antipolitica, cioè con una resa, che muove dal giudicare impossibile, o avventurista, ogni tentativo di mutare il paradigma dominante.

Il pensiero cattolico, i movimenti d’ispirazione cristiana, la presenza dei credenti possono dare molto alla sinistra, o al centrosinistra come si vuole chiamarlo. Anche perché quando la razionalità o la mediazione non bastano a garantire una politica di avanzamento sociale, i credenti sono sfidati comunque a mettere in campo la radicalità dei valori, della coscienza, della testimonianza personale. Ai giovani della Fuci, negli anni Trenta, monsignor Giovanni Battista Montini parlava di «unità di vita e di pensiero»: una nuova politica non poteva ancora dischiudersi, ma i cattolici erano chiamati a sperimentare da subito la loro coerenza, le loro convinzioni profonde, la moralità delle loro azioni. Certo, il contesto odierno non è lontanamente paragonabile al sistema oppressivo di allora. Nessuno oggi potrebbe negare, o comprimere, il pluralismo delle opzioni politiche dei credenti. Ma non per questo ci si può rassegnare a una presenza cattolica silenziosa nella società, moderata perché ininfluente o inespressiva, inibita da quel senso comune che talvolta sembra frenare persino le espressioni concrete di solidarietà verso gli immigrati, verso chi reclama lavoro, verso i più poveri, verso chi soffre per impedimenti di ogni sorta.

Nell’opporsi a un approdo esclusivamente «socialista», Ermanno Gorrieri, già negli anni Novanta, individuava taluni segni di criticità, che potrebbero avere a che fare con alcune difficoltà di oggi della sinistra. Il problema da lui sollevato non riguardava tanto l’adesione al gruppo socialista di Strasburgo, sbocco di fatto inevitabile per il PD, il quale peraltro ha contribuito al nuovo nome «socialisti e democratici», quanto piuttosto l’illusione che un nuovo, pacifico compromesso socialdemocratico potesse stabilmente guidare la politica italiana ed europea del nuovo secolo. Sarebbe troppo attribuire a Gorrieri una capacità di preveggenza sull’egemonia che ai giorni nostri esercitano la finanza e le tecnostrutture operanti su scala globale. Ma è bene ricordare con quale insistenza, e con quali argomenti, denunciò l’aumento delle diseguaglianze già negli anni Novanta, mentre il Pil aveva preso a salire a buon ritmo e in campo erano le migliori politiche riformatrici di cui il centrosinistra è stato capace. Le riflessioni di Gorrieri possono aiutare anche un esame critico di questi ultimi anni, quando i tempi e gli spazi della politica si sono obiettivamente accorciati, i margini di bilancio drasticamente ridotti e la sinistra è apparsa assai meno capace di progettualità, a partire dal necessario rilancio dell’idea di Europa.

Anche una frattura culturale è tornata ad aprirsi. Il populismo e il leaderismo, in realtà, non hanno lasciato immune il PD, hanno venato la sua narrazione e dato l’illusione di una scorciatoia per il consenso prima di trasformarsi in valanga e abbattersi sulla sua testa. La rottamazione sembrava la bandiera vincente, strappata dalle mani avversarie, ma così non è stato. Per quanto lo sforzo di ricomposizione possa apparire fuori moda, continua a essere improbabile una rigenerazione democratica senza che alla sua base vi sia una solida cultura costituzionale, un senso condiviso della storia, un’idea di politica che non cancelli, e anzi valorizzi, le forze sociali, la loro autonomia, e la faticosa ricerca di una nuova mediazione per il bene comune.

I Cristiano sociali hanno compiuto il loro cammino. Ma quanto ci sarebbe bisogno di un movimento come i Cristiano sociali per incalzare ancora il centrosinistra, nel confronto costante con la realtà che cambia e per verificare se il PD possa rigenerarsi e servire non solo a sé stesso ma allo sviluppo e alla giustizia del Paese! Le domande sul futuro del PD, e della politica italiana, sono aperte. Domande legate, più di quanto talvolta non si pensi, al destino dell’Europa. Le risposte positive dipendono molto dalla voglia di dare ancora battaglia, di produrre idee e buone pratiche, di costruire comunità che sappiano camminare insieme.

 

“Da credenti nella sinistra. Storia dei cristiano sociali 1993-2017” di Carlo Felice Casula, Claudio Sardo e Mimmo Lucà (edito da Il Mulino, con prefazione di Romano Prodi). È un libro che ricostruisce la storia dei Cristiano sociali, nati nel ’93 dall’iniziativa di gruppi cattolici e di personalità tra cui Ermanno Gorrieri e Pierre Carniti, che compirono la scelta a sinistra all’indomani della legge elettorale maggioritaria e poi contribuirono dall’interno dei Ds alla costruzione del Partito democratico. La vicenda politica del movimento dei Cristiano sociali può dirsi conclusa, e tuttavia resta un’eredità ricca e problematica, che riguarda certamente l’impegno politico dei cattolici – oggi di fronte a un magistero così esigente sul piano sociale come quello di Papa Francesco –, ma non di meno la sinistra ampiamente intesa, che dal “camminare insieme” con tanti credenti può trarre ancora pensiero, progetti, spunti vitali per fare i conti con la propria crisi e affrontare il tempo nuovo.  

 Questo brano è tratto dalla parte conclusiva del testo di Claudio Sardo